THE GOLDEN AGE OF SPLATTER (1980 – 1991)

Gorezone n. 1, marzo 1991, Edizioni Play Press. Probabilmente la rivista finì lì o quasi, sparendo subito dalle edicole. D’altronde 1991 era già una data limite che avrebbe inghiottito tutto, un buco nero dentro al quale sarebbero finite anche le pubblicazioni della ACME (Splatter, Mostri, Nosferatu). Oggi, nelle 352 pagine dedicate con cura filologica dalla Rizzoli Lizard, è possibile ricostruire una parte di quella storia editoriale italiana e riannodare i fili della memoria.

Il boom dei fumetti splatter (estremi) durò pochissimo (da noi): eredi in qualche modo dei vari horror a strisce americani di Zio Tibia, del Corriere della paura e della raffinata rivista Horror edita da Sansoni negli anni ’70, i ragazzi di Splatter si scontrarono con una stampa violenta e cattiva (da leggere, sempre nel volume della Rizzoli, l’articolo de L’Espresso del 26 agosto 1990 scritto da Roberto Cotroneo, dove il fenomeno dell’orrore estremo viene presentato come una moda miliardaria per ragazzini sbandati e infelici, facilmente influenzabili) e un’interrogazione parlamentare presentata all’allora presidente del Consiglio Andreotti. Quella valanga di fumetti e riviste estreme erano un pochino figlie di quel fumetto nero che fino al decennio precedente aveva tenuto banco, vendendo un originale connubio tra sesso e morte, tra manieri diroccati e scopate cimiteriali. Finì tutto con grande velocità, credo nel maggio del 1991, quando uscì l’ultimo numero di Splatter. Dylan Dog, meno estremo, riuscì a salvarsi, annacquandosi ancora di più.

Di questa storia ne hanno già parlato altri.

Io stesso, in un articolo di qualche anno fa, riandavo con la memoria alla bellissima e mai dimenticata rivista horror Nosferatu.

Perché allora questo lungo preambolo?

Di recente ho tirato fuori la mia collezione di quei fumetti (non dimentico anche Gore Scanners della Ediperiodici di Cavedon, o gli albi di Profondo Rosso a cui ha collaborato anche il nostro Longoni) e mi è presa come sempre una grande nostalgia per quel periodo e quei prodotti culturali.

In particolare ho provato nostalgia per quel cinema estremo, allora si chiamava appunto “splatter”, o “body horror”, o ancora “melt movie”.

In quel numero 1 di Gorezone del marzo 1991, a pagina 10 compariva un articolo fulminante di Chas Balun intitolato The golden age of gore, 1978 – 1983; Balun, in sintesi, diceva che quel nuovo tipo di cinema dell’orrore (più duro e fisico) era già al tramonto dopo il 1984 e si concentrava in un gruppo sparuto di pellicole. I nomi fatti erano quelli di sempre: i vari Romero, Carpenter, Hooper, Craven e anche i nostri Fulci e Argento. Tuttavia, nella seconda parte dell’articolo Balun prende una piega diversa e inaspettata, parlando di anni formativi (quegli anni ’80) in cui alcuni registi non si erano ancora fatti prendere dal culto della personalità e non erano caduti nel ricatto dei kolossal miliardari infarciti di effetti speciali costosissimi affidati ai veri autori delle pellicole, ossia i nuovi sacerdoti degli F/X.

Balun insomma sembra coltivare (già allora, a cadavere caldo, diciamo) la nostalgia per un cinema horror, crudo, violento ed eccentrico, fatto con pochi mezzi spartani e da registi che difficilmente avrebbero trovato ancora spazio nel mercato hollywoodiano.

