MASCHERE E MASCHERE: REVISIONISMO DEI SUPEREROI CINEMATOGRAFICI E COMMEDIA RIFORMATA

Come sanno bene gli appassionati di comics, nel 1986 nasce il revisionismo (1) dei supereroi a fumetti con Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller e Watchmen di Alan Moore, revisionismo che successivamente troverà terreno fertile nel cinema con opere come quelle di Tim Burton (il dittico Batman, 1989, e Batman – Il ritorno, 1992) e di Christopher Nolan (la trilogia Batman Begins , del 2005, Il cavaliere oscuro, 2008 e Il cavaliere oscuro – Il ritorno, 2012) (2). Burton e Nolan ridisegnano la figura di uno dei supereroi più universalmente noti e longevi (la data di nascita di Batman è infatti il 1939) e di tre dei suoi più celebri nemici (Joker, Pinguino e Catwoman) basandosi molto liberamente sulla storia di Miller – che detto fra parentesi non fu certo tenero nel giudicare le pellicole dell’autore di Memento (3) – storia nota a un pubblico che si può definire abbastanza ristretto rispetto a quello di massa delle sale cinematografiche (e su quanto esso sia di massa torneremo più avanti parlando di cifre incassate al botteghino). Entrambi i registi tentano di riformare i supereroi nel senso di dare loro una maggiore verosimiglianza, alla maniera di un’estetica illuminista, sia pure senza scordarne il simbolismo, e anzi in alcuni casi accentuandolo fino al punto di creare veri e propri miti contemporanei.

Prima del 1986, Superman e soci erano un po’ come la Commedia dell’Arte del 1700 prima di Goldoni: questa, nata nel 1500, aveva raggiunto il suo periodo di massima diffusione nella seconda metà del ‘600. Nel secolo dei Lumi, però, era ormai diventata una stanca riproposizione di se stessa: le maschere insterilite, la comicità nettamente involgarita e l’improvvisazione degli attori, che recitavano senza un copione scritto, troppo scontata e convenzionale. E dire che la potenzialità culturale della Commedia dell’Arte era notevole, visto che a differenza della tragedia si rivolgeva a un pubblico decisamente più ampio, anzi prima di tutto popolare… Allo stesso modo i supereroi nel secondo dopoguerra vivevano un’esistenza legata a un pubblico giovanile che con il progressivo affermarsi dei mezzi di comunicazione di massa metteva sempre più da parte la carta stampata a favore di spettacoli decisamente tecnologici come quelli che potevano offrire il cinema o la tv. La traduzione del fumetto di supereroi in immagine filmata, tuttavia, non diede risultati troppo interessanti in termini estetici e ideologici; i protagonisti risultavano infatti piatti e stereotipati e le storie scontate: prodotti volutamente da giardino d’infanzia, insomma, come dimostrano ampiamente il Superman televisivo, che pure andò in onda dal 1952 al 1958, quindi con un vasto successo di pubblico, e il film Batman del 1966, più ironico e volutamente camp, con le sue scazzottate scandite a tempo di musica durante le quali sullo schermo comparivano le onomatopee tipiche dei comics (tutti elementi caratteristici dell’omonima serie tv dalla quale venne tratto) (4). Per dare l’idea del successo popolare del personaggio negli USA basti ricordare questo episodio emblematico: il 16 marzo 1966, mentre a bordo della navicella Gemini 8 gli astronauti Neil Armstrong e David Scott stavano lottando per rientrare sani e salvi sulla Terra a causa di un problema tecnico, l’ABC interruppe la messa in onda del telefilm Batman per dare la notizia in diretta, ma la reazione dei telespettatori fu incredibile: arrivarono ben 1400 telefonate di protesta (5)! Ciò dimostra una volta di più come quello che è oggettivamente importante (in quest’ultimo caso direi addirittura vitale) e quello che è importante per il pubblico viaggino ormai da lungo tempo, o forse da sempre, su binari completamente diversi.

