HORROR ’69 (BOMBE FINESTRA & LOTTA DI CLASSE NELL’HORROR ITALIANO DOPO PIAZZA FONTANA)

Nel pregiato volume Mondadori “Il piacere della paura” (uscito nel 1973) i curatori Ravoni & Riva ricercano le origini del genere horror nel fascino discreto della borghesia novecentesca. Prima gli psicagoghi americani Creepy ed Eerie, buffoni orrendi di grandi abbuffate di fumetti collaudati sui canovacci di Poe, Lovecraft, Shelley, Stoker, rivisti su fondo retinato e un lettering innovativo che verrà ripreso dalla pop art. Poi l’incubo borghese ha attecchito anche qui da noi, in una serie di pubblicazioni popolari della prima metà degli anni ’60: i fotoromanzi del brivido dell’Editrice Nova di Roma, le collane dei “KKK”, dei “Racconti di Dracula” e ancora i “Romanzi diabolici”, la collana degli Urania, i “Gialli allucinanti”, le scimmiette della Garzanti, i “Gialli del secolo”, “i Gialli dello schedario”, o le valanghe di fumetti neri che cominciano a uscire dalla prima metà degli anni ’60: Kriminal, Satanik, Sadik, giù fino all’orgia dei fumetti horror erotici inventati da Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon.

L’horror, al cinema e sulla carta, cambia pelle, inseguendo il giocattolo frangibile del corpo femminile, la sua carne tenera e rosea. Carne, frustate, aghi, candele dai bauli letterari di Sade e von Masoch, in una stilizzazione di deformità e perversioni. Tuttavia, mentre il carnevale delle pulsioni spinge verso un bisogno di liberalizzare le energie e le voglie nascoste della società (quella italiana in particolare), l’horror sembra anche percorrere altre strade, trovando una sinistra sinergia con quanto andava ad avvenire in quegli anni.

Ho già accennato in un articolo precedente e qui vorrei tornare su alcune di quelle considerazioni. Scrivevo pressappoco così: “Il potere “segreto” e deviato degli anni ‘70 si è trasformato in un sistema rizomatico, senza centro, pieno di diramazioni, labirinti. Ciò che interessa è il segno di un’aggressività biologica connaturato col potere”. Ora vorrei prendere un anno simbolico, il 1969, quella della bomba in Piazza Fontana. I topos del genere erano già tutti là. Ne accenna involontariamente anche Adriano Sofri nel suo bellissimo “La notte che Pinelli” (Sellerio 2009). Prima però cerco di contestualizzare un pochino anche per chi non c’era e non ha sentito parlare di certe cose.