Quella di Chas Balun appare quasi come una profezia. Basta infatti andare a sfogliarsi il numero 8 di Nosferatu (rivista di cinema horror e fantastico) sempre di quel marzo ’91, per leggersi una lunga e bella intervista a Frank Henenlotter e Edgar Ievins (autori della serie dei Basket Case) per capire l’aria che tirava: Henenlotter rivendicava ancora con orgoglio il cattivo gusto del trash e spiegava come fosse difficile trovare fondi anche per un piccolo film a bassissimo budget da distribuire nei circuiti della mezzanotte. Circuiti che andavano sparendo visto che gli spettatori avevano preso l’abitudine a consumare quelle pellicole di serie Z in VHS.

Al rituale collettivo della proiezione su grande schermo si andava sostituendo un qualcosa di più intimo e laico: la visione privata, domestica, la possibilità di possedere i film, di vederli e rivederli più volte. Un feticismo che negli anni ’90 darà vita a quell’ondata di cineasti estremi di cui parlano Curti e La Selva in Sex and violence (Lindau, 2003): registi cinefili bisognosi di sollecitazioni audiovisive spasmodiche, imbevute di demenzialità, violenza estrema, porno casalingo e cattivo gusto da pochi dollari. Gli anni ’90 saranno quelli dei video da zero budget, di un home video rancido e abrasivo capitanato soprattutto dai tedeschi Jorge Buttergeit e Andreas Schnaas. Sempre in quel numero 8 della rivista Nosferatu, Alberto Castagna scriveva un pezzo intitolato Le stagioni del gore, dove cercava di fare il punto sull’inizio di un nuovo decennio percepito ancora come prolifico e positivo. In realtà negli anni ’90 l’horror entrerà in una sorta di coma dal quale si risveglierà negli anni 0, prendendo altre strade che non mi interessano.

Quel che mi interessa è cercare di definire meglio quel particolare cinema horror degli anni ’80 passato sotto l’etichetta del body horror, dello splatter.

Le notazioni di Balun su prodotti poco costosi e marginali mi colpisce molto.

In occasione del Fantafestival di Roma del 1993, la libreria Giolitti curò un’edizione speciale dei Millelire Stampa Alternativa. Il volumetto era spillato e scritto dalla critica d’arte Teresa Macrì e intitolato Splatter. Subito la Macrì stringeva il cerchio del discorso sul significato letterale del verbo inglese che indicava lo spruzzare del sangue. Il gore (più statico) e lo splatter (dinamico) si identificavano con una realtà filmica abbracciata da nuovi autori ossessionati da una cultura dell’oltraggio, dell’eccedere, del far esplodere le vene, le carni e il senso dei corpi. Lo splatter diventava un fenomeno multimediale oltraggioso che contagiava la letteratura, il cinema, i fumetti, la televisione e persino l’arte. Lo splatter movie degli anni ’80 era attraversato da pulsioni aggressive e brutali, una fascinazione morbosa per la degradazione e i comportamenti devianti e degenerati. Eccessi, dismisure, turpitudini, efferatezze. Lo splatter insomma come un sottogenere impuro e contaminato, un luogo in cui l’horror degli anni ’70 si incontrava e perdeva nel trash, nell’hardcore, in un abisso immondo di ironia demenziale e realismo cronachistico. Ecco allora che la lista dei nomi non era poi così lunga. La Macrì, già in quel 1993, aveva chiari i suoi referenti visivi: Raimi, Jackson, Muro, Henenlotter, Somtow, Buttgereit. Oggi che sappiamo come è andata ne toglierei almeno due. Sam Raimi si è riciclato come regista delle major hollywoodiane e così ha fatto Peter Jackson. Registi e traiettorie che hanno cercato col tempo di smarcarsi e reinventarsi, lasciandosi alle spalle gli abissi di un cinema che non li avrebbe portati da nessuna parte. E qui torniamo a Balun, al fascino per certe pellicole perdenti, al bisogno di circoscrivere lo splatter movie all’interno di una sotto categoria dello spirito che vuole sottrarsi al dominio della normalità (parole testuali della stessa Macrì). Una normalità esistenziale, umana, politica, creativa. Tolti Sam Raimi e Peter Jackson, gli altri nomi sono infatti scomparsi nel nulla. O hanno diretto un solo film, o sono stati buttati fuori dai canali produttivi, ridotti al silenzio, dimenticati.

