NON APRITE QUELLA PORTA 1974: UNA BRUTALE LUNGIMIRANZA

Primi anni Settanta: durante il periodo natalizio, Hooper si trovava in un grande magazzino e mentre pensava al progetto NAQP e malediceva la calca vacanziera, gli cadde l’occhio su di una motosega…(1); durante la lavorazione, “il calore […] era insostenibile. D’altra parte, questo calore contribuì al film in una maniera positiva, creando una sorta di follia nel gruppo” (Tobe Hooper, 2); sia Partain che la Burns, a quanto pare, non dovettero recitare più di tanto alla prima apparizione di Leatherface: la trovarono assolutamente spaventosa; per ottenere l’effetto cercato dalla troupe, Siedow (il vecchio) prese a martellate Marilyn Burns – spintovi da lei stessa – con un realismo così eccessivo da farle del male; Gunnar Hansen, al momento della fuga della protagonista dalla casa, per un attimo dimenticò di essere su di un set cinematografico – come ipnotizzato dalla ripetizione della battuta: “Uccidi la puttana”, che alle sue orecchie suonava quasi fosse un ordine –  e tornò in sé solo muovendosi (1); “Per condizionare gli attori, urlavo fra le riprese, rovesciavo e rompevo degli oggetti come in preda a una collera permanente. […] L’attrice principale fu ferita più volte da me (risa)! Un dottore ha dovuto controllarla per tutto il tempo delle riprese. Aveva una caviglia considerevolmente gonfia, le ginocchia coperte di piaghe e, nell’inseguimento finale, si conficcò un gran numero di spine nel petto. […] [Gunnar Hansen] si è ferito piuttosto seriamente […] nella scena in cui urta assai violentemente la parte superiore d’una porta mentre cammina sollevando una ragazza. TUTTI sono stati feriti, in un modo o nell’altro, durante le riprese: l’ultimo giorno, ero il solo incolume… quando un pavimento marcio è crollato su di me ferendomi leggermente! Ma la cosa peggiore era la puzza delle ossa di cui avevamo tappezzato la casa, sotto il calore dei proiettori” (Tobe Hooper, 2), puzza che senza alcun dubbio doveva provenire anche dalla camicia di Hansen, dal momento che indossò la stessa per tutte le riprese senza lavarla al fine di rispettare al massimo il principio di verosimiglianza; Edwin Neal (l’autostoppista) raccontò a John Mc Carthy  che nella scena finale in cui viene ucciso dal camion, Hooper ebbe l’idea di aggiungere una sequenza in cui Neal veniva visto morto, e lo fece star disteso bocconi parecchio tempo poiché non trovava l’angolo buono per la ripresa: dato il sole fortissimo, l’attore si bruciò le labbra –  dulcis in fundo, la scena non venne poi utilizzata (3); R. A. Burns (art director) dice che NAQP entrò al Museo dell’Arte Moderna portatovi alla lettera da Bryanston (della Bryanston Pictures, compagnia cinematografica legata alla realizzazione di Gola profonda): dopo che i responsabili dell’ente si resero conto del genere di “agghiacciante capolavoro” al quale avevano incautamente aperto le porte (se ci è consentito il gioco di parole), decisero di non accettare più film che non avessero espressamente richiesto (1); col senno di poi, si può senz’altro dire che Bryanston avesse piena ragione sul fatto che il film meritasse l’inclusione fra le opere più rappresentative della contemporaneità e immaginiamo che oggi ritengano lo stesso anche i dirigenti del museo: egli era stato soltanto di una brutale lungimiranza e aveva precorso di qualche decennio i tempi.