Nel 1969 l’agitazione sociale raggiunge il suo culmine: lavoratori, sindacati, studenti, si uniscono per rivendicare una redistribuzione della ricchezza, maggiori diritti e tutele. Una turbolenza sociale che irrigidirà ancora di più il potere di allora, quello di un partito conservatore come la DC, aggrappato a un assetto di potere consolidato che vedeva l’Italia sotto il controllo atlantico degli USA. Classe dirigente di allora da una parte e un protagonismo sociale differenziato e diffuso dall’altra. La mitologia del maggio francese e dell’agosto cecoslovacco aumentarono le paure della distruzione dello stato borghese, tanto che fin dai primi mesi del ’69 tra scioperi, manifestazioni e scontri coi poliziotti, il clima pare quello di una guerra civile. L’immagine di una rivolta si allungava sulle proteste nei campi del meridione o in quelle delle fabbriche del nord; fu in questo clima di incertezza e insicurezza diffusa che cominciarono le prime bombe, ispirate forse da quelle che nel 1967 avevano posto fine alla democrazia in Grecia. Il 28 febbraio scoppia un ordigno davanti all’ingresso del Senato, in coincidenza col soggiorno romano del presidente Nixon. Il 2 marzo ci sono le detonazioni contro la tipografia de “L’Unità” a Milano, all’Università di Modena e l’Unione industriali di Torino. Altri attentati al palazzo di Giustizia a Roma. Tra i primi giorni del gennaio del ’69 e il 12 dicembre lo storico Mirco Dondi conta 145 esplosioni, per una media di una ogni due giorni. Gli organi di stampa allineati col potere politico prefigurano la pista degli anarchici tra i responsabili degli scoppi. Non è così. Comunque la psicosi della bomba è ormai nell’aria. Il mese di agosto di quell’anno è segnato da una serie di ordigni su alcuni treni e dei convogli alle stazioni di Milano e Venezia. Un clima plumbeo di tensione si stende sopra i cieli d’Italia, lasciando attoniti i cittadini. Tutto deflagrerà con l’autunno caldo di scioperi condotti con una determinazione fino ad allora sconosciuta. Lo sciopero generale del 19 novembre bloccherà letteralmente il paese, toccando punte di adesione di quasi 19 milioni di persone, cifre per oggi impensabili! A Milano, la manifestazione uscirà dai binari stabiliti e la polizia perderà il controllo della situazione, fendendo la folla con jeep lanciate ad alta velocità. Morirà un agente in un modo crudele, si chiamava Antonio Annarumma. Eppure, nonostante tutto questo, il cuore di quell’anno sarà tutto concentrato in quel 12 dicembre, quando alle 16 e 37 scoppierà un ordigno al tritolo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, in Piazza Fontana. 13 morti che saliranno a 16 e oltre cento feriti. Un’altra bomba verrà trovata inesplosa alla Banca Commerciale, in Piazza della Scala.

Oggi sappiamo che quelle bombe le hanno messe i militanti di Ordine Nuovo, in particolare gli ordinovisti veneti guidati da Franco Freda e Giovanni Ventura. Oggi sappiamo che quella strage è stata favorita da strutture della CIA e apparati di sicurezza italiani, da qui il nome di “strage di Stato”. Oggi sappiamo che quella mattanza doveva servire a modificare gli equilibri politici dell’Italia, in particolare doveva far ricadere la colpa sugli anarchici e più in generale sul comunismo italiano. Oggi sappiamo che da quell’episodio stragista si sono originati tutti quelli a venire nel corso degli anni ’70. Il primo a farne le spese è proprio il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, tra i primi fermati e in realtà persona completamente estranea. Pinelli, durante un interrogatorio fiume durato tre giorni, dal 12 al 15 dicembre, verrà defenestrato dalla Questura di Milano, in circostanze mai chiarite. Di questo si occupa il bel “La notte che Pinelli” di Sofri. E con questo episodio deve fare i conti anche il “genere”. Pinelli fermato a ridosso della strage. Il bisogno di creare un colpevole, di buttare la colpa agli anarchici, in particolare su una testa calda come Pietro Valpreda, ballerino anarchico e zoppo. E Sofri ricorda tutto questo per chi ancora non c’era, per una immaginaria ragazza di vent’anni, a cui quel clima d’orrore è sconosciuto. La polizia, chi era presente in quella maledetta stanza al quarto piano della Questura di Milano, dirà, concorderà una versione di comodo, col Pinelli che spiccherà un balzo fulmineo dalla finestra, precipitando di sotto. Da film sono le ricostruzioni ordinate dal giudice istruttore nell’aprile del 1972 con tanto di bagnino tuffatore nella piscina Cozzi di Milano. Da film visto che ad assistere alla ricostruzione della caduta ci sono magistrati, avvocati e un operatore della polizia con la cinepresa.