Ancora sfogliando il numero di gennaio 1991 di Nosferatu, colpisce la rassegna sui film horror del 1990: spiccano i nomi di Frank Henenlotter per il suo allucinogeno Brain Damage, apprezzato anche da un osservatore di qualità come Argento. Seguono i film di Tibor Takacs, Fragasso, Montefiori, Friedkin, Craven, Hopkins ed Englund. O ancora la dimenticata pellicola di zombi Incubo in corsia di Brett Leonard (tra le mie preferite, ambientata in un asylum americano popolato da una selva di lunatici che rimangono nel cuore) e Society di Brian Yuzna, forse il punto di non ritorno dello splatter. Nomi che allora avevano ancora un senso appunto.

Se dovessi in poche righe riscrivere e aggiornare il foglietto di nomi della Macrì aggiungerei nulla e toglierei solo.

Credo che il cinema splatter (così come inteso da Balun e Macrì) sia nato dalle ceneri di certo cinema urticante e realistico della seconda metà degli anni ’70. Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974) e La notte dei morti viventi di Romero (film del 1968 seguito poi da Zombi del 1978) sono dei titoli imprescindibili. Tuttavia lo splatter degli anni ’80 è assai diverso dalle noiosaggini di Romero e assai più vicino allo spirito spartano e urticante di Hooper.

In cosa consiste questa differenza?

Prendiamo il caso Frank Henenlotter.

Il suo esordio del 1982 potrebbe segnare una delle date di inizio dello splatter vero e proprio. Anche nei suoi film successivi (Brain Damage del 1987 e Frankenhooker del 1990, entrambi film lisergici sull’effetto delle droghe e delle dipendenze) il centro del suo cinema sembra essere la città di New York. Una New York assai diversa dalle ricostruzioni liberty e colte di Dario Argento e del suo Inferno (1980). Henenlotter fa piazza pulita anche degli ultimi rimasugli gotici e ambienta le sue storie (di fratelli siamesi psicopatici, di parassiti succhia cervello, di prostitute che saltano in aria per del crack modificato) in una metropoli contemporanea, brutta, sporca e cattiva. La macchina da presa fruga nei bassifondi, nei vicoli puzzolenti, negli alberghetti infimi, rivelando una post-umanità degradata e torbida. Prostitute, spacciatori, barboni, alcolizzati, criminali mezza tacca, questo è il mondo mostrato da Henenlotter nei suoi film. Un suburbio contemporaneo che pare una versione apatica e catodica (il genocidio è già avvenuto e con esso l’omologazione di massa) degli accattoni pasoliniani degli anni ’50 e ’60 e richiama le notti sadiche e onanistiche del Joe Spinell di Maniac (1980), altro film chiave dello splatter di allora. I personaggi di Basket Case paiono svuotati, privi di empatia e umanità. Le cose accadono perché devono accadere e sono sempre brutte. La violenza che impernia questo degrado morale e ideologico ne è una prevedibile conseguenza. Anche il sesso, quando è presente, è infimo e sporco, privato di qualunque sentimentalismo. I personaggi, simili a delle macchine di carne, scopano, mangiano, defecano, ubbidendo più alla dittatura dei nervi che a dei fantasmi dell’inconscio. Altro elemento chiave di Henenlotter è l’ironia abrasiva, caustica, un’ironia che si scaglia contro la morale comune, le religioni, la famiglia, la società tutta con le sue regole di (apparente) convivenza pacifica e sfruttamento capitalistico. Il mondo di Brain Damage è lontanissimo dalle ideologie degli anni ’70 e anche da quell’escapismo americano di tante pellicole anni ’70. Ciò che interessa, ciò che piace (al regista, a noi giovani spettatori di allora) è sabotare dal basso, dare fastidio, al convivio sociale. Un film come Brain Damage non è educativo. Il suo umorismo, la sua cattiveria può essere contagiosa e impauriscono i pedagoghi di allora (e di oggi), preoccupati dagli effetti nocivi della cultura splatter e del risorgimento rabbioso del punk.