In fin dei conti, tutti questi episodi – e molti altri ancora se ne potrebbero citare – ebbero come loro obiettivo di promuovere a livello pubblicitario NAQP collocandolo in un terreno di confine fra finzione e documentarismo di un genere del tutto particolare (comprendente anche, e massicciamente come abbiamo visto, l’opera nell’atto del suo realizzarsi), quasi a voler sottolineare quanto già vi emergeva a livello di pura tecnica cinematografica: infatti, le prove precedenti di Hooper – Peter, Paul & Mary: Songs is Love (1970), Eggshells (1971) – dimostrano che egli sapeva realizzare del cinema-vérité e per NAQP volle usare la camera a mano, lo stile più adatto allo scopo che si proponeva, il che implicò di girare in un 16 mm. da gonfiare poi in 35: l’effetto verità di NAQP (per il quale vi fu chi lo accostò agli snuff) venne molto accentuato proprio dalla pellicola eccessivamente sgranata. Quel che ne sortì fu “non un documentario, ma un resoconto immaginario di un fatto reale” (Kim Henkel, co-sceneggiatore e produttore) (1), ovvero l’inaudito caso Ed Gein, col suo corollario di profanazioni e furti assortiti nei cimiteri, cannibalismo e precedente hitchcockiano (Psycho, naturalmente) e anche, come è il caso di rimarcare, quell’interminabile serie di aneddoti che contribuì a produrre un’aura magica intorno alla creazione, aura che sotto l’aspetto creativo gli apprendisti stregoni cominciarono a intuire soltanto al termine del montaggio, insomma a opera conclusa e finalmente viva, e dunque incontrollabile nella sua autonomia (1); lo stesso alone leggendario, purtroppo, contribuirà alla nascita di un vero e proprio culto feticistico e passionale intorno al film in pratica già a partire dall’anno della sua uscita (1974), osteggiandone molto spesso una lettura critica attendibile e fredda quanto è necessario.

Prima di continuare, è opportuno precisare che NAQP deve essere considerato come il prodotto collettivo di un gruppo di artisti che agì in uno stato di grazia mai più ritrovato, e forse impossibile da ricreare; in ciò venne aiutato dalla struttura formale scelta ad hoc dagli sceneggiatori per il loro dramma documentaristico: la classica, aristotelica – e spesso duramente irrisa per la sua inflessibile normatività – unità di tempo, luogo e azione: tutto si svolge nell’arco di poche ore senza alcun cambiamento di ambiente, flash-back o anticipazione. La contrazione degli elementi narrativi favorì un approfondimento e una piena valorizzazione in chiave di strettissima verosimiglianza dei tratti anche minimi della recitazione, dell’ambientazione, del décor, della colonna sonora e dei costumi (maschere di Leatherface a parte, si pensi a quanto detto a proposito della sua camicia). Con ogni probabilità la cosa impedì alla troupe di perdere anche solo per un attimo il polso del materiale che andava girando, sia pure senza rendersi conto fino in fondo dell’eccezionalità di quanto stava accadendo sul set in termini complessivi: quando diremo “il film di Hooper”, quindi, sarà esclusivamente per ragioni di brevità (e quando si critica in astratto la struttura formale di NAQP, aggiungiamo infine, occorrerebbe prima tener conto dei problemi che essa risolve d’emblée con le sue astute riduzioni).

Già che ci troviamo dalle parti della retorica classica, è opportuno spendere qualche parola sull’innegabile aspetto parodico, volontario o meno, dell’opera: a questo proposito basterà citare il fatto che cinque personaggi buoni si trovano a fronteggiarne cinque cattivi nell’inversione più nera e nefanda possibile di una sfida all’OK Corral con esito diametralmente opposto, e quel che è più senza eroismi, rispetto a quello voluto dai padri fondatori della cultura statunitense; in tale contesto western, le maschere di Leatherface e la sua inseparabile motosega –  una Poulan A306 – possono suonare come degli onirici e allo stesso tempo ultrademenziali richiami allusivi al berretto (una protezione, sia pure di tipo diverso rispetto alle celate di pelle umana del macellaio folle) e al coltello di Davy Crockett.

