HOLLYWOOD PAGANISM AND SEXUAL MURDER IN WEIMAR GERMANY

Misticismo, magia, forze occulte e il fiorire della morte erano stati gli elementi dell’Espressionismo cinematografico tedesco, principi di nostalgie sopravvissute dal romanticismo tedesco e di quell’immane bagno nell’Ade che era stata la 1° Guerra Mondiale. I fantasmi dell’Espressionismo emigrarono in America alla fine degli anni ’20, mescolandosi con le oscure giostre e i barattoli di formalina dei parchi divertimento. Il cinema americano degli anni ’30 diventerà un sarcofago miliardario di paure, ombre e stili cinematografici pre-esistenti. Dopo Wegener, Wiene, Murnau, Lang, toccherà ai vari Browning, Whale, Kenton, Freund trasporre il gotico moderno e decadente dei vari Stevenson, Stoker, Wells, Wilde. La casa di produzione che farà una fortuna con queste pellicole dell’orrore sarà la Universal di Carl Laemmle Sr. e Carl Laemmle Jr. Il vecchio patriarca però non amerà mai particolarmente l’horror, rimanendo sorpreso del grande successo al botteghino dei vari Dracula e Frankenstein. I gusti del pubblico americano, affamato di incubi e depressioni economiche, chiederà sempre nuovi lavori spaventosi, costringendo i vari sceneggiatori e registi a saccheggiare la storia della letteratura del terrore. A Stevenson, Stoker, Wells, Wilde, si aggiungeranno Hawthorne, Le Fanu, Dickens, fino a Poe, all’interno del quale sarà possibile risalire alla poesia cimiteriale e al primo gotico della Radcliff, Lewis, Maturin.

Tuttavia Poe seppe imprimere una propria deformazione critica e un percorso totalmente indipendente al proprio lavoro, inventando una sua forma di racconto breve gotico in cui immaginazione artistica, perversione, filosofia coesistono, anticipando totalmente il dominio dell’inconscio novecentesco. In Poe le tematiche e gli influssi si fanno molteplici, attirando inevitabilmente, ma anche depistando notevolmente, il cinema. Innumerevoli saranno le trasposizioni dalla sua opera e quasi sempre nominali, con intrecci inventati di sana pianta che poco avranno da spartire con lo scrittore di Boston e la sua filosofia. Nella fucina di film prodotti dalla Universal negli anni ’30 c’è pure un affascinante film che vorrebbe essere ispirato alla novella Il gatto nero. In realtà The black cat di Edgar Ulmer sarà tutt’altro.

Ma andiamo con ordine. Nel 1934 la Universal ha già sbancato i botteghini coi suoi Dracula e Frankenstein sonori. Lon Chaney è morto da un pezzo e nuovi divi hanno sostituito gli idoli del muto. Karloff su tutti. Poi in secondo piano c’è Bela Lugosi. Un bel libro di Gregory Mank e Philip Riley (edito da BearManor nel 2015) ricostruisce minuziosamente gli eventi (spesso inconsueti e privati) che portarono il giovane Carl Jr. a mettere in cantiere la produzione di una pellicola assai differente dalle precedenti. The Black Cat ebbe un budget di molto superiore ai vari Dracula e Frankenstein. Il carrozzone venne affidato a un giovane emigrato dalla Repubblica Ceca, Edgar Ulmer, uno che aveva lavorato sul set del Golem di Wegener e aveva respirato le ombre ammonitrici dell’Espressionismo tedesco. Ulmer inoltre collaborò con Murnau e Siodmak, prima di emigrare in America e inserirsi nella nuova colonia cinematografica. The black cat fu la sua grande occasione.

Per assicurare il successo, la produzione fece di tutto per scritturare un cast di altissimo livello, appunto con la presenza dei due gioielli principali per quel genere di film: Karloff e Lugosi per la prima volta assieme! Bela, dopo il Dracula di Browning, avrebbe preferito smarcarsi dall’horror, tuttavia sempre per la Universal aveva girato nel 1932 Murders in the Rue Morgue, ispirato sempre da Poe. Sarebbero seguiti i classici White Zombie e Island of the lost souls, quest’ultimo accanto a Charles Laughton. Ormai per Bela sarebbe stato difficile smarcarsi dalle inquietudini del genere.