Abusi e amoralità sono alla base anche di un altro grande piccolo film splatter, Horror in Bowery Street di Jim Muro, cameramen per Henenlotter e oggi apprezzato direttore della fotografia per le major. Horror in Bowery street è un film corale che ruota attorno a un gruppo di barboni alcolizzati, rottami ai margini di una società già profetizzata da Charlie Manson. Oltre ai barboni vediamo poliziotti sadici, reduci psicopatici del Vietnam, prostitute, derelitti vari e commercianti segaioli. Ne esce un mondo già al collasso, fatto di rovine, cessi incrostati e fluidi corporei di ogni tipo. Il corpo di Bowery Street è una merce, una geografia rizomatica di poltiglie e schifezze varie, un variegato arcobaleno di alcolici e patologie. Tutto in Bowery Street è merce, diviene merce: il sesso, i rapporti umani, l’amicizia. Si tratta però di una merce che è già riciclo, che non è più nuova e forse non lo è mai stata. I cumuli di rifiuti che fanno da sfondo a quasi tutto il film sembrano fuoriusciti da una landa post-atomica, dominanza estetica di una società ormai arrivata al collasso; gli anni ’80 insomma, sotto lo strato luccicante e merdaiolo del lusso, degli aperitivi, del ripiegamento nel privato e sembra pre-avvertire un crescente disagio sociale e un’economia cannibale che presto ingoierà le ultime porzioni di umanità, confinandole in uno schiavismo lavorativo e un nuovo imperialismo digitale. Su tutto comunque scorre un umorismo nero e un disagio ripugnante per l’amoralità dei personaggi. Un forte senso di divertimento e disagio accompagna la visione, forse strappandoci per qualche attimo dalla narcosi culturale nella quale viviamo immersi.

Dal carnaio di Horror in Bowery Street si può passare allo splatter cazzaro e leggero (non tanto nella forma, quanto nei contenuti) di Stuart Gordon e del suo Re-Animator, film del 1985. Re-Animator ha molti degli elementi che abbiamo trovato fin qui: l’ironia cattiva, il degrado, l’amoralità. Si potrebbe aggiungere (ma erano componenti già presenti in Muro e Henenlotter) una stilizzazione cartoonistica dei personaggi e dei loro caratteri. L’universo narrativo di Gordon è già prossimo al cartone animato (così come i manichini di lattice e carne messi in scena da Sam Raimi ne La casa II). Gli zombi di Re-Animator (così come quelli de Il ritorno dei morti viventi, geniale rilettura in salsa commedia del film di Romero) parlano, leccano la figa, si travestono come dei coglionazzi qualunque. Il film non si fa prendere sul serio, però ci viene a prendere a pugni in faccia, mostrandoci l’indicibile, sfasciando corpi e giocando con le ossessioni scientifiche ed estetiche di un decennio. I nostri bei corpi curati e palestrati (simbolo della nostra ipocrisia) vengono ridotti a una poltiglia fibrosa di nervi, cartilagine, vertebre attorcigliate. Un sadomasochismo allegro e necrofilo, non lontano dagli eccessi sessuali e scopofili di tanti fumetti neri italiani degli anni ’70. La radicalità di Re-Animator è tutta qui, in superficie: nelle impurità di un testo che vuole dar fastidio, disgustare, ridurre tutto a farsa, ellissi schizzata di brode e alienazione. Re-Animator un film sull’alienazione? Sicuramente un prodotto commerciale di genere uscito in un decennio in cui il Capitale avrebbe cominciato a cambiare pelle ma non sostanza.