E’ il caso di analizzare brevemente, adesso, l’evidente magia (nera) che contraddistingue NAQP: secondo Siedow, una delle cose più interessanti riguardo al modo in cui Hooper lo scrisse e diresse fu che portò la gente a vedere cose che non c’erano affatto, del tipo: “Hai stuprato tutte quelle ragazze!”, come disse una spettatrice proiettando nella vicenda ciò che voleva metterci lei (1). Dunque, in questo specchio a fantasmi interiori “lo spettatore piomba in pieno incubo, si persuade di aver visto delle immagini sanguinose che esistono soltanto nella sua fantasia” (2) obbedendo a una sorta di riflesso condizionato dell’occhio, addestrato fin dall’inizio a scoprire nel buio illuminato da improvvisi flash dettagli di cadaveri in decomposizione; alla fine, poi, in una sorta di controcampo dilatato all’inverosimile nel tempo, eccoci osservare insistiti dettagli ravvicinati delle pupille dilatate per il terrore della povera Sally: saranno simili aperture appena suggerite a consentire gli eccessi sanguinolenti portati fino in fondo dai numerosi film che si baseranno su NAQP (fino a oggi, fra seguiti, remake e spin-off, ne possiamo contare ben sette, oltre a un documentario sulla realizzazione dell’opera originaria). Proprio l’uso di questo genere di accorgimenti chiarisce quanto sia profondamente americano il retroterra culturale dell’opera, tutta impregnata del più puro e pragmatico comportamentismo psicologico che trovò appunto negli Stati Uniti un terreno assai fertile per nascere e diffondersi. A proposito di sangue esibito, sarà il caso di osservare ancora che uno dei pochi momenti in cui se ne vede davvero scorrere è  quello in cui Leatherface, alla fine della vicenda, si ferisce involontariamente col suo attrezzo preferito: l’ironia conclude alla perfezione la tragedia.

Non va dimenticato che secondo Hooper, sebbene la pellicola parli della disintegrazione della famiglia ( che – puntualizziamo noi – distruggendosi fa a pezzi anche l’idea della comune hippie alla quale allude il gruppo di vittime “confusamente” composto da amico, parenti e fidanzati) e non per caso nasca negli anni della guerra del Vietnam, in sostanza ha come suo oggetto e obiettivo lo spaventare al massimo il pubblico (1). Quindi non l’ultraviolenza, bensì l’ultrapaura generata dalla minaccia che sovrasta il fruitore fin dall’inizio con la lunga ripresa del cadavere legato al monumento, in una posa fra il grottesco e lo ieratico, contrapposta e rinforzata da quella finale di Leatherface impegnato in una danza con la motosega in pugno, immagine inquietante che accompagnerà lo spettatore all’uscita dal cinema e forse oltre: l’orrore, dapprima immobile, si fa dinamico e il climax, perlomeno idealmente, non cessa mai di crescere. Quanto al terrore che l’opera suscitò nelle sale, appare interessante la reazione di Bill Moseley (attore di NAQP 2): “Con la famiglia di NAQP mi resi conto che c’è gente con la quale non puoi comunicare, nella quale c’è qualcosa che manca… sono ancora esseri umani, ma in loro qualcosa è andato perso. Privi di umanità, incapaci di un briciolo di compassione, di  empatia – non c’è niente di tutto questo – penso d’esser stato spaventato da ciò più che da ogni altra cosa.” (Affermazione che potrebbe valere alla  stessa maniera anche per un’altra opera dell’epoca, senz’altro più efferata, ma forse non così complessa: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven). D’altro canto, tutti i grandi film horror ti ricordano che vai verso la  morte (1), e cos’è la morte se non il momento a partire dal quale non comunicheremo mai più?