Negli stessi anni ’60, tuttavia, ci fu anche chi non si accontentò dei personaggi già esistenti e abbondantemente sperimentati: i supereroi trovarono così una loro prima riformulazione nei comics con Spiderman, Hulk, Daredevil e Doctor Strange, tutti tenuti a battesimo da Stan Lee. In effetti, come la Commedia dell’Arte prevedeva un repertorio alquanto ripetitivo non tanto di parole quanto piuttosto di azioni (più lazzi che frizzi, insomma), capaci di generare dei “tipi” della quotidianità cristallizzandoli nelle maschere che ancora oggi tutti conosciamo (il servo stupido, Arlecchino; quello dotato di spirito d’iniziativa, Brighella; o truffaldino, Pulcinella; la cameriera pettegola, Colombina; il soldato colto e di buon senso, Capitan Spaventa; il mercante vecchio e avaro, Pantalone; e via dicendo), così  le storie dei supereroi presentavano fin dai loro inizi una lotta fracassona fra Bene e Male involutasi però nell’arco dei decenni in stucchevolezze e ripetizioni, se si esclude la dose di inventiva necessaria agli autori per creare protagonisti dotati di un solo potere o di una sola qualità elevata a  potenza: l’ideologia (il nazionalismo del primo Capitan America), la forza bruta (La Cosa), l’invisibilità (nome didascalico: la Donna Invisibile), la capacità di allungare a piacere il proprio corpo (Mister Fantastic, con tutti  i sottintesi sia erotici che freak del caso), l’animalità (Catwoman), l’umorismo (Mister Mxyzptlk), le forze elementali (il fuoco nel caso della Torcia Umana), la sovrumanità (extraterrestre, con Superman, o divina, con Thor) ecc. ecc. (6).

Il problema a cui Lee cercò di dare una prima risposta, parziale e sbagliata fin che si vuole ma comunque necessaria per preparare il terreno a ciò che sarebbe venuto dopo, era rendere almeno alcuni dei nuovi supereroi più problematici all’insegna di due suoi celebri aforismi: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” e “Super poteri e super problemi”. Per venire a degli esempi, è innegabile infatti che Hulk sia una sorta di Dottor Jekyll/Mister Hyde riveduto e corretto al ribasso e Spiderman (si tenga presente che Peter Parker è un giovane, non un uomo) presenti delle sfaccettature psicologiche certo sconosciute ai supereroi del passato, ma nelle quali un adolescente americano degli anni ’60 poteva agevolmente identificarsi: l’eroismo nell’incertezza della propria identità, ancora tutta da costruire. Proprio nell’età – e quindi nella possibilità di riconoscervisi dei suoi lettori – sta uno dei motivi del successo planetario dell’Uomo Ragno: i giovani, infatti, come categoria sociale nascono e diventano un mercato di vitale importanza soltanto nel secondo dopoguerra, non certo all’epoca delle prime tavole di Batman o Superman. In maniera sotto certi aspetti simile a quanto attuato da Lee, per la commedia fra Seicento e Settecento “il bisogno di una riforma (7) nasce già nello spirito del razionalismo arcadico che aspirava alla semplicità, all’ordine razionale, al buon gusto. Già in ambito arcadico erano nati tentativi di riforma da parte di alcuni autori toscani (Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli, Girolamo Gigli), ma i loro tentativi erano solo letterari e confinati nel chiuso delle Accademie” (8): sarà poi Goldoni a portarli a una realizzazione ben più concreta. Negli anni ’70 del Novecento, il fumetto in generale diventò sempre più un mezzo d’espressione elitario, che annoverava fra i propri lettori soprattutto una fascia di giovani o adulti di cultura medio-alta, ai quali non si poteva dare in pasto niente che fosse al di sotto di “Mètal Hurlant” come rivista e di Contratto con Dio come storia.