Ma lasciamo da parte per un attimo questo discorso e rimaniamo sullo splatter. Ho ragionato su alcune componenti: abbiamo parlato di umorismo grottesco, ambientazioni malsane e degradate (preferibilmente urbane), una convivenza di realtà brutale e effetti cartoon, forse proprio per portare a uno stadio di indifferenza, di alienazione sociale. A questo potremmo aggiungere un cattivo gusto esibito, ricercato, elevato ad arte (camp), ad esempio in Splatters (1992) sorta di requiem e summa del genere. Jackson, prima di rifarsi una carriera da paraculo delle Major, frulla in questa pellicola tutto quanto abbiamo detto fino ad ora: l’eccesso visivo dei corpi smembrati, flussi di liquidi, ipertrofie oltre ogni immaginazione. Jackson esaspera la visione dello spettatore, regalando uno spettacolo per gli occhi che diventa una geografia schizzata e rizomatica. Il film esplode in un finale di efferatezze carnali ridondanti e dilaganti da somigliare a certe promozioni del consumismo massificato. Perché è sempre al consumismo e col consumismo che questi film si confrontano. Lo splatter è antitetico al patetismo della televisione, al conformismo della politica. Nulla si risparmia e viene risparmiato. Tutto si consuma e si distrugge velocemente, a partire dai corpi e dai cervelli danneggiati dei lavoratori.

E se il cattivo gusto di Jackson è già inoffensivo e ripetitivo, quello di un Jorg Buttgereit è invece ancora oscuro, ctonio, degradato e degradante. Nekromantik (1987) traccia una via alternativa al cinema americano e ai suoi iper-trofismi, prendendo una parabola discendente ancor più disperata. Anche in Buttgereit l’umorismo nero non manca (dopotutto il regista si è fatto le ossa con una serie di cortometraggi demenziali non lontani dalla filosofia della Troma), soprattutto quando si impegola nel ménage à trois tra un becchino, la sua fidanzata e un cadavere putrefatto oltre ogni limite. Buttgereit coltiva un senso estetico più essenziale e ridotto e non dimentica la parabola finale ed estrema di certo cinema italiano (i film cannibali di Lenzi, Deodato, i nazi-movie dei vari Garrone, Caiano, Mattei). La bassa fedeltà e risoluzione analogica di Buttgereit è già una sorta di rifiuto dell’ipertecnologia del cinema hollywoodiano a favore di una sensibilità punk che assorbe dentro di sé approssimazione, rumori di fondo e una narrazione quasi casuale, minimalista che comunque non sfugge dal feticismo semi-putrefatto delle merci, da una serializzazione sgradevole dei feticci erotici. Perché in fondo, anche dietro al prodotto splatter più estremo c’è sempre il fantasma di una mercificazione industriale, di un vuoto, di una domanda da riempire.

Ecco allora che in uno degli episodi di Der Todesking (il film più bello e personale di Jorg Buttgereit) vediamo un consumatore di video estremi recarsi in una videoteca ombrosa piena di titoli e vhs che promettono eccessi d’ogni tipo. In quelle immagini ho rivisto tante videoteche degli anni ’90 che ho frequentato. Antri in cui, superati gli scaffali più rassicuranti per un pubblico borghese, si scendeva in scantinati umidi e odorosi, in stanzette dai vetri smerigliati e zone oscure riempite di vhs pornografiche dalle copertine esplicite che non lasciavano nulla all’immaginazione. La pornografia, vera erede dello splatter, ha continuato a coltivare una sensibilità speciale per i fluidi corporei, per il magma di materia prodotta dai vari orifizi, sperimentando qualunque tipo di piacere, supplizio e serialità. Dopotutto, in quei meandri delle videoteche, ho vissuto e incontrato un’umanità ipnagogica. Operai schiantati dalla fatica del lavoro in fabbrica, derelitti dagli sguardi torbidi e osceni, ultimi derelitti oggi cancellati (così come lo sono state le videoteche, il cinema di genere, la matericità dello splatter) dalle mille forme di connessioni indirette e artificiali. Oggi, nel candido mondo degli algoritmi di Apple, Amazon, Google, Microsoft, Facebook anche Nekromantik è una merce, il fantasma di una cosa da acquistare.

Davide Rosso