I FILM DEL MOSTRO DI FIRENZE

Certi film ispirano il Mostro di Firenze?

Chi scrive è convinto di sì.

Secondo me, e secondo uno studio approfondito

e serissimo di un medico fiorentino,

il quale preferisce mantenere l’anonimato,

i delitti del giugno e dell’ottobre 1981,

che sono quelli in cui per la prima volta

l’omicida taglia via ed asporta

il pube della vittima femminile,

forniscono fortissimi indizi

che avvalorano questa ipotesi.

Addirittura esisterebbe la prova

di questa ispirazione preventiva,

secondo quel medico.”

Nino Filastò, Storia delle merende infami, Maschietto, Firenze 2012

L’occhio del mostro è una copia del mondo e di tutti i colori che in esso può vedere, compreso il punto di vista dell’occhio stesso, fulcro al cui interno vi può essere il globo vitreo dell’immaginazione del sangue, condensazione materiale di un illusorio schermo cinematografico. Confine opaco. Vortice. Ossidiana. Eternal return del thrilling. L’occhio mentale può costruire immagini materiali, isolare sedimenti torbidi scaturiti dalle cavità corporali delle vittime, dagli ipotetici cadaveri femminili spalancati come forbici, adagiati nei campi d’erba medica in un posing emotivo premeditato e pre-figurato altrove, per esempio il tralcio di vite infisso nella vagina, linguaggio penetrato nel cinema e lì rimasto, incapace di attecchire nella letteratura alta degli anni ’70, se non – a intermittenza – in quella scatologica de I racconti di Dracula.

Fu una tabula rasa, qualcosa che accadde nella parentesi di piombo di quel periodo, tra stragi, golpe e afa dei lacrimogeni. Il caos macroscopico di un decennio ha nidificato l’uccello corvo della putrefactio, ributtandola indietro ai traumi infantili, non ancora anti-Edipo. Il liquido amniotico delle immagini, inesauribile fonte di tutte le cose, compare nell’oscurità, dove il vuoto contrae i nervi, la linfa, le fibre. Il mostro è occhio veggente, sohar, occhio anima. L’anima è fuoco. L’ambiente rurale, l’abitudine di muoversi per le campagne anche di notte. Vagare per i boschi a spiare le coppiette in auto, frequentare certi luoghi teatro dei delitti. Circolavano voci, è vero, che li sospettavano di necrofilia. Nessuno ha mai dato alcuna importanza ad alcune riviste pornografiche tagliate e disposte a semicerchio, come un simbolo dell’albero sul fondo del quale cade la vittima e si decompone tra le radici, germogliando nel grembo della terra. Il guscio rotto è spazio futuro che sprofonda nel passato, pellicola di argento vivo proveniente dalla cenere del sangue su cui riprodurre i sogni “vivi” di quelle vecchie bobine. Super 8 sfuocati, ancora immersi nel veleno dei download di questo tempo senza tempo. Allora il mostro, o “i mostri” si cibavano di quelle immagini astratte, ne conservavano una forma incompleta, luci e colori accesi nella buia caverna della mente schermo.

La polizia brancola nel buio dell’edificio teoretico medievale, su quelle scene traballanti di sangue e sperma, versate nella scodella del cranio, al buio della sala, come materia mucillaginosa che si gonfia e riduce di volume nel matraccio cerebrale, generando il desiderio di emulare, partorendo un doppio astrale capace di attingere a quel composto passivo, senza un soggetto prestabilito, senza riletture semiotiche. I fotogrammi, al pari delle splendide copertine dei porno fumetti di allora, sono automatiche, rappresentano ulcere per le pupille di vetro, balsami per la conservazione di cadaveri e per la longevità mummificata dei viventi. Manichini di cera [1], fantasmi organici di una materia morta polverizzata nella cenere sul fondo rosso di qualche feticcio escisso. Il fosforo segreto di questi film rende gli spostamenti automatici del pensiero, ne restituisce gli impulsi profondi.