Superati gli anni ’70 questa evoluzione accelerò bruscamente con i citati Miller e Moore. Il salto verso una sempre più evidente ricerca della tridimensionalità dei supereroi si dimostrò in piena sintonia tanto con i gusti dei lettori di fumetti quanto degli spettatori; inoltre, fatto tutt’altro che secondario, poiché il pubblico delle sale cinematografiche era assai più ampio di quello dei comics ciò significò che Burton e Nolan ebbero fruitori di ogni condizione sociale e di ogni età, precisamente come Goldoni: sia gli uni che l’altro, come vedremo, seppero sfruttare nella maniera migliore le congiunture storico-sociali che si trovarono a vivere. Il commediografo veneziano intervenne sulle maschere popolari citate con cambiamenti graduali, così da fare in modo che il pubblico si abituasse progressivamente ai mutamenti (proprio per questo si parla di riforma e non di rivoluzione): dal Momolo cortesan (1738), nel quale era scritta per intero soltanto la parte del protagonista, a La donna di garbo (1743), prima commedia con copione. Con le sedici commedie nuove, scritte per la stagione 1750, la riforma poteva ritenersi compiuta, nonostante le opere goldoniane ai loro inizi avessero trovato l’opposizione tanto degli autori più tradizionalisti quanto di attori e pubblico; fra esse spicca soprattutto La bottega del caffè (1750) in cui è l’ambiente (un campiello veneziano) a diventare il protagonista della commedia. Per avere un’idea dei risultati ottenuti da Goldoni, potremmo dire che lo si può paragonare, beninteso per eccesso, a quanto Burton e Nolan messi insieme fecero in termini di rinnovamento del cinema dei supereroi.

Ristabilito il senso delle proporzioni (un gigante sta (a) oltre due ottimi artisti), veniamo ora a esaminare l’intelligente lavoro riformatore sulle maschere del Novecento che svolse la coppia di registi americani, senza dimenticare però di soffermarci per un momento sul loro impatto al botteghino: Batman incassò 411 milioni di dollari (9),  Batman il ritorno 266 milioni (10),  Batman Begins intorno ai 374 milioni (11), Il cavaliere oscuro all’incirca un miliardo e quattro milioni (12), Il cavaliere oscuro – Il ritorno un miliardo e ottantacinque milioni (13). L’elenco, dal quale viene escluso il mercato dell’home video, è utile per comprendere meglio l’enorme diffusione che queste opere ebbero su di un pubblico planetario, in alcuni casi arrivando forse a modificarne l’immaginario proprio per la loro amplissima circolazione.

In Batman Tim Burton gira un film su Joker piuttosto che sull’uomo pipistrello: Jack Nicholson, però, coi suoi tipici birignao antepone se stesso al personaggio e rischia di rovinare tutto, anche se almeno parzialmente viene salvato dalla sceneggiatura: Jack Napier (14) resta se stesso fino al bagno nell’acido, che avviene parecchi minuti dopo l’inizio della pellicola, garantendo così una solida personalità al nostro antagonista, pienamente storicizzato: egli diventa una tremenda macchietta, come Mussolini o Hitler, solo dopo un lungo processo in cui è la stessa verosimiglianza (l’incidente che lo sfigura) a spolparne il volto trasformandolo in simbolo. Al contrario Batman si mostra subito come maschera – ahimè –  bidimensionale, e anche quando non ce l’ha, Michael Keaton non rende affatto credibile il suo Bruce Wayne. Insomma, Nicholson è “troppo” Joker, mentre Keaton è “troppo poco” Batman. Altri salvagente lanciati dalla sceneggiatura in perfetta sintonia con l’esperienza quotidianamente traumatica (ogni volta che si guarda allo specchio) di Joker: la sequenza nel museo d’arte, con la simbolica distruzione di TUTTA la pittura tranne quella di Bacon (a Bob che vuole deturpare la tela dell’artista britannico, il re nero dei clown dice di lasciar stare perché quello è il suo genere) e, in seguito, di TUTTA la fotografia tranne il reportage con cadaveri mostratogli da Vicky; infine, la body art dell’ex Jack Napier, degna del più oltranzista degli azionisti viennesi: Alicia sfigurata, jokerata. Il décor gotico, già originariamente tipico dell’uomo pipistrello, calza a pennello a Burton, al quale non pare vero di poterlo accentuare con statue fra neomedievo e monumentalismo fascista; dulcis in fundo in tanta oscurità, ecco un carro carnevalesco dove è collocato un gigantesco personaggio, minaccioso per la sua espressione infantile ai confini dell’ottusità di una gallina, che si aggira per le vie di Gotham. Su di esso troneggia Joker, intento a distribuire denaro a palate ai cittadini.