Intanto la produzione era all’opera. Già nel 1932 Richard Schayer aveva preparato un trattamento ispirato alla novella di Poe, prevedendo la partecipazione di Karloff nel ruolo di Edgar Doe, un sadico alcolizzato; questo scritto era abbastanza fedele, almeno nell’impianto di base, al lavoro letterario. 2 anni più tardi Edgar Ulmer impose un nuovo approccio: il giovane autore era cresciuto culturalmente sotto l’estetica teatrale di Max Reinhardt e aveva approfondito il mezzo cinematografico sul set del Golem nel 1920. Appena arrivato in America aveva continuato collaborando alle scenografie di un altro film epocale come Il fantasma dell’Opera, oppure accanto a un altro emigrato come Paul Leni. Insomma Ulmer aveva un bagaglio notevole per rimaneggiare in modo originale l’esile filo del racconto in mano alla Universal. Accantonò lo script iniziale e si ispirò al misticismo di un autore come Meyrink, colui che aveva scritto nel 1915 la novella originale del Golem. Si ricordò poi di un episodio centrale della Prima Guerra Mondiale, avvenuto nei pressi del forte Douamont, dove persero la vita migliaia di soldati. L’episodio della cruenta battaglia diviene il centro della nuova sceneggiatura, alla cui collaborazione viene chiamato uno scrittore come George Sims, autore di novelle hard boiled per la mitica Black Mask Magazine. Non ancora sazio, Ulmer spinse la scrittura verso lidi sconosciuti per il cinema di allora. Il regista ceco era affascinato dalla figura sulfurea di Aleister Crowley, il mago cacciato da Cefalù dal nostro Mussolini. Il mago Crowley ispirò totalmente il personaggio inquietante di Hjalmar Poelzig interpretato da Karloff, una sorta di architetto luciferino che vive in una fortezza Bauhaus, teatro di una battaglia massacro della recente 1° Guerra Mondiale; Poelzig è l’ennesimo fabbricante di mostri del cinema horror della Universal, solo che lui non assembla parti di cadaveri come Frankenstein, bensì celebra oscure messe nere e conserva i corpi femminili e scalzi delle sue vittime in bare di vetro. Lugosi è Vitus Werdegast, uno psichiatra deciso di vendicarsi di Poelzig che gli ha ucciso la figlia e la moglie. Nella fortezza capiteranno anche una coppia di giovani sposini, interpretati da David Manners (l’eroe romantico degli horror Universal) e Jacqueline Wells.

Il paganesimo spinto di Ulmer farà tremare i polsi del codice Hays, costringendo ad alleggerire il copione in numerosi punti. Alla fine le riprese partiranno senza altri intoppi e si concluderanno dopo solo 19 giorni.

The black cat, come già detto, costerà più del Frankenstein e del Dracula messi insieme, avvalendosi, anche dal punto di vista tecnico, di una troupe eccelsa (su tutti John Mescall alla fotografia, già operatore per Bride of Frankenstein). La coppia Lugosi/Karloff funzionerà perfettamente sullo schermo, senza creare un reale affiatamento tra i due (Lugosi rimase sempre invidioso dei suoi colleghi, tutti meglio pagati di lui). Nel marzo del 1934 le riprese sono belle che finite e il vecchio patriarca della Universal Carl Sr. può visionare la super produzione curata dal figlio. La visione del primo girato gli sarà quasi fatale: Laemmle padre ordinerà di riconvocare troupe e attori per girare altre scene e alleggerire così il contenuto scabroso del film, incentrato su necrofilie, sadismo, accenni omosessuali al limite dell’insostenibile per i tempi di allora.

Nonostante il film sia visivamente pulitissimo, la maschera di Karloff evoca terribili mutilazioni sui corpi morti delle sue adepte, cadaveri perlacei sepolti sotto le teche cristalline del vetro, piegati al volere di un praemonstrator general. La confraternita di satanisti del film suggerisce il non mostrabile; facce devote a un equinozio dei sensi e della volontà. Dagli orrori mutilatori della 1° Guerra Mondiale si generano questi fantasmi del piano astrale della carne, chiaroveggenti lontani dai simboli romantici di Byron e Shelley e più vicini ai vari Fludd, Paracelso, Edward Kelly e Van Helmont; Karloff/Crowley lavora sui corpi morti e impuri, trasformandoli taumaturgicamente in infinito potere per guarire le malattie e perfezionare ogni aspetto della natura e dell’uomo. L’intensità negativa di Black cat è così satura (e il finale non permette sconti o catarsi, con Lugosi impazzito che riesce a vendicarsi del suo nemico, arrivando persino a sfigurarlo, trasmutando col bisturi la carne del suo viso) da far pensare ad altre intensità e negazioni dell’epoca; penso all’unico film dada Le retour à la raison di Man Ray, ma ancor più penso alle pagine che Paolo Bertetto ha dedicato alla distruzione del senso operata dal movimento, una distruzione che non vuole liberare l’inconscio (come sarà per i surrealisti) bensì è interessato soltanto a questa negatività, alla progettazione di un anti-qualcosa, una pura gratuità, arbitrarietà immotivata, caotica, indifferente alla società della vita.