Tuttavia, se si ha lo scopo di spaventare al massimo – e soprattutto in maniera duratura – il pubblico, certo non è sufficiente affastellare una serie di scene più o meno sanguinose, ma occorre servirsi di un preciso metodo che trovi la propria ragion d’essere nel mostrare sì degli effetti agghiaccianti e insieme allucinatori, ma prodotti a partire da delle cause reali molto concrete, essenziali e di primo acchito quasi invisibili (in quanto tenute ai margini della narrazione), che siano fortemente radicate nel quotidiano allo scopo di ottenere un’inconsapevole adesione a livello profondo da parte dello spettatore: per chiarire almeno nei suoi tratti fondamentali tale metodo, bisogna destrutturare NAQP nel suo sfondo e nel suo antefatto senza farsi soverchiare dai dettagli infernali di cui è prodigo; una volta compiuta questa operazione, anch’essi rientreranno in una logica precisa, irrazionale soltanto all’apparenza e fino a quando resterà priva degli opportuni collegamenti. Per cominciare, la storia sulla quale si stagliano gli orrori di Hooper in sostanza è questa: una famiglia border line, collocata in una zona rurale depressa e isolata degli Stati Uniti nella quale non mancano esempi di demenza (ben esemplificate dalla figurine stilizzate dell’ubriaco nel cimitero e in quella del garzone del benzinaio), regge la propria economia domestica su di un macello, nel quale lavorano quasi tutti i suoi componenti. Successivamente, nel mattatoio vengono introdotte nuove tecniche nell’uccisione del bestiame (il fucile ad aria compressa, più “umano”, ovvero più distanziante dell’arcaico martello) e, a quanto s’intuisce dal discorso dell’autostoppista, ciò significa licenziamento per lui  e per i suoi parenti: la cosa ha un effetto traumatico devastante sulla microcomunità, che, come risposta alla nuova situazione venutasi a creare, si chiude in se stessa e continua a esercitare il proprio lavoro utilizzando i medesimi strumenti del passato (martello, coltellacci e motosega) in una forma del tutto deviante e psicotica, vale a dire su qualunque essere umano o animale capiti da quelle parti. Per questo in casa si trovano veri e propri tappeti di ossa di pollo e di bovini, e addirittura una gallina all’interno di una gabbietta che la contiene a stento: il metodo più sicuro per farla ingrassare alla svelta e poterla poi mangiare, come ci insegnano gli allevamenti “ottimizzanti” del settore (e allo stesso tempo si potrebbe interpretare l’immagine come una criptocitazione della donna-gallina di Freaks!); per questo Pam viene appesa a un gancio da macellaio con assoluta nonchalanche e quindi, una volta morta, posta dentro un enorme congelatore: dal punto di vista di Leatherface la crudeltà non c’entra, in questa casa animali e uomini sono messi sullo stesso piano, tutti sono pezzi di carne qualsiasi, tutti risultano fungibili al punto da poter essere mangiati e anche lavorati come oggetti: la pelle umana può diventare un paralume, indipendentemente dalle sue evocazioni del nazismo, allo stesso titolo delle ossa di animali trasformate in sculture incongrue fra il grottesco e il magico.

Inoltre, la famiglia è talmente fissata al trauma da fare il tentativo di fermare il tempo: lo prova a sufficienza il fatto che la vecchia sia stata tenuta in casa anche da morta (con l’ovvia allusione alla madre di Norman Bates); Leatherface e l’autostoppista, poi, vanno addirittura oltre la fissazione:  disseppelliscono i cadaveri in un desiderio regressivo di tornare ancora più indietro, all’epoca in cui la loro follia era contenuta, sia pure a malapena, entro gli argini di una funzione sociale: il lavoro e la relativa sussistenza che esso procurava;  proprio a ciò ci riferivamo quando parlavamo di cause reali concrete ed essenziali. A proposito di passato, infine, si può ipotizzare che quello a cui fa obliquamente riferimento NAQP sia tout-court il periodo mitologizzato della frontiera: tale epoca indicherebbero il titolo originale, a causa della connotazione che possiedono per gli americani i termini “Texas” e “massacre” uniti insieme (1), la posizione del cadavere all’inizio (a cavalcioni del monumento funebre, proprio come un cow-boy) e le numerose riprese di teschi bovini in posizione predominante: ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, gli autori dimostrano di sapere bene come utilizzare ai propri fini dei riflessi culturali condizionati.