Batman – Il ritorno è una meravigliosa fiaba nera fin dal principio del principio, con la neve che cade sul brand della Warner Bros. Burton è qui al suo meglio soprattutto con inquadrature “qualunque” in campo medio: per esempio Bruce Wayne nel momento in cui viene chiamato dal segnale di Batman o l’Artic World nello zoo,  o ancora Catwoman alla sua prima apparizione, ripresa da fuori la casa di Selina; infine, semplicemente la folla assiepata dietro il cancello del cimitero – tutto quanto c’è di impoetico diventa sfida fotografica. Vinta. Ancor più del primo film batmaniano, questo è incentrato sulle figure di due degli antagonisti più celebri del Pipistrello, Pinguino e Catwoman. Per quanto riguarda il primo, c’è una notevole differenza rispetto al Joker di Nicholson: De Vito, infatti, non toglie spazio a Oswald Cobblepot rendendolo credibile come mostruosità rifiutata fin dalla sua nascita e destinata alle fogne dai propri genitori, fra sessualità a stento repressa e crudeltà espressa. Quanto a Michelle Pfeiffer nei panni di Selina Kyle, direi che è meglio lasciar perdere (in qualche misura più convincente nella parte risulterà semmai Anne Hathaway, che reinterpreterà la Donna Gatto ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno); anche Michael Keaton pare ingessato come al solito. In un’opera in cui non sono gli esseri umani a prendersi cura degli animali, ma gli animali degli esseri umani (i pinguini e i gatti, che salvano rispettivamente Oswald e Selina), la scena madre dell’opera esordisce con queste ultime parole famose del Pinguino a Batman: “Ti ammazzerò immediatamente, ma prima ho bisogno di rinfrescarmi con un po’ di acqua gelata.” Subito dopo stramazza al suolo, non nell’acqua. A questo punto, il colpo di genio di Burton, che sembra quasi prendere spunto da Pinocchio (allo stesso modo parrebbe pinocchiesco il trenino che trasporta i bambini rapiti nel “Paese dei Balocchi” sotterraneo di Oswald): come quattro conigli neri arrivano con una bara a prendere il burattino, così sei pinguini, gli unici veri compagni di una vita, conducono delicatamente il loro sovrano morto verso l’acqua delle fogne, sulla quale scivola con lentezza prima di inabissarsi. Patetismo e applausi.

