IL “RE-ANIMATOR” DI STUART GORDON

Con Re-Animator (1985), Stuart Gordon fa il suo esordio come regista cinematografico: in precedenza aveva fondato e diretto l’Organic Theatre di Chicago, gruppo artistico d’avanguardia che aveva una ben nota reputazione in fatto di stranezze. Bisogna subito dire che egli non paga affatto lo scotto del passaggio da una forma artistica a un’altra, scadendo magari nel teatro filmato o peggio: semmai si situa all’interno di un tipo particolare di dramma – quello del Grand Guignol – che è già per definizione e collocazione storica l’antesignano dell’horror sul grande schermo; gli è quindi sufficiente utilizzare quanto la tecnica cinematografica mette a disposizione all’interno di un simile schema per ottenere sequenze come quella in cui i rianimati, agli ordini del dottor Hill, attaccano in massa West e i suoi amici con una sorta di esplosivo balletto piuttosto efficace e ottimamente motivato dallo sviluppo narrativo; anche il grande obitorio, scelto come open space per le azioni più rilevanti (e quindi in un certo senso utilizzato come palcoscenico teatrale incongruo ed estremamente avanguardistico, forse memore delle messe in scena di Grotowski) appare di grande efficacia: in effetti, chiunque si sarebbe aspettato semmai che il rianimatore agisse per buona parte della pellicola in un oscuro e claustrofobico laboratorio, cosa che invece non accade se non nella parte iniziale della storia e per brevi tratti.

In una certa misura, il film ricorda altri horror di ottimo livello degli anni ’80, in particolare quelli del primo Peter Jackson, ma non vorremmo essere fraintesi: l’apparentamento sembra essere frutto di un’idea estetica sì condivisa (l’equilibrata miscela di sangue e umorismo per liquidare la questione in due parole), ma come se si trattasse più di una necessità legata al testo di partenza – come vedremo meglio fra breve – che non di prestiti forzati da parte di un ex-teatrante ancora timido nel proporre le proprie scelte personali in un altro ambito artistico. Oltre a questo aspetto, che potrebbe comunque venire catalogato ancora come troppo generico quando non alla moda, occorre sottolineare quanto Gordon paia particolarmente attratto dall’opera di Lovecraft, del quale porterà sullo schermo altri due racconti, From Beyond (1986) e soprattutto Dagon (2001), a tutt’oggi considerato – giustamente – la trasposizione cinematografica più fedele delle storie dello scrittore di Providence, spesso mal servito dalla settima arte: in quest’ultimo sarà pienamente evidente la sua originalità e robustezza di regista, per nulla dipendente dalla miscela ilarotragica di cui parlavamo sopra, ma capace di variare a seconda delle esigenze che la storia di partenza obiettivamente presenta.

In effetti, e nonostante le notevoli libertà che regista e sceneggiatori (oltre allo stesso Gordon, Dennis Paoli e William J. Norris ) si prendono rispetto al testo originario, già con questa sua prima prova, si può valutare come lo spirito lovecraftiano sia stato nella sostanza rispettato. In effetti, nel racconto Herbert West rianimatore (1) non mancano elementi di ironia quando non addirittura di umorismo, beninteso nero – cosa che non capita spesso di rilevare leggendo le pagine di Lovecraft; facciamo qualche esempio traendolo direttamente dal racconto: la rassomiglianza del mostro col dottor Alan Halsey – e pertanto la riuscita solo parziale dell’esperimento di rianimazione –  viene commentata da West con le seguenti, laconiche parole: “Il cadavere non era abbastanza fresco”; West era “un meticoloso Baudelaire dell’esperimento macabro, un infaticabile Eliogabalo delle tombe”; teneva in vita delle “cellule tolte dalle uova quasi mature di un non precisabile rettile tropicale” (il corsivo è nostro); egli “talvolta compiva anche veri e propri miracoli di chirurgia per i soldati, ma le operazioni che davvero lo deliziavano erano di un genere meno filantropico e meno palese, perché  anche i rumori che esse comportavano – singolari persino in quella babele di dannati – avrebbero avuto bisogno di una giustificazione. Frequenti colpi di rivoltella, per esempio; certo non insoliti su un campo di battaglia, ma del tutto eccezionali in un ospedale. Il fatto è che gli individui rianimati dal dottor West non erano destinati a una lunga esistenza e a un vasto pubblico.” Infine, la testa del maggiore Eric, staccata dal corpo e messa in una tinozza, si mette a parlare: ora, se in letteratura la cosa può essere utilizzata anche come elemento scioccante, al cinema – ovvero qualora venga visivamente rappresentata nel suo dinamismo – più che fonte di paura agli occhi dello spettatore apparirà senz’altro grottesca, a prescindere da una qualunque volontà registica particolare.

Per venire adesso alla pellicola di Gordon, è proprio dal momento in cui il dottor Hill perde la testa che le sequenze divengono via via più spassose; in questo senso gli esempi abbondano: il capo del dottore dà del bastardo a West mentre il resto del suo corpo lo assale alle spalle tramortendolo; Hill entra nel proprio studio decapitato, barcollante e incerto nei gesti per le comprensibili difficoltà che incontra un corpo a muoversi quando gli ordini provengono da un luogo diverso rispetto a quello a cui era abituato (non più la sua sommità, bensì la bacinella dove sta la testa); Meg dà un colpo al capo del medico ed esso, posticcio, cade suscitando il suo orrore; la testa che pratica un cunnilingus (appena accennato) a Meg; e ancora, quanto dice West a Hill: “Non riuscirà a trarre niente dalla mia scoperta: chi vuole che creda a una testa parlante? Si cerchi un lavoro in qualche baraccone…”; infine: il padre di Meg che prende a testate il capo di Hill in una lotta, è il caso di dirlo, senza esclusione di colpi.

