IL MOSTRO DI FIRENZE, PERCORSI BIBLIOGRAFICI

Eventi come questi diventano quasi metafisici

(Mario Luzi, poeta) 

Esistono idee ossessive, non sono mai personali, i libri si parlano tra loro,

e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi.

(U. Eco, Il nome della rosa)

Identikit di un mostro, Anthropos edizioni 1985, scritto dal giornalista della Nazione Riccardo Catola, uno dei primi a occuparsi della turpe faccenda (prima di lui il libro di Spezi del 1983 che arrivava all’omicidio dei turisti tedeschi). Libro del 1985, uscito nell’ottobre, appena un mese dopo l’ultimo duplice omicidio di Nadine Mauriot e Jean Michel Kravechvili, avvenuto l’8 settembre. Catola, nella prima parte dell’istant-book, si dilunga sui dettagli dell’ultimo crimine. Riporta alcuni dettagli esterni alla vicenda, commenti di personaggi solitamente non accostati a questi delitti. Il poeta Mario Luzi parla del mostro come di “un’ombra contro la logica, un’ombra che scardina la comune casualità criminosa (…) eventi come questi diventano quasi metafisici.” Nel lavoro di Catola appaiono i vari personaggi della vicenda, quelli che ritroveremo anche negli altri documenti: il sostituto Silvia Della Monica, i procuratori Francesco Fleury e Paolo Canessa, il criminologo Francesco De Fazio, il prof. Mauro Maurri, l’anatomopatologo che compirà quasi tutte le autopsie delle vittime del maniaco e per questo una voce importantissima. Catola riferisce della recente taglia offerta dal Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro dopo essersi consultato col Primo Ministro Bettino Craxi. 500 milioni di lire. Il lavoro giornalistico prosegue con una sintesi delle 150 pagine della perizia condotta dal prof. De Fazio che punta sul singolo colpevole (delitti sempre premeditati, calcolati nei minimi particolari, tutti di natura sessuale con componenti sadiche e feticistiche). L’identikit parla di un uomo di 35 – 40 anni. De Fazio elenca le caratteristiche dei luoghi in cui avvengono le aggressioni e le modalità (la freddezza dell’esecuzione) delle stesse. Il cap. 5 “Dimmi come uccidi, ti dirò chi sei” ci porta in America, al BSU (Behavioral Science Unit) di Quantico, Virginia, praticamente la base dove vengono addestrati gli agenti, quella di Jodie Foster insomma. Catola ci spiega come lavora una equipe dell’FBI incaricata di stilare profili psicologici dei killer seriali. L’ultima parte del libro affronta una ricostruzione sintetica e precisa dei delitti precedenti a quello del 1985. Il penultimo cap. “La svolta concettuale” è uno dei più intriganti, in quanto riporta notizie riguardanti la nascita del freschissimo pool della SAM, di cui l’autore riporta una fulminante descrizione sugli ambienti in cui lavorano i detective anti mostro: “E’ uno stanzone al terzo piano della questura (prima lo si utilizzava per gli interrogatori) arredato con sei-sette vecchi tavoli scoloriti raccolti qua e là negli uffici. Ci sono un paio di macchine da scrivere e quattro telefoni, uno schedario e una montagna di carte e giornali. Il colpo d’occhio non è favorevole, la prima impressione rischia di trarre in inganno”. L’ultimo cap. “La lettera e il proiettile” ci riporta al presente, a Silvia della Monica, al lembo di seno di Nadine e all’errore ortografico contenuto nella parola “Repubblica”, scritta dal mostro sull’indirizzo della busta con una sola “b”. Nelle ultimissime pagine appare l’avvocato Nino Filastò, destinato a diventare uno dei personaggi della vicenda, qui però ancora in veste di semplice uomo di legge fiorentino incuriosito dalla matassa inestricabile. Filastò segnala un episodio su cui tornerà molto nei suoi lavori, ossia la morte di due fidanzatini in un bosco vicino a Lucca. La scena del delitto è simile a quella del mostro: macchina, coppietta appartata, pistola calibro 22, la beretta, anche se non quella solita del mostro (i bossoli non hanno la “H” impressa sul fondello). L’episodio avviene nel 1984. Che il mostro si sia spinto fino a Lucca? Non è l’unico episodio strano. Tra il 1982 e il 1984 a Firenze vengono ammazzate a coltellate varie donne, alcune accoltellate al sesso e al cuore.