C’è del Dadaismo istintivo nel cinema Universal degli anni ’30, un’indifferenza dei suoi fabbricatori per il prodotto finito, un distillato spesso casuale e caotico di stimoli, separati dal loro canone estetico e ricomposti per il puro gusto di un’invenzione visiva, di un segno libero e radicale, caricato da un linguaggio violento e antisociale (ed è questa radicalità negativa a segnare la fine prematura della carriera di Edgar Ulmer, allontanato da Hollywood dal vecchio Carl Sr., nonostante al botteghino questo Black cat sia uno dei migliori risultati della stagione).

Un grande occhio della notte si è aperto su quei decenni ed ha avuto origine proprio dalle macerie fumanti dell’ecatombe umana della 1° Guerra Mondiale. Non è un caso che il cinema dell’orrore nasca sotto la Repubblica di Weimar, in un interregno tra le macerie e la crisi economica del dopo guerra e l’avvento tragico del nazismo. Maria Tatar ha studiato, in un saggio fondamentale intitolato Lustmord, sexual murder in Weimar Germany, il sottile rapporto intercorso in quegli anni ’20 tra l’arte (cinematografica, pittorica) e le pulsioni di morte. La Tatar rintraccia nell’ombra sovradimensionale di Jack the ripper una sorta di simbolo che permea la cultura e le fantasie dell’epoca; gli effetti della Grande Guerra erano visibili sul corpo dei soldati tornati dal fronte, mutilati orrendamente nel corpo e nell’animo; quelle generazioni di maschi si sentirono vulnerabili e impotenti, per la prima volta minacciati dalle indicibili brutalizzazioni della guerra. L’uomo degli anni ’20 si sentì per la prima volta fragile e perduto, esposto allo smembramento del proprio corpo. La morte era ovunque, la miseria era ovunque. Il carnaio della Prima Guerra Mondiale si lasciò dietro di sé autobiografie, dipinti, novelle, film, foto che non riuscirono ad esorcizzare quel carnaio.

In particolare i dipinti di quegli anni paiono riempiti da corpi mutilati, interiora e repulsioni della carne. E non è un caso che a inaugurare il nuovo secolo del crimine psicopatologico sia stato un assassino fantomatico come Jack lo squartatore. I suoi figli nidificheranno bene nella Repubblica di Weimar: Peter Kurten, Haarmann, Karl Denke operano quasi negli stessi anni e da soli mutilano, mangiano, bevono, scarnificano una miriade di corpi giovani e poveri. Il loro parrà quasi un contagio epidemico, un sintomo evidente di malessere sociale. Le ombre sghembe dell’Espressionismo tedesco ne sono il vessillo funebre.  Il baraccone di Caligari. Il manicomio di Caligari. La peste di Nosferatu. Le mutilazioni psicologiche di Doblin in Berlin Alexanderplatz. Giù giù fino alle piaghe descritte da Hitler nel suo Mein Kampf. La Repubblica di Weimar sarà un’orgia demoniaca di corpi femminili schiantati da un potere sessuale maschile precario e fragile.

Otto Dix e George Grosz saranno ossessionati dagli orrori della Prima Guerra Mondiale e nei loro dipinti raffigureranno molti veterani straziati e prostitute sifiliache legati tra loro in una danza macabra di stupri e rituali. Sia Dix che Grosz saranno affascinati dalla figura di Jack lo squartatore, tanto da ritrarre in numerosi quadri le sue gesta o i cadaveri sventrati delle prostitute. I primi lavori di Grosz esprimeranno una carica di perturbante e una erotomania tormentata. Le donne dei suoi dipinti sono delle moderne Circi in cerca della loro collezione di bestiali amanti, uomini porci degradati e psicologicamente assoggettati. Un’energia erotica e di morte si sprigiona dalle scene del crimine dipinte in Double murder in the Rue Morgue e Murder on Acker Street. Su tutto l’ombra della castrazione, dell’ansietà e della disgregazione mentale di uomini marionette.

Il ‘900 dispiegherà presto altri orrori e l’ombra del lady killer Jack lascerà il posto a militari in alta uniforme, dittature militari e ideologie della morte. La fragile psiche degli uomini ha bisogno di rivalersi sulla donna, scampata al carnaio immane delle trincee. Ecco allora che nella cultura di Weimar la donna diviene una madre-prostituta, un corpo tomba su cui scaricare le proprie frustrazioni e impotenze.

Il dopo dell’Espressionismo e del cinema horror americano degli anni ’30 sarà dominato dal nazionalsocialismo nazista, lungo appunto critico sull’orrore del XX secolo, imbevuto di oscurità e di decadenza, Thule, Iperborea, Stonehenge, Gralsburg. Navi fantasma partiranno per l’Artico, in cerca di un walfeln inaccessibile che possa ripristinare i valori spirituali di un’Età dell’Oro ermetica…

Davide Rosso