I vizi morbosi di una Governante e le morti collaterali dei guardoni, delle prostitute dall’82 all’84, della coppia sul greto del fiume Serchio. Il bosco. L’ora meridiana. L’ombra dei cespugli. Le membra amputate a cui rimandano i dadi mercuriali dei soldati che giocano sotto la croce delle rose nere. Il mostro vuole colmarsi di bare. Mietere il miele nero delle bimbe, perdersi nei percorsi impenetrabili di quei corpi divaricati – come mano di rose chiodate dal tessuto sdrucito pieno di incubi, fantasma che si riverserà sul pigmento annerito del sogno; mandibola di nuvola, palpebra spalancata, eclissi bianca d’un grido sul furore nero delle viscere luminose di donne polverizzate in vecchie VHS fluttuanti brandelli d’alghe, geroglifici color ruggine, rimasugli spettrali di un mondo analogico bagnato da un benessere allegorico, decantato nella luce nera delle stragi neofasciste.

Di quelle immagini, di quelle storie senza una direzione precisa, rimane ben poco. Eppure allora, questa vegetazione trasparente di idee proibite ha nidificato scintille metamòrfiche, draghi mercuriali nel guscio d’uovo di tanti invertiti. Tutto è legato a tutto, anche Paul Naschy che si trascina sciancato per le strade di Soho e il mondo pare tenuto insieme da nodi invisibili; il quartiere sordido di Whitechapel non ha cielo, le case sono basse, rozze, tutto trasuda rugiada e riflussi di piogge di salnitro. Il fuoco solare non c’è e un altro mago (siamo nel 1972 e dietro la macchina da presa abbiamo lo spirito sidereo di José Luis Madrid) cerca di strappare la radice dell’anima dai corpi femminili, scegliendo prostitute barometriche, sfatte nei loro letti ramificati in corridoi e scale indefinite, aperte a ringhiera. 7 (seven) murder for Scotland Yard, come i sette cadaveri squisiti che ardono nell’inferno londinese: ogni inquadratura si sviluppa e si rispecchia nel sistema olistico degli spettatori, cabalisti pervertiti, figure notturne, frati neri di una gerarchia d’impotenti fatti della stessa materia di cui sono fatti i fumetti neri [2] da stazione, roseti di boro per collezionisti d’organi. Rosarium philosophorum, Jack lo sventratore, anticipazione dell’ombra fiorentina. Il mostro è un ibrido velenoso, dietro ai cui delitti si celerebbe un’emulazione chimica di quelle sfingi di celluloide, a loro volta matrici di altri carnefici. Paul Naschy come parabola chimica, mostro dell’obitorio sgraziato e deforme da proiettare e decantare in quelle salette sordide e fumose, cantine in cui venerare l’esibizionismo uterino di altri marescialli di Francia. Paul Naschy, in senso spasmodico, sarebbe stato perfetto come mostro fiorentino, così come un Gilles de Rais in sedicesimo, sedotto e affascinato dal prestigio del Diavolo. E così seguiamo Naschy mentre s’aggira senza meta tra l’aceto aspro dei neon e i liquidi velenosi delle puttane lacerate sull’uscio di case d’appuntamento nell’oscura segnaletica della notte.

10 anni dopo toccherà a un’altra pellicola sovrapporsi ai delitti del giugno e ottobre 1981. Uno slasher americano, Maniac, imperniato sulle gesta di un pazzo dominato dal caos della notte antica, guardiano di manichini femme-enfant nei bacini sotterranei di una N.Y. pervasa da canali sotterranei di lava distillata, soccorso occulto dalla chiara vocazione taumaturgica. Qualcuno ha parlato di sinfonia organica sovrapposta al ritmo dell’inorganico, tremito di stella del mattino, novilunio geologico coronato di movimenti incantatori. Nella giungla della solitudine underground, l’amore è un blocco di luce, bile nera dal corpo puro dell’agnello immacolato. Maniac non è altro che un processo di soluzione e solidificazione del corpo femminile, ostilità misogina espressa nel digrignare dei denti al bar “La spiaggia” nel lontano 1984. E voi ragazzi, ricordatevi che di buon grado dovrete soffrire qualche morte per divenire la pura piramide rossa: materia distillata per la rinascita filosofica di coppie avviate a grandi passi verso un lavoro ad altissima standardizzazione, lugubre presagio a ben altri delitti, danze macabre senza più membra amputate, flash mob della rassegnazione dei corpi. Ciò significa che le sue fantasie si sono disperse nei resti fluidi delle povere vittime. Il membro virile, l’organo genitale di Joe Spinell è materia ermafrodita, urna vuota sull’impalcatura d’osso nelle sillabe cerimoniali dell’impotenza, resurrezione mediante la quale l’illusione di luce e tenebra ardeva nella loggia massonica delle mummie. Dicevamo: la volta cranica del mostro maniac è solida e raggelata, simile alla forza saturnina dello schermo. Nella ricurva caverna l’analogia delle immagini crea una sintassi immutabile e impersonale, dove l’ultimo mago di vetro rinascerà più selvaggio, incastonato nella pietra di luna di uccelli sacri. Se ne potessimo vedere un pezzetto di volto, scorgere un grumo d’identità, sapremmo del grande rifiuto che l’ha spinto a liberare il grido che per un maleficio è latente in quelle ragazze, pigmento argenteo delle loro mammelle imbustate. Il sole lo ha bruciato e gli abissi lo hanno velato. La Republica ha una “b” sola. L’acqua mercuriale luccica nei raggi di dodici stelle.

