FANTASCIENZA STORY 264

SEQUEL E PREQUEL (2017)

Iniziamo il 2017 con Transformers: L’ultimo Cavaliere (Transformers: The Last Kinight) di Michael Bay, quinto capitolo della saga Transformers, che segna il ritorno di Steven Spielberg come co-produttore. Stavolta si scomoda il mito della Tavola Rotonda di Mago Merlino, a cui viene dato il titolo di primo scopritore terrestre dei Transformers. Si scopre anche come sono nati i Transformers sul pianeta Cybertron: creati dalla malvagia dea Quintessa, che ora vuole rivitalizzare il pianeta a danno della Terra. Torna Mark Wahlberg nel ruolo dell’inventore Cade, e come ospite di stra-lusso abbiamo nientemeno che Anthony Hopkins, in uno spassoso ruolo comico. Gran parte del film è ambientato nel Regno Unito, e i personaggi femminili hanno più spessore del solito, come la giovane Izabella (Isabela Moner), orfanella “adottata” da Cade, e Viviane (Laura Hadock), bella professoressa discendente di Merlino. Per il resto, spettacolo abbacinante, visivamente ancor più curato del solito, ma anche una sceneggiatura che non brilla per coerenza e solidità. Ma del resto chi guarda un film dei Transformers per la sua trama?

Veniamo ora a Star Wars VIII – Gli Ultimi Jedi (Star Wars VIII: The Last Jedi) di Rian Johnson. Dopo la morte di Han Solo, Rey rintraccia Luke Skywalker nella sua isola deserta, e cerca di convincerlo a insegnarle la Forza, mentre lui vorrebbe chiudere con il passato e con lo stesso ordine, in preda a un misterioso rimorso. Contemporaneamente, il Primo Ordine ha rintracciato la base segreta della Resistenza, guidata da Leia Organa. Kylo Ren si prepara ad attaccarlo, ma sulla sua strada troverà Rey, finalmente addestrata da Luke… La saga continua, con un film di grande successo al box-office, che come al solito ha diviso i gusti dei fan. Se il mio parere conta qualcosa, lo trovo un film che sfrutta all’osso un filone ormai consunto, che per giunta mostra grande sprezzo del ridicolo nelle scene di combattimento e di levitazione (indifendibile quella di Leia a zonzo nello spazio).

In The War – Il Pianeta delle Scimmie (War for the Planet of thr Apes) di Matt Reeves ci troviamo due anni dopo la morte di Koba e l’inizio della guerra fra le scimmie e gli umani sopravvissuti all’epidemia di “influenza scimmiesca”, mentre la comunità di scimmie guidata da Cesare (Andy Serkis) si rifugia nelle foreste dell’Oregon. Dopo una battaglia vinta contro l’esercito americano, Cesare offre una trattativa di pace con il suo comandante, il colonnello J. Wesley McCullough (Woody Harrelson), ma questi reagisce con un raid in cui uccide la moglie e il primogenito di Cesare. Messo al sicuro il figlio minore Cornelius, Cesare manda la sua gente nel deserto per fondare una nuova comunità, e parte per la California alla ricerca del colonnello, deciso a vendicare i suoi cari. I suoi fedeli amici, l’orangutang Maurice (Karin Konoval), il gorilla Luca (Michael Adamthwaite) e lo scimpanzè Rocket (Terry Notary) lo seguono, e prima di raggiungere la loro meta, incontrano e accolgono con loro un’orfanella umana (Amiah Miller) e lo stralunato scimpanzè Bad Ape (Steve Zahn). Ma lo scontro con McCullogh sarà spietato e imprevedibile… Terzo episodio della serie ideata da Mark Bomback e Rick Jaffa, è a mio avviso il migliore. Il regista Reeves omaggia (dire “scopiazza” pare brutto) vari classici del cinema western e bellico (Il texano dagli occhi di ghiaccio, Il ponte sul fiume Kwai, Apocalypse now), ma ne assorbe bene le atmosfere nel contesto sf e imbastisce un film avvincente e solido, nonostante qualche inevitabile ingenuità, che sfrutta abilmente gli imponenti paesaggi naturali (in realtà canadesi) e l’espressività degli attori umani, magnificamente “ridisegnati” come scimmie dalla Weta.