Come Goldoni in diverse commedie eliminò senza parere le maschere (15), così Nolan cercò astutamente di ridurne al massimo l’esibizione tanto in Batman Begins quanto ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno, utilizzando in entrambi i casi due escamotage narrativi perfetti: nel primo caso Batman diventerà tale solo dopo un lungo romanzo picaresco a spasso per il mondo, fra ricerca di se stesso e improbabili allenamenti in carcere, fino ad arrivare alla Setta delle ombre e al ritorno a casa con il tentativo di vendetta fallito; nella seconda pellicola il supereroe tarda a entrare in azione perché ha abbandonato la sua missione di giustiziere dopo la morte di Dent, del quale passa per essere l’assassino di fronte alla cittadinanza. Così, dato che il personaggio sul quale s’incentra inizialmente l’attenzione tanto del regista quanto del pubblico è Bruce Wayne, in entrambi i casi lo spettatore tende a dimenticare progressivamente di stare guardando un film che ha Batman per protagonista, mentre in effetti è proprio in quei momenti che il regista costruisce il proprio eroe in maniera tale da renderlo verosimile, preparandone la comparsa passo dopo passo, senza passaggi psicologici bruschi o immotivati, o peggio ancora traendolo improvvisamente fuori dal nulla: in fin dei conti sembra quasi plausibile, se non addirittura realistico, che il miliardario filantropo diventi il Pipistrello. Questa volta l’attore che gli presta le proprie fattezze, Christian Bale, è decisamente più credibile di Keaton, stimolato forse anche dal fatto che i due film sono incentrati su di lui prima di tutto come Bruce Wayne e solo in un secondo momento come paladino mascherato. Con Batman Begins l’uomo pipistrello diviene compiutamente un mito contemporaneo perché è costruito come una macchina melanconica alla quale ciascuno di noi può collegare molti elementi comuni alla propria esperienza: per esempio il trauma infantile (lo scontro coi pipistrelli), il lutto immotivato e assurdo (la morte dei genitori), la solitudine (d)e(l)la doppia identità. La stessa forza mitologica, a ben vedere, vale anche per Joker; non a caso sono ben tre i film che lo vedono protagonista: Batman di Burton, Il cavaliere oscuro di Nolan e il recentissimo Joker di Todd Phillips (2019); quest’ultimo è totalmente incentrato sulla figura del buffone nero, interpretato da Joaquin Phoenix, che si ispira a diversi film di Scorsese (16) e al comic Batman – The Killing Joke (1988) di Moore e Bolland; esso vede come protagonista – e non antagonista – un personaggio che ha scalzato Batman ed è ormai libero di veleggiare, dopo una storia che lo conduce dall’interpretazione di Cesar Romero (1966) a quella di Jared Leto (2016), da solo nelle nostre vite.

In questa decisa mutazione estetica di Joker ha avuto un eccezionale rilievo Il cavaliere oscuro: in esso la maschera del clown appare incisa sul suo volto (i tagli laterali alla bocca); inoltre è truccato con un cerone bianco in maniera piuttosto imprecisa – o meglio sapientemente espressionistica – che ci lascia intravedere  qua e là la pelle del suo viso; i capelli sono lunghi, sporchi e unti, gli occhi anneriti: l’iconografia classica di Joker – alla quale invece si rifà un po’ rigidamente Nicholson – non viene rispettata da Nolan: faccia e maschera si confondono continuamente consentendo a un superbo Heath Ledger una mobilità espressiva serpentina sconosciuta ai  precedenti interpreti del nemico per eccellenza di Batman. La caratterizzazione psicologica del personaggio, come vedremo in seguito, assume i contorni della leggenda. “Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo” è la lapidaria sentenza di Alfred su Joker, sentenza certamente non contraddetta da quest’ultimo: lo provano a sufficienza la scritta sul camion “S/LAUGHTER IS THE BEST MEDICINE”, la parafrasi di Nietzsche: “Quello che non ti uccide ti rende più… strano”; il discorsetto agli altri gangster: “A voi importa solo dei soldi. Questa città merita un criminale di maggior classe e io sono pronto a darglielo”; le parole rivolte a Batman: “Io cerco di dimostrare agli opportunisti quanto sono patetici i loro tentativi di controllare le cose […] Io sono un agente del caos”; e soprattutto la frase nella quale si concentra una perfetta conoscenza e definizione di se stesso: “Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se le prendessi”. Messo a confronto con Harvey, il procuratore integerrimo incarnazione dell’uomo tutto d’un pezzo, Joker lo distrugge facendolo diventare alla lettera Doppia Faccia: dopo il rapimento riesce cinicamente a indurlo ad arrivare fino alle soglie del delitto, a renderlo dimentico di ogni giustizia che non sia privata e a costringerlo a riconoscere, deluso della propria esperienza di vita: “L’unica moralità in un mondo spietato è il caso: equo, imparziale, senza pregiudizi.” Come un fool shakesperiano, il Re dei Buffoni vuol dimostrare che chiunque, messo in condizioni particolari, estreme, getta la maschera della civiltà ed entra nel suo dominio in cui l’esistenza è “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. Il lapidario commento di Batman al declino del procuratore, da paladino della giustizia a giustiziere: “O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.” (Forse per questo i greci dicevano “Muore giovane chi è caro agli dei” e forse il Pipistrello riferisce la frase anche a se stesso?).  Il nichilismo del Buffone ottiene una vittoria nella sfida con Dent, ma viene sconfitto dall’inazione reciproca (quasi zen) dei passeggeri delle due navi che dovrebbero fare esplodere l’altra per salvarsi la vita e che costituisce anche l’obbligatorio lieto fine della vicenda, mai così sudato e persuasivo (17) in un film di supereroi. Dulcis in fundo, con una differenza capitale rispetto a quanto accade di solito in questo genere di pellicole, Batman non riesce a salvare Rachel, la sua amata in pericolo. E scusate se è poco, visto come Nolan fa passare la cosa in secondo piano quando il salvataggio della donzella è un classico topos del genere, se non addirittura quello centrale, sfruttando con abilità il dramma che si trova a vivere il procuratore generale, irrimediabilmente diviso fino alla sua morte fra il bene e il male (le due facce della moneta e i due lati del suo volto, quello del bel ragazzone americano tutto mascelle e ingenuità e l’altro scarnificato).