Un uomo abbastanza normale, Mondadori 1994. La penna è quella di Ruggero Perugini il capo della SAM, la squadra antimostro (è lui l’uomo coi Rayban che si appella al mostro in tv e lo spinge a contattarlo). Bellissima copertina e libro interessante. L’ingrandimento del dott. Perugini si concentra sul suo ingresso nella squadra e lo stato delle indagini verso la fine degli anni ’80. Anche Perugini, sulla base della sua esperienza a Quantico, traccia un ritratto dell’assassino, identificando subito due particolari: l’attuazione dei delitti nelle notti di novilunio e la concentrazione degli stessi nei giorni del fine settimana, qualunque sia il significato di tale scelta. Anche lui conclude che le scene degli omicidi del mostro sono fredde nell’esecuzione, in contrasto con la calda ossessione per le coppiette e l’esigenza delle mutilazioni. Come poi farà Giuttari, anche Perugini ci elenca gli indizi e i suoi spunti di indagine, portandoci quasi in un backstage dell’inchiesta poliziesca (e c’è da dire che l’autore scrive in maniera maggiormente fluida e piacevole rispetto a Giuttari). Ricorrendo alla casistica passata, Perugini si chiede quale influenza possa avere la luna in questa vicenda, in questi massacri. Rimembra le gesta di antichi serial murder della provincia americana, tutta gente assicurata alla giustizia, mentre il Caino italiano è ancora a piede libero. A pag. 105 l’investigatore affronta la questione che riguarda la nascita del mostro, ossia il 1981, anno in cui i delitti vengono collegati tra loro. Il detective ricorda che, all’epoca dei fatti, non ancora allocato sull’indagine, la morte di Carmela De Nuccio, avvenuta la sera del 6 giugno 1981, gli evocava un senso fortemente artefatto, teatrale. Prima di mutilarla, l’assassino le aveva messo la collanina tra le labbra. Perché? “Mesi dopo, per caso, durante un servizio di ordine pubblico nel piazzale degli Uffizi, notai sulla bancarella di un venditore di souvenir l’ingrandimento di un particolare della Primavera di Botticelli. La ninfa che viene presa da Zefiro alle spalle: un volto di donna dalle cui labbra socchiuse fuoriescono fiori. Un’espressione di sorpresa negli occhi trasognanti, volti verso il cielo. La somiglianza mi colpì e comprai la cartolina che riproduceva quel particolare”. Che l’assassino si fosse ricordato di quel particolare la sera del 6 giugno? Durante una perquisizione, nel 1990, Perugini troverà la stessa riproduzione ingrandita di quel particolare a casa del rozzo Pacciani. Coincidenza? La seconda parte del libro racconta gli sviluppi dell’indagine e l’ingresso tra gli indagati di Pietro Pacciani, uno col physique du role per essere il mostro. Perugini, protagonista dei fatti, ci racconta nei dettagli la famosa perquisizione che portò al ritrovamento, nell’orto del contadino, della cartuccia (“vado a dare un’ultima occhiata agli scavi (…) perché ho colto, nella tarda luce del pomeriggio, un brillio quasi impercettibile nella terra”), un bossolo della calibro 22. Perugini si accomiata dall’indagine con la sicurezza di averci visto giusto. Il mostro è Pacciani, resta solo il processo ed è fatta. Lui può volarsene, come premio in America.