Con Seven Sisters (What Happened to Monday) di Tommy Wirkola siamo nel 2043, quando un aumento spropositato di parti multigemellari spinge le autorità a imporre un figlio unico alle famiglie, mentre i suoi fratelli vengono ibernati nel centro CAB, guidato da Nicolette Cayman (Glenn Close). Quando Karen Settman (Marie Everett) muore dando alla luce sette gemelle omozigote, il loro nonno materno Terence (Willem Dafoe) decide di dare a ciascuna il nome di un giorno della settimana, di nascondere sei di loro in una soffitta mentre l’altra esce, a turno, nel giorno corrispondente al suo nome, tutte assumendo la stessa  identità, di una donna omonima della loro madre. Diventate adulte (interpretate da Noomi Rapace), dopo la morte di Terence le sette gemelle continuano questo stile di vita, ciascuna dotata di una microcamera che registra le esperienze (lavorative e non) fatte nel giorno di uscita per mostrarle alle altre, in modo che chi esce il giorno seguente vi si adegui. Ma un lunedì sera Lunedì non torna a casa, e la vita della famiglia Settman sarà sconvolta per sempre… Avvincente thriller distopico, che si fa forza della straordinaria interpretazione “multipla” della svedese Noomi Rapace, che sfaccetta bene ciascuna delle sette sorelle, ben coadiuvata dagli effetti speciali in digital composing curati dalla compagnia belga Benuts, che fanno sì che le diverse sorelle appaiono in scena contemporaneamente, interagendo con grande naturalezza.

Passiamo a Valerian e la Città dei Mille Pianeti (Valerian et la Cité des mille planètes) di Luc Besson. A partire dal 1975 sempre più astronavi si aggregano alla stazione spaziale Apollo-Soyuz: prima terrestri, poi extraterrestri, al punto che la stazione, ribattezzata Alpha, finisce con il diventare una mega-struttura che rischia di cadere sulla Terra. Per evitare il disastro, Alpha parte alla volta del cosmo. Nel 2740 Valerian (Dane Dehaan) e Laureline (Cara Delevingne) sono una coppia di agenti segreti che compiono missioni per conto del governo terrestre e ricevono la missione di recuperare un replicatore, un tenero animaletto originario del pianeta Mül che ha il dono di produrre perle preziose, prigioniero nel Grande Mercato di Alpha. Svolta questa missione, il comandante Arün Filitt (Clive Owen) ne ha pronta una nuova per i due agenti, ancor più pericolosa e mirabolante, fra pianeti meravigliosi e creature sorprendenti, come la ballerina di burlesque Bubble (Rihanna), capace di mirabolanti e sensuali metamorfosi… Luc Besson adatta una celebre serie di fumetti francese, Valerian agent spatio-temporal, scritta da Pierre Christin e disegnata da Jean-Claude Mézières, il quale aveva già collaborato a Il quinto elemento (Le cinquième element, 1996) dello stesso Besson. Anche stavolta Besson scatena tutto il suo estro visivo e adrenalinico, aiutato dalle nuove tecnologie digitali e dal mo-cap, e il risultato è divertente, eccessivo, sfrontato e scanzonato. E costosissimo, dal momento che il film è considerato il più costoso film francese  (secondo Besson europeo) di tutti i tempi.

In Downsizing – Vivere Alla Grande (Downsizing) di Alexander Payne, il dr. Asbjørnsen (Rolf Lassgård) scopre il metodo per miniaturizzare massa e volume dei corpi a 1/2744 dell’originale, riducendo così, oltre alle dimensioni, anche i fabbisogni umani. Una coppia americana in crisi, Paul (Matt Damon) e Audrey (Kristen Wig), decidono di sottoporsi al trattamento e andare a vivere in un’apposita comunità. Ma all’ultimo momento Audrey cambia idea, e Paul si risveglia così solo e ridotto a 1/14 della sua altezza originale. Nella comunità Paul riesce poco alla volta a rifarsi una vita e a fare nuove amicizie, come il vicino Dusan (Christoph Waltz), il socio di questi Joris (Udo Kier) e la donna delle pulizie vietnamita Gong (Hong Chau). Quando il dr. Asbjørnsen annuncia che intende fondare una comunità sotterranea in Norvegia che salvi i suoi membri dal riscaldamento globale, Paul e i suoi amici decidono di farne parte, e inizia così il loro viaggio… Downsizing è forse l’unico film sulla miniaturizzazione che affronta anche il problema della massa: nella realtà infatti un eventuale corpo miniaturizzato manterrebbe lo stesso peso in uno spazio ridotto, con problemi facili da prevedere. Qui si spiega che anche la massa viene ridotta (ma come?), anche se questo significherebbe un ridotto numero di molecole: un altro problema che però il film non affronta. Questioni scientifiche a parte, il film di Payne è una commedia godibile, venata da una certa malinconia, ma divertente e interpretata da ottimi attori che danno una gamma di personaggi variopinta e ricca di umanità.