Da parte sua, anche la riforma goldoniana possiede una formidabile freccia al proprio arco quanto a potenza del personaggio: come nel caso di Joker essa è frutto di un percorso lungo e complesso, che di seguito riassumiamo in breve. In principio, nella Commedia dell’Arte esisteva la classica maschera della servetta (Colombina), il ruolo della quale consisteva nell’essere una semplice messaggera d’amore; in seguito essa diventa “donna di garbo”, acquisendo caratteristiche di intelligenza e capacità nello sbrogliare situazioni difficili; quindi, grazie a Pergolesi, “serva padrona”, ovvero donna di umili origini che grazie al matrimonio si trasforma in ricca signora; ancora, diviene capace di amare e farsi amare (serva amorosa). Al termine di questa evoluzione, troviamo Mirandolina, che riunisce in sé le caratteristiche di tutte le figure citate (18) ed è la protagonista de La locandiera (1752). Forse il capolavoro assoluto di Goldoni, oltre a esibire contemporaneamente il consolidarsi del copione e l’eliminazione completa delle maschere, ci presenta l’elaborazione di una vicenda nella quale non solo la protagonista è femminile (cosa non del tutto inconsueta anche all’epoca, soprattutto se il tema della commedia era amoroso), ma, fatto inaudito, è anche padrona dal punto di vista economico (per dirla con Marx, lei possiede i mezzi di produzione, per l’appunto una locanda che contemporaneamente gestisce): proprio per mantenere la propria autonomia, anzi il proprio predominio economico e sociale, il padre di Mirandolina ormai defunto l’ha destinata in sposa, in un futuro che non fa parte della vicenda goldoniana, a un cameriere. Tutto questo dopo che la donna ha fatto innamorare di sé un cavaliere misogino che viene poi lasciato, così cotto a puntino, con un palmo di naso. E’ molto probabile che la donna non soltanto autonoma economicamente, ma addirittura padrona, nel Settecento suonasse come un’inedita novità, una sorta di manifesto della liberazione femminile ante litteram (probabilmente il massimo a cui poteva arrivare un uomo nei termini dell’immedesimazione in un essere dell’altro sesso). Da questo punto di vista ci troviamo di fronte a una sorta di racconto di fantascienza sociologica. Con Mirandolina, l’autore creò un personaggio pienamente realista, credibile in tutte le sue manifestazioni e nel suo carattere, “morale” secondo la propria collocazione sociale e la propria individualità, unica come ogni individualità. Essa, insomma, non rispondeva a un’idea di etica astratta, volontaristica e velleitaria, nella quale nessuna spettatrice avrebbe potuto riconoscersi, ma si mostrava civettuola, desiderosa di piacere per dimostrare il primato del genere femminile su quello maschile, e in pari tempo sempre interessata al proprio tornaconto economico. La totale tridimensionalità della locandiera significò anche la fortuna del personaggio nel corso dei secoli, portato non soltanto sulle scene fino ai giorni nostri, ma anche al cinema, fra gli altri da Paolo Cavara (1980) e Tinto Brass (1985). Essere una creazione artistica ancora viva oltre duecentocinquanta anni dopo la propria nascita: auguriamo la stessa sorte anche a qualche supereroe.