Pacciani innocente, Ponte delle Grazie 1994, di Nino Filastò, fine giurista e scrittore incuriosito dalla vicenda e, a seguito di questo libro, chiamato a difendere Mario Vanni, uno dei compagni di merende del Pacciani. Il libello (preziosissimo e introvabile, lo ripeto, come buona parte dei volumi sul mostro) nasce con intenti puramente intellettuali, tanto che l’avvocato ci spiega il senso etico che muove (muoverebbe) un difensore in un dibattimento penale. Fin dall’introduzione l’autore inquadra il suo pensiero eretico: il vero autore degli omicidi è ancora da scoprire. Filastò disapprova la cristallizzazione delle congetture che hanno portato alla sbarra una sola persona (nel ’94 ancora non erano saltati fuori i compagni di merende). L’avvocato scrittore critica la pratica penale influenzata dalle sue origini ecclesiastiche/inquisitoriali e dalla fiction televisiva, dall’accumulo dell’interesse mediatico per l’orco da fotoromanzo. Nella riscrittura degli eventi, Filastò traccia un arco temporale corsaro che dal 1998 supera i confini riconosciuti del 1985 e arriva all’agosto del 1993 con la morte di Francesco Vinci, il sardo coinvolto e sospettato nel corso degli anni ’80. Filastò si interroga (e lo stesso farà Spezi) su come sia nato l’accostamento tra il delitto del 1968 e quello del 1981 che sancisce la nascita definitiva del mostro (prima del 1981 infatti i delitti erano rimasti separati e insoluti). La versione ufficiale degli inquirenti ci dice che un funzionario capace notò le similitudini tra i due delitti e li collegò, andando poi a confrontare i bossoli ritrovati sulle scene del crimine per poi scoprire che erano stati sparati dalla medesima pistola (la famigerata “H” sul fondello), una beretta calibro 22. Su questo punto, Ruggero Perugini, nel suo Un uomo abbastanza normale, è evasivo. Filastò, probabilmente imbeccato da Spezi, sa che le cose non andarono così. L’informatore fu un anonimo e non un poliziotto. E chi fu quell’anonimo? Andiamo avanti. Filastò apre le danze macabre con un’immagine letteraria potentissima che paragona (per suggestioni e non per conclusioni) la perquisizione avvenuta nel Winsconsin a casa di Ed Gein e quella del 1992 a casa di Pacciani ad opera di Perugini e della sua SAM. Pacciani è additato come mostro dalla voce popolare. Ne ha il fisico. Un passato di violenze domestiche, omicidio, carcere, abusi sulle figlie. E’ perfetto. Lombroso, dall’aldilà, si frega le mani compiaciuto. Il teatro delle gesta del mostro sono isole boscose, brevi deserti verdi circondati dai suoni sincopati delle prime discoteche, dal rombo continuo della modernità. Occhio ragazzi! Ammonisce un famoso cartello (esperito persino dal vostro umile articolista durante la sua infanzia contadina in quel della Toscana). Filastò riprende frammenti della narrazione parcellizzata anche negli altri testi. La busta col lembo di seno di Nadine, il francobollo non è incollato con la saliva, ma con la colla. Previdenza o provvidenza? La descrizione del vampa è accurata, puro vernacoliere. Pacciani è il fosco uomo nero della cultura contadina, un orco sopravvissuto alla conversione industriale delle campagne. Le scene gustosissime, letterarie, di Pacciani nell’aula giudiziaria davanti ai suoi giudici somigliano a quei bozzetti delle cronache giudiziarie dell’Ottocento. Pacciani ha le sopracciglia a V. Gli occhi grigiastri, fissi, guardinghi da gatto sospettoso, malizioso certe volte. Pacciani usa le parole come serpenti/coltelli. Pacciani è corto e tozzo. Pacciani ha il carnicino dei bambini. Pacciani ha il cervello fino. Pacciani è uscito da un libro di Federigo Tozzi. Pacciani non è il mostro. Per Pacciani il mostro è “una persona istruita che conosce tutte le strade correndo in tanti posti della provincia, ora qua e ora là dove sono accaduti questi fatti, con una bella macchina a disposizione, sicuro di arrivare ovunque senza fermarsi per i guasti per strada, con tanto tempo a disposizione. E’ persona che campa senza lavorare, che se lavorasse e avesse un impegno attivo di lavoro, non avrebbe il tempo di girare…”. Pacciani si fa investigatore. Indaga e prova ad arrivare a delle conclusioni che lo possano scagionare. Pacciani è uomo antico, antichissimo. Per lui la donna sarchia il campo e apre le gambe. Pacciani uomo dei boschi. Pacciani contadino nel profondo delle ossa. Pacciani è innocente. Filastò procede col cipiglio di un fotografo penale. Giugno ’94, l’attesa della sentenza, i giudici chiusi nella sancta sanctorum. Attorno la civiltà della polis che aspetta di avere un mostro alla gogna. Attorno alla polis le facce cotte dal sole dei villici. I turisti coi loro idiomi. E il bosco. L’ora meridiana. L’erba. I cespugli. Il caldo. Pacciani, dio Pan, attende le carte del suo destino. Poi l’autore avvocato si lancia nel ricostruire l’ambiente (professionista) dei guardoni, degli indiani coi loro vestiari (tute mimetiche), strumenti ottici (binocoli, macchine fotografiche a infrarossi), registratori acustici. Alla fine la colpa ricade sul Pacciani. Sul vampa. In lui rivive la scena primaria di tanti psycho thriller alla Thomas Harris (anche lui presente al processo in veste di spettatore). Il delitto commesso nel ’51, un delitto neorealista, un