Per tornare alla nostra comunità di pazzi, una volta che a essa verranno a mancare occupazione e salario, nei confronti della donna intesa come oggetto sessuale saranno privilegiate in maniera esclusiva e totalizzante le pulsioni sadiche: lo dimostrano il rapimento di Sally e l’intera sequenza della cena con lei, dalla quale almeno il benzinaio e l’autostoppista sono senza dubbio attratti, ma non certo nella prospettiva dell’amplesso: questo significherebbe infatti già andare avanti, superare almeno in prospettiva il trauma; una nuova donna in casa vorrebbe dire anche allargamento della famiglia, storia che continua verso un ignoto spaventoso per gli psicotici criminali che la compongono. Da parte sua Leatherface si colloca a uno stadio ancor più infantile (e minaccioso in quanto del tutto imprevedibile), per cui la sua danza finale con la motosega è quella di un bambino che dapprima sembra tutto teso verso l’uccisione della ragazza, ma nel momento in cui la cosa non gli riesce, se ne dimentica e si volge ad altro girando semplicemente le spalle a quello che per lui è un semplice gioco.

Anche la composizione del gruppo parentale non è affatto casuale: si passa dalla morta (la vecchia) al morente (il vecchio), dal pazzo furioso e impresentabile (caratterizzato dalle tre personalità corrispondenti a una maschera diversa a seconda dei ruoli che ricopre e degli stati d’animo che si trova a vivere) al folle apparentemente innocuo (l’autostoppista) per arrivare fino allo schizofrenico scisso in due (che non a caso riesce anche a mandare avanti una stazione di servizio e a tentare di dissuadere i giovani Hardesty dal cercare la casa del padre; d’altra parte, in famiglia egli è considerato “solo un cuoco”). Ciò stabilisce una linea di continuità e una gradazione nella demenza e nello sfacelo che non coinvolge esclusivamente la limitatissima zolla di terra in cui si svolge la vicenda, ma l’intero mondo, nel quale la collocazione negativa degli astri e il loro reciproco collegamento sono causa della serie di disastri ubiquitari e assurdi riportati dalla radio: la loro origine cosmica (un po’ come ne La notte dei morti viventi, ma in Romero si trattava di tecnologiche radiazioni provenienti da un satellite e non di astrologia) fa capolino dalle letture e dai discorsi di Pam a proposito di Saturno retrogrado (4) (non per nulla fra i titoli possibili del film) – pianeta già normalmente capace di influenze negative, ora accentuate dal suo movimento all’indietro – e dalle allusive riprese del Sole e della Luna. Se è consentita la metafora, anche il macello del cielo ci ha licenziati e non sappiamo dove trovare un nuovo lavoro. Inoltre, l’idea del legame strettissimo fra microcosmo e macrocosmo, per di più nella prospettiva della fine del mondo – come vedremo fra breve – non è affatto un’idea contemporanea, ma piuttosto tipicamente medievale (e a questo punto si aprirebbe tutto un discorso, che qui ci è concesso soltanto segnalare, sul presunto progressismo che caratterizzerebbe a priori le culture e i prodotti a vario titolo underground).