Dopo un’introduzione piuttosto asettica (se si esclude la morte del mentore di West nell’antefatto), il sangue sgorga d’improvviso e scorre in quantità industriale sui personaggi molto pulitini ai quali prestano i loro volti Jeffrey Combs, Barbara Crampton e Bruce Abbott: di essi fanno strame gli effetti speciali di Anthony Doublin, John Naulin e della MMI, con la supervisione di John Carl Buechler: tutte le rianimazioni, e specialmente quella della testa del dottor Hill (creata da Buechler, che realizzò anche buona parte dei cadaveri) sono realistiche e convincenti; il virtuosismo viene comunque raggiunto con l’intestino-zombi che, tentacolare quanto è necessario, agguanta West.

Di particolare efficacia anche il siero verdino fluorescente brevettato da West, costituito nientemeno che da Luminol, un reagente chimico derivato dal luminolo comunemente utilizzato per rilevare tracce di sangue dalla polizia scientifica o come segnalatore notturno d’emergenza.

A quanto già affermato a proposito della perfetta mescolanza di gore e commedia, occorre ancora aggiungere che essa non scade mai nel consolatorio (si veda per questo il finale), e dunque non sembra immotivato il fatto che Re-Animator abbia da subito rappresentato un fiore all’occhiello della neonata Empire, piccola società di produzione e distribuzione fondata dal veterano Albert Band (l’italianissimo Alfredo Antonini) e dal figlio Charles, i quali si inserirono nel progetto a lavorazione avanzata barattando i diritti distributivi con la copertura dei costi di post-produzione. Prima di fallire per rigenerarsi nella Full Moon, avrebbe prodotto fra gli altri Terror Vision, L’attico (con Klaus Kinski), From Beyond (ancora di Gordon), Ghoulies e due film di David DeCoteau ( Creepozoides e  Dreamaniac ).

Nella colonna sonora risulta fin troppo evidente il richiamo alle musiche composte da Bernard Herrman per Psyco: “La prima volta che ho visto Re-animator in copia di lavorazione – ha dichiarato il compositore Richard Band (altro figlio del già citato produttore) – ho subito identificato la follia propulsiva di Herbert West con quella di Norman Bates; ho quindi scelto di mantenere il feeling strutturale di Herrman, sovrapponendolo al mio tema musicale, più ironico. Nonostante le critiche di alcuni puristi, posso dire che il novantacinque per cento delle recensioni sulla colonna sonora sono state molto, molto positive”.

Esistono due seguiti di Re-Animator, entrambi diretti da Brian Yuzna: Bride of Re-Animator (1990) e Beyond Re-Animator (2003): in quest’ultimo, West – in prigione e pertanto costretto a sperimentare con quel che passa il convento –  rianima un pene (ovviamente staccato dal resto del corpo) che ingaggia una feroce lotta con un topo; Barbara Crampton, bionda naturale della quale restano più impressi il seno burroso e le robuste cosce che l’espressività del volto, nel successivo film di Gordon, il già citato From Beyond, continua la sua esplorazione sessuale delle mostruosità: in esso infatti viene spogliata, maneggiata e baciata da un mostro bavoso e ripugnante; oltre a quella originale, di Re-Animator esistono due versioni addizionali: una classificata “R” (per adulti), e una per la tv: paradossalmente, entrambe sono lievemente più lunghe della prima poiché presentano sottotrame eliminate dall’originale (ad esempio la forte attrazione che Hill prova per Meg, come testimoniano gli extra dell’edizione in 2 dvd box collection della Stormovie).

Nella quarta di copertina dell’edizione Einaudi del teatro del Grand Guignol (1972) c’è un piccolo disegno relativo a uno spettacolo non presentato all’interno: una testa mozzata collegata a un macchinario che tenta di riportarla o di tenerla in vita – una buona ipotesi di trait-d’union fra Lovecraft e Gordon.

Gianfranco Galliano

NOTA

(1) Per quanto possa sembrare strano, non fu affatto facile per Gordon trovare una versione in inglese del racconto Herbert West, rianimatore: dopo estenuanti ricerche in varie biblioteche, fu informato della presenza di una preziosa versione, consultabile esclusivamente in loco ma disponibile alla fotocopiatura. Per dovere di cronaca, occorre ancora aggiungere che Lovecraft non amava il suo testo, tanto da confinarlo idealmente fra gli scritti realizzati per “pagare l’affitto”. La sua pubblicazione avvenne in sei puntate, tra il 1921 e il 1922, sulla rivista amatoriale “Home Brew”, appartenente a un amico, che lo retribuì con cinque dollari a puntata. Nel racconto appare evidente il tributo al Frankenstein di Mary Shelley, come anche a Coleridge, che la stessa scrittrice aveva riconosciuto come propria fonte di ispirazione.

(Per questa nota, le notizie sulla casa di produzione e le dichiarazioni di Richard Band un doveroso ringraziamento a Daniele Aramu).