Gianfranco Galliano

NOTE

(1) Mi è sempre parso molto singolare che un termine del genere, per gli storici legato a studiosi, o più spesso sedicenti tali, che mettono in questione la veridicità dello sterminio ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale (gente come David Irving e soci, insomma), o comunque impiegato con connotazioni per lo più negative nei confronti di coloro che rivedono e riscrivono teorie socio-politiche (i marxisti non ortodossi, per esempio), potesse venire applicato da un lato a un campo come quello dell’evasione e del disimpegno per eccellenza qual è il fumetto e dall’altro indicasse una svolta decisiva in esso, una sua maturazione, un vero e proprio congedarsi dall’infantilismo, il che  corrispondeva pure  a un cambiamento di segno totale nella connotazione della parola: per una volta, “revisionismo” veniva utilizzato in un’accezione positiva.

(2) Sebbene vi siano altri film che vanno nella direzione del revisionismo, primo di tutti Watchmen (2009) di Zack Snyder, tratto in maniera fin troppo fedele dall’omonimo comic, così come fumetti seminali oltre quelli di Miller e Moore (fra gli altri l’esilarante Marshal Law, 1987), per un discorso che vuole soltanto comparare e mettere in luce le affinità fra due generi apparentemente così distanti come cinema di supereroi e commedia goldoniana i più indicati ci sono parsi quelli di Burton e Nolan proprio per il loro carattere di filiazione indiretta, e quindi nel presentarsi come prodotti maggiormente originali rispetto al comune punto di partenza. Infine, non abbiamo preso neppure in considerazione Batman Forever (1995) e Batman & Robin (1997) di Joel Schumacher perché questi dimostra di non aver affatto compreso gli intenti estetici e ideologici di Burton, ma si limita a firmare due blockbuster ultrapiatti, veramente per bambini nel senso peggiore del termine. (Si potrebbe azzardare che Schumacher sia stato una sorta di avversario per Burton e Nolan come lo fu l’abate Chiari per Goldoni). Infine, riguardo Batman vs Superman: Dawn of Justice (2016) di Snyder valga il giudizio dell’ aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes: “il film ha un indice di gradimento del 27% basato su 329 recensioni, con un voto medio di 4,9 su 10. Il commento del sito recita: “Batman v Superman: Dawn of Justice soffoca una storia potenzialmente possente – e alcuni dei più iconici supereroi americani –  in un cupo turbinio di azione piena di effetti speciali” (“Batman Vs .Superman”, Wikipedia). Un altro abate Chiari, insomma.

(3) Miller, che pure aveva collaborato a 300 di Snyder adattando la propria graphic novel per lo schermo, dichiarò senza mezzi termini: “Non ne voglio sapere niente di questa merda e non ho intenzione di vedere quei film (riferendosi alla trilogia di Batman di Nolan e all’imminente Batman v Superman: Dawn of Justice). Facessero il cazzo che vogliono, io non ne faccio parte”. “Il ritorno del Cavaliere Oscuro”, Wikipedia.

(4) “Batman (serie televisiva)”, Wikipedia.

(5) “Batman La serie tv del 1966 – Batman Crime Solver”, batmancrimesolver.wordpress.com.