In Ghost in the Shell (Ghost in the Shell) di Rupert Sanders, nel futuro il confine tra umano e cibernetico si è fatto labile, e l’innesto di parti robotiche in corpi umani è frequente. Il Maggiore Mira Killian (Scarlet Johansson) è il riuscito tentativo dell’innesto di un cervello (preso da una giovane profuga sopravvissuta a un attacco terroristico) in un corpo interamente artificiale, dotato di capacità fisiche eccezionali, oltre che di una connessione alla rete digitale. Mira è membro della Sezione 9, un corpo antiterroristico guidato dal dr. Aramaki (Takeshi Kitano). Gli agenti della Sezione 9 ricevono i loro innesti cibernetici dalla Hanka, una multinazionale sotto attacco da un hacker noto come Kuze (Michael Pitt), che, dopo aver penetrato i cervelli degli scienziati della Hanka, ha iniziato a ucciderli sistematicamente. Mentre la lotta fra la Sezione 9 e Kuze continua, Mira è sempre più ossessionata dai dubbi sul suo passato e sulla vera identità della persona cui apparteneva il suo cervello. Chi era veramente? Quale segreto si nasconde dietro il suo misterioso passato? Prodotto dalla Dreamworks di Steven Spielberg, è il libero adattamento di un famoso manga giapponese, che riprende però molte scene dalla sua versione animata, realizzata da Mamoru Oshii nel 1995, a sua volta piuttosto libera rispetto al fumetto. Rispetto ad entrambe le sue fonti, il film di Sanders fa una vera e propria “occidentalizzazione” di storia e personaggi: la protagonista assume l’aspetto occidentale di Scarlett Johansson, i personaggi si dividono in buoni e cattivi, e cerca a tutti i costi di spiegare cose che l’anime lascia volutamente ambigue ed enigmatiche. Suggestive le ambientazioni, che “ricreano” digitalmente ambienti urbani reali, e ottimo il mix di effetti speciali digitali e tradizionali, questi ultimi affidati a un veterano molto noto ai fan del cinema sf anni ‘70 e ‘80: John Dykstra.

La forma dell’acqua (The Shape of Water) di Guillermo Del Toro ci porta nel 1962: Elisa (Sally Hawkins) è una donna della pulizie di un laboratorio governativo americano. Priva della parola, Elsa conduce una vita povera e solitaria, con i suoi unici amici, la collega Zelda (Octavia Spencer) e l’inquilino Giles (Richard Jenkins). Nel laboratorio un giorno viene condotto un essere anfibio (Doug Jones) dall’aspetto umanoide, ma dotato di squame, pinne e branchie. L’essere viene sottoposto a crudeli esperimenti scientifici, ma Elisa se ne innamora e decide di farlo fuggire, restando anche coinvolta in una pericolosa vicenda di spionaggio, ma cambiando così per sempre la sua vita… Il regista messicano fa centro con una pellicola, che omaggia il cinema di SF degli anni ‘50 (Il mostro della Laguna Nera in primis), e le infonde magia, poesia e sentimento in un mix che a sorpresa ha entusiasmato pubblico e critica, al punto da vincere il Leone d’Oro al Festival di Venezia 2017, e l’Oscar per il miglior film e la miglior regia nel 2018.

Concludiamo parlando di due film che portano la prestigiosa firma di Ridley Scott, entrambi seguiti di due suoi film precedenti.