Sofri procede avanti e indietro nel tempo e nella memoria, ricostruendo la figura sbiadita di Pinelli, fantasma forse oggi rimosso, ma mai veramente in pace. Ferroviere barbuto e baffuto, fuori forma coi suoi 41 anni portati in un’epoca dove dopo i trenta eri già adulto da un pezzo e a 40 potevi sembrare anziano. Pinelli, sua moglie Licia, le due bambine. Da film, o da racconto nero, cominciano ad essere le ricostruzioni fatte a Cinecittà con un manichino inerte, bambola anarchica pronta a salire sull’autombulanza dai colori accesi degli ultimi gotici baviani. Ed è già un manichino, col quel volto bianchiccio, il Pinelli morente sul selciato della Questura, corpo manipolato e avvistato da una pluralità di persone e personaggi. Pinelli farfugliava parole incomprensibili? Era venuto giù per un malore? Era stato defenestrato? Si era buttato? Nell’ottobre del 1970 il processo per accertare la morte di Pinelli era avviato e sul banco degli imputati c’era il commissario Calabresi, l’uomo che aveva condotto l’interrogatorio fiume del ferroviere. Tra un colpo di scena e l’altro si arriverà anche a riesumarne il corpo, nottetempo sorvegliato da uomini delle fiamme gialle, in quanto il Procuratore Generale milanese diffidava delle altre forze di polizia. Nel racconto piano ed equilibrato di Sofri, raramente colorito da feuilleton, la trama prende comunque i colori di una fosca vicenda giudiziaria fatta di insabbiamenti, ipocrisie, complicità occulte. Arcane. Da quel clima innaturale, da quella storia, da quelle morti non si poteva sfuggire. “Un odore di morte che ha aleggiato su questo paese in quei decenni, che ha trovato il suo palcoscenico ideale nelle stragi di stato, in una necrofilia culturale fatta di prodotti editoriali affascinati dai liquami della morte. Un odore di tomba che chiama a raccolta le pulsioni profonde di un paese antimoderno e ancestralmente squadrista”. Il ferroviere Pinelli, il dottor Calabresi, le stragi di innocenti e civili nelle stazioni, nelle piazze, sui treni, tutto questo diventerà un quotidiano orrore, un senso d’angoscia a cui non si potrà sfuggire.

In quel lontano 1969 dei “KKK – I classici dell’orrore” sarebbero usciti “La strega”, “Il museo degli orrori”, “Il volto e la maschera”, “La città dei morti” e, proprio nelle edicole in quel dicembre 1969, “Spectrus”, scritto da Laura Toscano. Nel 1969 inizia la seconda serie della collana “I racconti di Dracula”, annoverando titoli come “Il sacerdote del regno dei morti”, “Una vergine per il mostro”, “Anche dopo la morte”, “Il castello dei decapitati” e “Il torneo di Satana” nelle edicole a dicembre. Ecco, l’immagine del diavolo cattolico nascosto dietro le quinte a tirare le file del gran complotto contro il cambiamento proposto da operai e studenti è abbastanza banale. Il cinema gotico e horror di allora ci pensò. Nel 1969 uscirono “Contronatura” di Margheriti e “La bambola di Satana” di Casapinta. Quello di Casapinta è un fosco giallo gotico ambientato in un castello, Margheriti invece ritorna su un tema a lui caro, quello della reincarnazione di vecchi fantasmi assetati di vendetta. Fantasmi insepolti, senza pace. A parte la perizia grafica usata dal regista, ciò che colpisce è la cappa d’angoscia che preme sulla storia e i personaggi. Una pioggia costante, persistente, in qualche modo ispirata dal racconto horror di Dino Buzzati “Eppure battono alla porta”. Una pioggia che lava tutto, divora tutto, scioglie tutto e sommerge i protagonisti, trascinandoli nel gorgo senza fine dei loro sensi di colpa. Sarà una coincidenza, eppure il regista insiste visivamente sul fiume di fango che preme, inquadrando più volte, dall’alto verso il basso, pozze acquitrinose, bocce nere sinistramente somiglianti al pozzo osceno scavato dalla bomba dentro la Banca dell’Agricoltura a Milano. Un osceno buco nero pronto a ingoiare ognuno di noi.