LE MESSAGE AUTOMATIQUE ET LE DOCTRINES ÉSOTÉRIQUES

FILMOGRAFIA ESSENZIALE

La polizia brancola nel buio (1972)

I vizi morbosi di una governante (1976)

7 murder for Scotland Yard (1972)

FUMETTOGRAFIA ESSENZIALE

Attualità nera n. 50 (1979), “L’impotente sevizia e uccide”

Attualità gialla n. 19 (1983), “La villa insanguinata”

Crimen n.22 (1981), “Il seviziatore della luce rossa”

Attualità proibita n. 18 (1989), “Il guardone”

Davide Rosso

[1] Il gusto feticistico dei body in wax ci riporta fino all’età arcaica del mondo, così come ci insegna lo storico dell’arte von Schlosser nel magistrale studio sulla ritrattistica in cera. La ceroplastica si legava ai riti funebri, ai ritratti funerari ad uso e consumo degli aristocratici imperiali; prima di loro gli Egizi, ossessionati dal bisogno di imprigionare la personalità del morto nell’esteriorità della mummia; compiendo un salto in avanti dovremmo parlare del plasma keròkuton nel Medioevo fino alle chambre mortuaire dei re rinascimentali. I keroplastes, i fallimagini, ossia i fabbricanti di cera scolpivano nelle loro immagine la durevolezza delle fattezze umane, sottraendole al disgregamento organico della morte; la cerae garantisce la massima fedeltà, somiglianza con le forme del reale. L’esigenza di fondo era/è proprio nella fedeltà del ritratto, una fedeltà che si carica (artisticamente) magicamente di accessori simbolici ed espiatori: il credente che offre un ex voto (manufatto rinascimentale che allarga la ritrattistica alle esigenze anche delle persone comuni, povere) in cambio di una guarigione rinnova l’urgenza antichissima del sacrifico umano. All’alba del ‘700 la cera esaurisce la sua finzione e sopravvive negli occhi affamati dei flaneur in visita ai baracconi delle cere, luoghi del perturbante in cui la democratizzazione dell’arte si realizza pienamente: i manichini non sono più quelli dei re, dei nobili, dei santi ma quelli esotici e bizzarri degli aborti o dei devianti patologici. È in questo serraglio dell’orrido che il ritratto in cera crea un rapporto feticistico con un altro prodotto del perturbante, ossia l’automa, ennesimo spettro, effigies, dell’erotismo sadiano.

[2] Zoofili, zoorasti, esibizionisti, feticisti, perversi nati, onanisti, bambine precoci, collegiali ambigue, educatori equivoci, nuclei famigliari devianti, collezionisti d’orgasmi rinchiusi dentro castelli/penitenziari, guardoni; l’elenco/classificazione delle perversioni è un modo per regolarle, per dar loro un segno linguistico che corrisponda all’effrazione elencata – e che la folla di pervertiti finisca in manicomio, in un tribunale poco importa, ciò che conta è l’evidenza del segno usato.

Il sesso (degenerescente o monogamo familiare) deflagra tra le vignette, si vende in ogni edicola, raggiunge (potenzialmente) chiunque ed è culturalmente/moralmente accettato (insieme a un’altra quantità di riviste per adulti e porno foto). Chi le compra, consuma un gadget di devianza per pochi spiccioli, rassicurato dall’istituzionalizzazione del commercio.