Quanto abbiamo detto non esaurisce fino in fondo le possibili letture dell’opera e proprio in tale caratteristica polisemia stanno la sua qualità estetica e l’interesse che ancora oggi essa suscita. NAQP è anche una fiaba – più precisamente una specie di “Hansel e Gretel” – al contrario (ancora la parodia), che non serve per preparare i giovani al mondo degli adulti, ma piuttosto mira a confonderli, a negare loro qualsiasi speranza e qualsiasi catarsi al film (superato sotto questo aspetto soltanto da Il grande silenzio, spaghetti-western del 1968 di Sergio Corbucci). L’idea di apocalisse che ne emerge in maniera strisciante, ma comunque sufficientemente evidente, non contiene in sé alcuna facoltà rigeneratrice, né per la protagonista (che sfugge a Leatherface, ma non al trauma permanente che lui e la sua famiglia le hanno procurato) né per il mondo intero (4); NAQP è un incubo collettivo dal quale non ci possiamo svegliare perché rappresenta con la massima precisione la nostra realtà odierna, grazie anche al suo ormai celeberrimo logo fra meccanica e magia: la motosega azionata da un essere che ne riproduce a un livello di primitività umana l’ottusa forza, logo per il quale vale senza dubbio la formula futurista della fusione dell’istinto col rendimento del motore. L’apparente “disordine narrativo di questo film, le sequenze” apparentemente “illogiche d’azione e il senso apocalittico di distruzione sono rituali, ma senza le funzioni rigeneratrici o collettive usualmente associate alla violenza ritualizzata.”  In questa favola, “c’è soltanto il male” (4).

La grande maggioranza dei movimenti underground successivi (a partire dal punk della seconda metà degli anni ’70 per arrivare alle culture dell’estremo e dell’apocalisse di fine millennio) saranno fondati, in forma implicita o esplicita, su questa base epistemologica – in realtà non così estranea alle fiabe nelle loro versioni originarie non moralizzate. Di essi NAQP può essere a buon diritto considerato un capostipite privo di qualsiasi compromesso (in qualche caso riconosciuto come tale forse anche a livello di colonna sonora, satura di rumorismi elettronici com’è, e quindi proiettato per esempio dal gruppo di power electronics degli Whitehouse nel corso delle sue Aktions dal vivo (5)). Un archetipo talmente avanzato nella propria negatività e ingombrante nella propria eredità – sempre fresco com’è di un terribilismo mai affettato, tutto e solo giovanile nel senso migliore del termine – da rendere quasi pleonastiche molte delle successive produzioni artistiche che si misureranno con esso sul medesimo terreno. Eppure, nonostante le peggiori intenzioni dei suoi autori, neppure costoro possono sfuggire a un piccolo paradosso positivo: secondo David J. Schow, infatti, le pellicole horror come NAQP hanno involontariamente rafforzato la figura femminile della “bella perseguitata”, per cui senza quest’opera neppure ci sarebbe stata la battagliera eroina di Alien (1). Un’altra testimonianza, se ancora ce ne fosse stato bisogno, dell’inesauribile vitalità di quello che adesso, dopo averne reso motivate ragioni, possiamo chiamare senza alcun dubbio capolavoro.

Gianfranco Galliano

Note

(1) S. Jaworzyn, The Texas Chain Saw Massacre Companion, Titan Books, 2003

(2) “Cine-zine-zone” n. 4 ,  Spécial “Massacre à la tronçonneuse”, 1980

(3) M. Hostench / J. Martì, Pantalla de sangre, Midons, 1996

(4) M. Brottman, Meat Is Murder!, Creation Books, 1998

(5) A proposito degli Whitehouse, è interessante riportare questo passo, sicuramente riferito alla musica prodotta dal gruppo, ma che calza a pennello anche a NAQP: “La brutalità viene rispettata. La gente ha bisogno di una paura salutare, desidera temere qualcosa, vuole qualcuno che la terrorizzi e la renda sottomessa e tremante. Chi ciarla di crudeltà e si indigna per la violenza? La gente ha necessità di qualcosa che le dia il brivido di un attacco. Quando è logicamente stabilito che il grado di violenza caratterizzante l’azione compiuta è il solo fattore per calcolare la felicità dell’individuo attivo o passivo – e ciò perché dove la violenza è maggiore, lo shock sul sistema nervoso sarà più acuto, allora risulterà che il più duro e il più crudele sarà il migliore” (The Whitehouse / Come Organization File, Aes-Nihil Productions, senza data di pubblicazione).