(6) Le qualità citate lo sono soltanto a titolo di esempio, senza alcuna pretesa di fornire un elenco esaustivo di esse. Per rinverdire questo stesso modo di procedere, ovvero per restare nell’ambito di una semplice meccanica che cambia i nomi ma non la sostanza, ecco gli X-Men con la loro classificazione in base ai poteri con le varie Tempesta (manipolatrice degli agenti atmosferici), Jean Grey (dotata di capacità telecinetiche), Ciclope (in grado di lanciare un raggio di energia dagli occhi), Bestia (con caratteristiche di forza e agilità straordinarie) eccetera.

(7) Come per “revisionismo”, anche in questo caso il termine “riforma” suona piuttosto altisonante rispetto all’ambito nel quale viene impiegato: di solito, infatti, all’epoca la riforma più che all’arte alludeva semmai alla religione (riforma protestante, luterana eccetera) o a vicende politiche rilevanti. Che se ne parlasse invece a proposito di un genere artistico, per di più rivolto in massima parte al popolino, ai dotti dell’epoca poteva apparire decisamente fuori luogo.

(8) “Riforma del teatro”, Wikipedia.

(9) “Batman”, Wikipedia.

(10) “Batman – Il ritorno”, Wikipedia.

(11) “Batman Begins”, Wikipedia.

(12) “Il cavaliere oscuro”, Wikipedia.

(13) “Il cavaliere oscuro – Il ritorno”, Wikipedia.

(14) Nel Batman di Tim Burton c’è un omaggio al telefilm e ad Alan Napier (che interpreta il maggiordomo di Batman nel telefilm), infatti il suo Joker si chiama Jack Napier. Anche ne Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan c’è un omaggio a questa serie Tv e al Joker interpretato da Romero: la prima volta che appare Heath Ledger come Joker indossa una maschera uguale al trucco che aveva Romero nella primissima apparizione del Joker nella serie Tv. “Batman  anni ’60 curiosità e segreti – Nerds’ Revenge”, Wikipedia.

(15) Alessandro Di Tommaso mi fa giustamente notare che il caso di Superman è decisamente paradossale: esso è infatti la prova provata di quanto sia obbligatorio il rispetto di una delle convenzioni fondamentali del genere: i supereroi, quando vestono i loro panni di giustizieri, non vengono riconosciuti neppure da amici parenti, per quanto stretti. Infatti, l’uomo di Krypton indossa la maschera (ovvero degli ironici occhiali, da vista, neppure da sole) quando torna ad essere Clark Kent, cioè l’uomo normale, e la toglie nei suoi panni di supereroe: ciò dimostra quanto forte sia la convenzione che governa la legge della doppia identità proprio mediante il suo presentarsi come unica eccezione alla regola. Superman è lì, sotto gli occhi di tutti, con una maschera invisibile, eppure nessuno lo riconosce come nessuno vede la lettera rubata di Poe.

(16) I film in questione sono: Taxi Driver, Toro scatenato e Re per una notte (Joker, Wikipedia). Al momento della redazione di questo articolo,  Joker non è ancora uscito nelle sale cinematografiche: per questo non è stato possibile analizzarlo.

(17) Ad Alexander Kluge che si chiedeva: “Come possiamo pervenire senza menzogna a un lieto fine?”, credo che il finale de Il cavaliere oscuro possa indicare una strada e una risposta persuasiva non tanto perché mostra fiducia nei gesti eroici del genere umano, bensì – paradossalmente – perché in questo caso i due gruppi di persone non agiscono, o meglio la loro azione consiste soltanto nel fare politica culturale, sospendendo l’azione a favore del pensiero e del confronto dialettico. Solo così ci si salva, soprattutto quando un qualsiasi Joker ti mette premura e vuole che tu prenda una decisione o un’altra, entrambe prospettate da lui. Tertium datur.

(18) P. Di Sacco, Chiare lettere, Letteratura e lingua italiana, vol.2, Dal Seicento all’età romantica. Come ricorda ancora Di Sacco, un’altra maschera che Goldoni modifica è per esempio quella di Pantalone, che da figura avara e meschina si trasforma in un “uomo di mondo con qualche eccesso di avarizia”.