In Alien: Covenant (Alien: Covenant) di Ridley Scott, nel 2104 l’astronave Covenant, diretta al pianeta Origae-6 allo scopo di colonizzarlo, subisce un incidente, e l’androide Walter (Michael Fassbender) risveglia l’equipaggio dal suo sonno criogenico. L’astronave riceve poi un messaggio da un pianeta sconosciuto, lo stesso raggiunto 10 anni prima dall’astronave Prometheus. Raggiunto questo pianeta, la comandante Daniels (Katherine Waterston) e i suoi uomini conoscono l’unico superstite di quella spedizione, l’androide David 8 (Michael Fassbender), identico a Walter perchè entrambi evoluzioni dello stesso modello. Ma incontrano anche la pericolosa fauna del pianeta, che comincia a seminare morte fra gli astronauti. Ma anche Walter ha piani minacciosi, ad esempio usare i corpi dei nuovi arrivati come deposito degli embrioni degli xenomorfi… Si tratta del seguito di Prometheus (Prometheus, 2012), a sua volta prequel di Alien (Alien, 1979), entrambi diretti dallo stesso Ridley Scott. Il soggetto di Alien: Covenant ha subito diverse modifiche e riscritture, e quindi rinvii, nel corso degli anni. A farne le spese è stato soprattutto il personaggio di Shaw, protagonista femminile di Prometheus, interpretata da Noomi Rapace, che qui è data per morta: sembra che, per misteriosi motivi, i produttori della 20th Century Fox non la volessero nel cast. Atmosfere cupe, grande inventiva pittorica, molti sottintesi mitologici e religiosi, ma anche una trama meno convincente del solito, con troppi debiti e similitudini con il primo Alien. Scott progettò altri due film che avrebbero dovuto fare da ponte fra la linea narrativa di Prometheus e quella di Alien, ma la Fox trovò deludenti gli incassi di Alien: Covenant e decise di interrompere la serie.

Infine parliamo di Blade Runner 2049 (Blade Runner 2049) di Denis Villeneuve. Los Angeles 2049. K (Ryan Gosling) è un blade runner, un cacciatore di replicanti, ma è un replicante lui stesso, dotato di memorie innestate dalla Wallace, la società che ha rimpiazzato la Tyrell nella loro costruzione in seguito alla rivolta del 2022. Dopo aver ritirato il replicante Sapper (Dave Bautista), lo scheletro di una replicante femmina viene trovato sepolto nel suo giardino, e si scopre che costei ha avuto una gravidanza. Gli esami rivelano che la replicante è Rachel (Sean Young), scomparsa da 30 anni insieme al blade runner che doveva ritirarla, Rick Deckard. Ma com’è possibile che un vecchio replicante Nexus 6 si sia riprodotto? Joshi (Robin Wright), il capo di K, lo incarica di rintracciare Rick e risolvere il mistero. Ma Niander (Jared Leto), proprietario della Wallace, affida alla replicante Luv (Sylvia Hoeks) la stessa missione… 35 anni dopo Blade Runner (Blade Runner, 1982), finalmente il suo regista Ridley Scott riesce a realizzarne il seguito, dopo molti copioni scritti e riscritti, e soprattutto dopo aver vinto le resistenze di Bud Yorkin, produttore del primo film e detentore dei diritti, che sempre s’era opposto ai progetti di Scott (ma anche di altri). Scott ne affidò il copione a Hampton Fancher, autore della prima stesura del copione di Blade Runner, ma alla fine, oberato dagli impegni, si limitò a produrre il seguito, affidandone la regia all’astro nascente Denis Villeneuve. Blade Runner 2049, come prevedibile, divise pubblico, critica – e soprattutto fan – fra chi apprezzava la regia visionaria di Villeneuve e chi rimpiangeva l’irripetibile poesia del primo film. Per evitare la suscettibilità di entrambi i “partiti”, evito di dare un commento personale su Blade Runner 2049, ma mi limito a riferire una mia personalissima impressione: il momento che mi ha più emozionato è stato il cameo di Edward James Olmos, che riprende i panni del cinico, ma in realtà generoso, blade runner Gaff.

Mario Luca Moretti