Le inquietudini generate dalla bomba del 12 dicembre troveranno maggiormente corpo all’interno di quel fosco apologo sul potere che è “La corta notte delle bambole di vetro”, horror lucidissimo diretto da Aldo Lado in una Praga “di piombo”, controllata da un potere ubiquo non dissimile dalle larve di non-morti rappresentati da Petri nell’epitaffio di “Todo Modo”. Lado però immagina un potere ottenebrante, già pronto al salto negli anni ’80, un potere che vuole spegnere le coscienze di operai e manifestanti. I volti officianti di Lado somigliano alle strane mescolanze di satanisti e politici immaginati nei romanzi di Dennis Wheatley, a cui si rifarà anche un sorprendente Terence Fisher. Il diavolo stesso vorrà fermare la contestazione di massa (e lo sdegno dei giovani contro la morte di Pinelli e le stragi di stato), annegandola con dosi di sesso morboso e necrofilo, nel curioso “Il delitto del diavolo” (1970). Nel film infatti si immagina un hippy giramondo finire nelle maglie di tre streghe che gli faranno un lavaggio del cervello a base di sesso e mangiate. Più consapevole risulterà Corrado Farina col suo Commendator Nosferatu/Adolfo Celi nell’horror marxista “Hanno cambiato faccia”. A quel Pinelli felino, a quel balzo irriproducibile con tuffatori e manichini, sembrano rimandarci i fantocci ammassati nei fotogrammi perduti di “Lisa e il diavolo” (1974). Suggestioni? Forse. Eppure, in quei mesi, in quel clima di scontri, comparve nelle edicole un’altra testata a fumetti, assai lontana dalle avventure della vampira ninfomane Jacula.

Mi riferisco a “Horror” la rivista a fumetti edita da Gino Sansoni Editore, il cui primo numero è proprio nelle edicole in quel dicembre del 1969. Basta l’elenco sintetico dei collaboratori (Pier Carpi, Alfredo Castelli, Emilio Rossignoli, Ornella Volta, Sergio Zaniboni, Piero Zanotto) per capire che “Horror” punta a rappresentare un’evoluzione nel genere. A differenza dei fumetti neri (chiusi in una esasperata indigestione di sesso e morte), la rivista di Sansoni punta a un orrore moderno, figlio dei tempi, estremamente vario. Ecco allora che, insieme a rubriche letterarie, supplementi sulla magia, il cinema del periodo analizzato con lucida puntualità, compaiono rivisitazioni dei classici, omaggi al cinema gotico italiano, inserti umoristici e storie di autori italiani che cercano sempre più di smarcarsi dalla serialità del fumetto nero. Le splendide copertine psichedeliche di Marco Rostagno suggellano un prodotto di massa e di qualità, un contenitore di idee e inquietudini in cui il peso dell’alienazione e la pressione politica del mondo esterno finisce per sfondare le barriere consuete del fumetto, in una frenetica combinazione di vignette sempre più simili ai fotogrammi di una pellicola. Non mancano le sperimentazioni con la fotografia, come nei “fotoromanzi” sui generis di Amstici & Pozzar, o quelli del Buratti Studio, o ancora i lavori di un Franco Bonvicini esasperatamente preso dal bisogno di confrontarsi in un corpo a corpo col clima politico e sociale del momento. In ultima analisi, “Horror” pare davvero un contenitore capace di misurarsi (o almeno provarci) con la complessità di quel che verrà dopo quel dicembre 1969. Una stagione in cui, per dirla con le parole di Adriano Sofri nel suo “Memoria” (Sellerio 1990): “il dolore di una strage sanguinosa cadeva sulle nostre spalle raddoppiato dal peso di una nuova ed enorme responsabilità”. Pinelli ferroviere anarchico, uomo mite con la barba e la bicicletta, era vittima designata di una macchinazione che avrebbe coinvolto tutti. Ancora oggi il peso di quei truci fatti ha lasciato eredità pesanti, delle pulsioni profonde e ancestrali di un paese puteolente e incompiuto, nel cui inconscio collettivo si agitano ancora ribollenti magmi di decomposizione e fetori di razzismo e ignoranza. Non è un caso che l’esperimento colto e raffinato di “Horror” abbia ceduto presto il passo al magma senza fine dei fumetti neri, ben rappresentati da certe collane. Penso, per bellezza grafica, a “Oltretomba gigante”, quasi un requiem necrofilo che accompagnerà il ’73 e il ’74 della strage di Brescia…

Davide Rosso