LA MUMMIA, UN AMORE SENZA TEMPO

“Ank-Es-En Amon, il mio amore ha resistito più a lungo del Tempio degli Dei.
Nessun uomo ha mai sofferto come me e potrò dirti di più
soltanto quando avrai vissuta la grande notte del terrore e del trionfo.
Quando sarai pronta ad affrontare un momento d’angoscia per un’eternità d’amore.
Solo allora io ti ridarò quello spirito
che ha vagato in tante forme e per tanti anni…”

(“La Mummia” di Karl Freund)

Presso gli antichi egizi l’imbalsamazione era un’arte molto accurata e precisa, svolta attraverso molte e complicate operazioni. Preservando il corpo del defunto dalla ferocia del tempo, essi erano convinti che l’anima potesse così raggiungere il Mondo Sotterraneo per potervi trascorrere una seconda nuova vita. Questa procedura nacque dalla constatazione dei corpi ritrovati naturalmente mummificati tra le sabbie asciutte del deserto e le prime certe testimonianze di un processo di mummificazione risale alla fine della III Dinastia e cioè ben ventisei secoli prima che un uomo chiamato Gesù percorresse le vie di Gerusalemme.

Occorse però molto tempo perché le tecniche che portavano a una praticamente perfetta conservazione del corpo raggiungessero quasi la perfezione e ciò avvenne solo sotto la XXI Dinastia.

Inizialmente i defunti venivano molto semplicemente avvolti da bende impregnate di resina ma, a partire dalla IV Dinastia, i visceri furono asportati e depositati nei Vasi Canopi.

La vera evoluzione di questa tecnica la si raggiunse solamente grazie alla scoperta delle proprietà disidratanti del carbonato di sodio, un sale che proveniva dal Delta del Nilo e che gli Egizi usavano prima solamente come detergente, dentifricio e antisettico.

Durante la XXI Dinastia gli imbalsamatori resero più vivo l’aspetto delle mummie introducendo sotto la pelle un po’ di argilla in modo che i lineamenti rimanessero intatti. Tutta la procedura è quanto mai complessa e la si usava solo per i faraoni, per i nobili e, in pratica per chi poteva pagare perché, in altri casi, ci si accontentava di introdurre attraverso l’ano un olio per far sciogliere i visceri oppure ci si limitava a lavare il corpo prima di immergerlo nel carbonato di sodio.

Il grande sacerdote del tempio di Karnak, Im-Ho-Tep (Boris Karloff) fu posto nella sua bara avvolto da bende ma vivo e cosciente, questo perché egli aveva osato tentare di riportare in vita l’amata principessa Ank-Es-En Amon. Il processo al quale, nella sua avventura romanzata, il sacerdote Im-Ho-Tep non partecipò, farebbe la gioia di un necrofilo ma è quanto di più ingegnoso, interessante ed elaborato ci sia mai stato dato di sapere.

Gli imbalsamatori aprivano il fianco destro del defunto con una lama estremamente affilata e da lì estraevano i visceri, polmoni, intestino, fegato e stomaco che erano poi posti dentro urne in seguito debitamente sigillate chiamate “Vasi Canopi” i quali erano lasciati a fianco della tomba. La cavità addominale veniva pulita con vino di palma e un composto di erbe aromatiche ridotte in minuscoli frammenti.

Il cervello veniva estratto attraverso le narici con un uncino di bronzo, il cuore, per gli egiziani il centro della vita, poteva essere lasciato al suo posto o sostituito con uno scarabeo sacro. In seguito tutto il corpo veniva impregnato da antisettico, in genere si trattava di alcool o ancora del vino di palma. Le incisioni venivano chiuse con della resina mentre la bocca e le narici venivano riempite da grani di pepe. Il corpo veniva lasciato ad asciugare per circa settanta giorni prima di lavarlo e riempirlo di tela di lino impregnata di resina, di lichene e di segatura in modo da ridargli una forma umana quindi veniva eseguita un’unzione con dei profumi e un bagno nel carbonato di sodio al fine, come abbiamo detto, di essiccare il corpo.