Il sesso dei porno fumetti horror sadici dei ‘70/’80 raggiunge la saturazione, il mormorio basso e costante; è classificato, definito, codificato dalle varie collane; i redattori dei porno fumetti non sono degli artisti, bensì degli scienziati sessuali della società borghese, capitalistica e industriale. Il bisogno è sempre lo stesso: formalizzare la pratica sessuale. Il p.f. è una valvola di sfogo che limita l’energia del coito in una sfera privata, in un consumo coatto, fine a se stesso. Inoltre, proprio in virtù di tutti gli stupri che narra, il p.f. preserva il valore del matrimonio, vivacizzandolo attorno a deliri controllati.

Tuttavia il p.f. non coincide con la realtà del periodo, se non come riduzione al silenzio inoffensivo di una sessualità adulta incanalata nei circuiti commerciali del porno eros; i p.f. dunque sono, lo ripeto, devianza controllata, tollerata, consentita.

E che forme si dà tale devianza?

Il corpo sessuale delle donne e degli uomini di quegli albi non è un corpo morigerato, bensì affetto da concupiscenza a scadenza quattordicinale, settimanale, mensile.

L’ortopedia del sesso disegnato assomiglia a una tassonomia delle posizioni, a una grammatica delle eiaculazioni, dei getti moltiplicati e prolungati che solcano e saturano gli sfondi delle vignette.

Dunque: moderazione o intemperanza?

Gli antichi ragionavano su una sessualità (desiderio naturale) da disciplinare, delimitare, misurare. Insomma: dimmi come godi e ti dirò chi sei! L’universo del p.f. (e di conseguenza quello che l’ha prodotto e distribuito) presenta una costante strategia del bisogno e, come Diogene, soddisfa ogni impulso sulla pubblica piazza. Il bisogno di trattenersi, controllare i piaceri, di avere padronanza della propria natura non vale per le Zora, Sukia, Jacula, De Sade, Wallestein, Ulula & Company, tutti schiavi degli aphrodisia più estremi. Appunto Senofonte, nei Memorabili, giunge alla conclusione che tra un uomo intemperante e una bestia non vi sia differenza alcuna. La libertà individuale, il libero arbitrio (e quindi il raggiungimento della felicità) nei p.f. è fuori discussione. L’atteggiamento dei personaggi è tirannico, incapace di dominare le proprie passioni, quindi incline ad abusarne, disonorando figli, ragazze, ragazzi, vecchie.

Vi è una certa inquietudine verso l’atto sessuale del p.f., visto sempre come morbo comiziale, come ci riferisce Aulo Gellio; il seme stesso, sperma maschile o femminile, schiuma del sangue, ha origine da frammenti di materia cerebrale (Diogene Laerzio) o dal midollo (Platone nel Timeo). Aristotele dice la sua nella Generazione degli animali, propendendo per un residuo del processo digestivo. Comunque sia, lo sperma è forma e sostanza di chi l’ha prodotto, risultanza finale del processo organico, simbolicamente legato al bisogno di sfuggire alla morte; l’immane attività sessuale del p.f. è sterile (i parti o le cure materne, così come le coppie matrimoniali, sono quasi assenti se non per irriderle); l’individuo del p.f. è destinato a morire orribilmente (spessissimo) appena dopo aver consumato l’eiaculazione; l’indebolimento dell’energia fisica accordata all’atto rivela un’inquietudine della carne, sintomo dell’inquietudine stessa della dottrina cattolica o di tutte le dottrine.

L’economia del sesso (non morigerato) è dunque economia della morte (Bataille/Baudrillard)?

Torniamo alla questione della lingua. Dopotutto vale la pena chiedersi se questi p.f. (sicuramente reazionari negli anni in cui sono stati prodotti – squisitamente anarchici e devianti, letti e collezionati oggi) rappresentino davvero una involuzione. E se questa regressione nello sperma dei freaks non fosse il fondo del linguaggio, bensì il suo apice, sintesi di vari (altri) linguaggi sublimati; il testo del p.f. opera una torsione della lingua, la scarnifica riducendo la struttura morfologica a brevi didascalie (spazio/tempo), battute e soprattutto onomatopee, ossia radici verbali italianizzate, predicati che da soli reggono i piccoli testi e li fanno assomigliare al fiato, al respiro originario di una lingua madre.