delitto d’impeto e gelosia verso la pastorella-fidanzata Miranda Bugli. Miranda tradisce il vampa sulla strada di casa con un cenciaiolo dalle mani lunghe. Lei cede, il vampa li spia da dietro un busso mentre scopano, dopodiché aggredisce il cenciaiolo e lo sventra col coltello, infine stupra Miranda accanto al cadavere del cornificatore. La perversione sessuale è la forma erotica dell’odio. L’agricoltore mugellano è ipersessuale. Il mostro iposessuale. Si avvicina “al corpo della vittima femminile come se temesse perfino di toccarla a mani nude: non la spoglia ma le taglia via gli abiti di dosso operando a punta di coltello.” No. L’omicida è solo e non ha complici. La sua perversione non è condivisibile con altri. Il cap. 5 lascia le redini del processo penale e torna indietro. “Il silenzio dei guardoni” ci riporta a un segreto custodito per decenni. Un segreto importantissimo. 7 giugno 1981. Un altro delitto del mostro. Le vittime sono Carmela e Giovanni. La notte è buia. Senza luna. Un campo nei pressi di un torrente. Una Fiat Ritmo color rame. Parole. Marche. Sapori di un tempo che non c’è più. Su una collinetta sopraelevata lì vicino, vicinissimo c’è Spalletti Enzo, professione autista di ambulanza, seconda professione guardone impenitente. Spalletti Enzo. Figura importantissima per la nostra storia. Quella sera Spalletti rientra a casa con una faccia. Sembra abbia visto il lupo mannaro. La domenica mattina Spalletti va al solito bar e ha ancora quella faccia. Lui incontra degli amici e si sbottona. Dice di aver visto due ragazzi ammazzati. Nessuno, a quell’ora, sa ancora nulla. Nessun giornale. I corpi non ancora ritrovati. Eppure Spalletti parla. Se ne stava sulla collinetta coi suoi gingilli ottici per spiare. La cosa si viene a sapere e Spalletti finisce dentro, lui però non parla, una roccia sarebbe più loquace. Mentre Spalletti è dentro, accusato di essere lui il mostro, a casa gli arrivano strane telefonate, strani messaggi telefonici da parte di uno sconosciuto che sembra voler rassicurare la moglie. Spalletti non rimarrà in carcere ancora a lungo confida la voce al telefono. Un amico di Spalletti, anche lui guardone, confida un incontro che il volontario della Croce Rossa aveva avuto 4 anni prima del delitto 1981. Un uomo con pistola aveva avvicinato Enzo durante una perlustrazione nel bosco e l’aveva intimato a salire sulla sua auto. Era seguito un lungo colloquio con lo sconosciuto che aveva voluto sapere le abitudini e gli spostamenti dei guardoni in quella zona. Chi era quello sconosciuto? Dai modi di fare sembrava un poliziotto. Salta fuori un altro particolare curioso. Il 2 ottobre 1984 un anziano voyeur era stato ammazzato da 15 coltellate vicino alle Cave di Maiano. Aveva visto qualcosa che non doveva? Perché Spalletti tace? Lui era lì, presente sulla collinetta mentre i due fidanzatini venivano uccisi. Cosa può aver visto? Perché sembra aver tanta paura? Intanto, il 1 novembre 1994 arriva la sentenza di primo grado. Pacciani è il mostro. Tutti tirano un sospiro di sollievo. Lui esibisce un santino di Gesù e dice che è suo fratello. Suor Elisabetta, accanto, annuisce comprensiva. In tv, Vittorio Sgarbi dedica uno dei suoi SgarbiQuotidiani al quadro ritrovato in casa dell’accusato, indicativo, per l’accusa, della sua perversione sadica. Peccato che il quadro non sia del contadino ma di un pittore cileno. Sgarbi dice che un serial killer non dipinge generali transessuali ma delle Madonne. Per lui Pacciani è innocente. Filastò procede spedito. Altri particolari affiorano alla memoria. 1974, Stefania Pettini, il giorno prima di essere uccisa, confida a un’amica “ di aver fatto un incontro sgradevole che l’ha sconvolta. E’ imbarazzata a parlarne: nella stanza però entra la madre e Stefania interrompe il discorso. Non potrà più parlarne con nessuno perché morirà il giorno dopo. Ottobre 1981: Susanna Cambi guida l’auto in compagnia della madre lungo i viali di Firenze, a un tratto accelera tanto pericolosamente da allarmare la madre (…) Susanna guarda nello specchietto retrovisore: “Rieccolo quel rompiscatole”, dice. Il giorno stesso della scoperta dei cadaveri di Susanna e Stefano qualcuno telefona a casa di Susanna e chiede di parlare con la madre. Uno straordinario tilt su quella linea interrompe la conversazione con la zia (…) In tre casi su otto si intravede uno o più incontri che precedono i delitti”. Filastò riporta l’episodio di Lucca avvenuto nel gennaio del 1984: “Paolo Raggio e Graziella Benedetti, due fidanzatini, vennero uccisi sul greto del fiume Serchio a colpi di pistola calibro 22. Ma non ci furono le macabre mutilazioni e i bossoli e i proiettili repertati non rivelarono le tracce della famosa Beretta. Il duplice omicidio (…) è rimasto a tutt’oggi insoluto: neppure l’ombra di un sospettato.” Post scriptum. Filastò demolisce pure uno dei massimi indizi a carico del Pacciani. Il blocco da disegno simile a quello sottratto a uno dei due ragazzi tedeschi. Poi il libro (bellissimo) finisce con una postfazione di Paolo Tranchino e a noi rimane un amaro nella bocca, la sensazione che un’ombra mummificata ci stia guardando dalla spirale del tempo. E’ il nostro terrore, la nostra impotenza, la nostra impossibilità di capire…