Quindi la fase finale: mentre il Sacerdote Imbalsamatore recitava delle litanie il corpo veniva avvolto con delle bende con un rituale molto preciso per cui venivano avvolte prima le dita, quindi le braccia, il corpo e infine la testa. La procedura sembra essere stata correttamente eseguita anche nel film “LA MUMMIA” (“The Mummy”) di Karl Freund del 1932, dove si vede il viso ancora scoperto di uno sconvolto Karloff che viene poi bendato completamente ma, in questo caso, è stato fatto solo per dare drammaticità alla scena. La pellicola di Freund mischia la realtà con il romanzesco e la storia venne ideata da due giornalisti, Nina Wilcox Putman e Richard Schayer, i quali s’ispirarono a una storia ambientata in Egitto perché l’argomento era sempre attuale.

Venne in seguito adattata per lo schermo da John Lloyd Balderston che fu anche lo scenografo del “FRANKENSTEIN” di James Whale. Im-Ho-Tep esistette veramente: era un architetto e fu il costruttore della grande piramide a gradoni di Zoser ma, nel caso del film, egli riveste il ruolo di un sacerdote sepolto vivo per sacrilegio e riportato in vita grazie a un archeologo che legge ad alta voce la formula del “Libro dei Morti”.

Dieci anni dopo, grazie all’aiuto di un misterioso e sinistro egiziano, “Ardath Bey”, la mummia della principessa egizia viene ritrovata, riesumata e portata al Museo del Cairo. Lo scopo di Ardath Bey che in realtà è Im-Ho-Tep sta per essere raggiunto: egli vuole far resuscitare la principessa da lui tanto amata tremilasettecento anni prima e quando scopre che la sua anima si è incarnata in una giovane fanciulla il cui aspetto è identico a quello dell’amata, decide di sacrificarla per far in modo che l’anima della principessa egizia possa riaffiorare alla coscienza e quindi possa rivivere completamente con lui nella vita dell’oltretomba. Il sacrificio viene evitato, il libro dei morti bruciato e Im-Ho-Tep si riduce in polvere.

La truccatura di Karloff, il suo volto grinzoso, è stata un’ennesima realizzazione di Jack Pierce e fu fatto con pezzi di carne, crema di formaggio, argilla e collodio. Nonostante tutto, il successo del film non fu straordinario per cui passarono alcuni anni prima che la Universal riprendesse il personaggio in una quadrilogia inedita composta dai film “THE MUMMY’S HAND” (1940) di Christy Cabanne, “THE  MUMMY’S TOMB” (1942) di Harold Young, “THE MUMMY’S GHOST” (1944) di Reginald LeBorg e “THE MUMMY’S CURSE” (1944) di Leslie Goodwins.

Negli ultimi tre il ruolo della mummia, il cui nome è diventato Kharis, fu interpretato da Lon Chaney Jr.

Toccò quindi ancora una volta alla Hammer, a Terence Fisher e a Christopher Lee, di iniziare la nuova e più colorata carriera della creatura bendata proveniente dal passato. Nel 1959 ecco uscire sugli schermi di tutto il mondo “LA MUMMIA” (“The Mummy”), la cui storia è estremamente simile alla precedente se si esclude il fatto che la mummia resta tale per tutto il film per cui Lee dovette usare al massimo le sue qualità di mimo. Il nome del Sacerdote è ancora Kharis e quello della principessa è Annaka. Inutile quasi dire che l’archeologo John Banning è interpretato da Peter Cushing.

Ancora la Hammer ritorna con “IL MISTERO DELLA MUMMIA” (“The curse of Mummy’s Tomb” – 1964) di Michael Carreras e “IL SUDARIO DELLA MUMMIA” (“The Mummy’s  Shroud” – 1967) di John Gilling.

Nel già citato “SCUOLA DI MOSTRI” di Fred Dekker la mummia fa una fine ignominiosa quando un capo della sua benda si impiglia in un chiodo e si svolge vorticosamente polverizzando il fragile contenuto.

Anche il povero sacerdote poi ha subito l’onta di un ruolo comico come capitò a tutte le creature Universal all’epoca andando a interpretare con Bud Abbott e Lou Costello, da noi conosciuti come Gianni e Pinotto, il film “IL MISTERO DELLA PIRAMIDE” (“Abbot and Costello meet the Mummy”) di Charles Lamont del 1955.

La conclusione è in definitiva sempre la stessa: scarabei carnivori animati con il computer, tormente di sabbia con un viso urlante sempre dovute alla moderna tecnologia, sono alla base de “LA MUMMIA” (“The Mummy”) di Stephen Sommers, enormemente più simile a un Indiana Jones in scala ridotta che alla tormentata creatura di Freund, Fisher e gli altri (e che ha avuto ben due seguiti e tre spin-off, ndr).

Giovanni Mongini