Analisi di un mostro, Arbor Edizioni 1996, libro di Francesco Bruno e Andrea Tornielli. Bruno è un importante criminologo, chiamato dal Sisde, nel 1985, a stilare una perizia sui fatti inerenti il mostro. La perizia verrà inoltrata all’ufficio competente e smarrita. La ritroverà anni dopo Giuttari che vorrà risentire Bruno. Le conclusioni di quella perizia vengono riproposte in questa pubblicazione distribuita nelle edicole e subito esaurita (come buona parte dei libri che riguardano la vicenda). Anche qui c’è un elenco sintetico e preciso dei delitti dal 1968 al 1985. Ogni ricostruzione è accompagnata da alcuni schizzi disegnati dagli autori. Dopo la cronologia degli avvenimenti pure Tornelli e Bruno riportano alcuni episodi misteriosi avvenuti ai bordi della vicenda principale, in particolare uno. Due mesi dopo l’omicidio del 1982, l’assassinio Mainardi-Migliorini “un fatto strano, forse legato all’omicidio dell’anno precedente. Una conoscente di Susanna Cambi, vittima del mostro nell’ottobre del 1981 a Tra Valle di Cadenzano, muore in circostanze misteriose in Sicilia. Si chiama Elisabetta Ciabani, 22 anni, fiorentina, studentessa al secondo anno di Architettura. Viene uccisa la domenica del 22 agosto 1982, tra le 8.30 e le 9.30. Il cadavere viene scoperto in un residence, La Baia Saracena di Sampietri, Ragusa, dove la ragazza stava trascorrendo una vacanza. Elisabetta è stata ritrovata nuda (il costume era arrotolato accanto al suo corpo) in una pozza di sangue nella lavanderia del residence. Il medico legale accerterà che la morte è stata causata da due coltellate, una al cuore e l’altra al pube. Il coltello, con una lama lunga 16 centimetri, è stato affondato interamente nel corpo della ragazza. Sul petto di Elisabetta era penetrato anche parte del manico (…) La ragazza fu rinvenuta supina col coltello conficcato nel petto (…) La ferita al pube era come fosse stata provocata da un bisturi. Il coltello da cucina che fu ritrovato non avrebbe potuto fare un taglio di quel tipo, quasi chirurgico”. Il cognato della ragazza, pensando al fatto che conosceva una delle vittime del mostro, si chiede se magari Elisabetta si fosse portata da Firenze qualche segreto, qualcosa di oscuro che riguardava la sua amica Susanna. Bruno riserva in altri punti del suo lavoro una certa attenzione a queste morti “strane” che contornano la vicenda. A pag. 61 e seguenti ci elenca altri decessi oscuri. L’8 agosto la morte di Elisabetta in Sicilia. Nel 1993, nei boschi di Chianti, Pisa, viene rinvenuto il corpo incaprettato e carbonizzato di Francesco Vinci, uno dei sardi entrati nell’inchiesta e a suo tempo sospettato di essere il maniaco. Che Vinci sapesse chi era il vero mostro? Pochissimi giorni e, tra il 19 e il 20 agosto del 1993, vengono uccisi Milva Malatesta e il figlioletto di due anni Mirko. Anche loro carbonizzati come Vinci. Milva conosceva Vinci, ne era stata l’amante ed era pure la figlia di Antonietta Sperduto, amante di Pietro Pacciani e Mario Vanni. Che cosa sapeva Milva sull’identità del vero mostro? 28 maggio 1994, Anna Mattei, prostituta, viene uccisa a San Mauro a Signa. Il corpo viene avvolto in una coperta e bruciato. La donna abitava nello stesso palazzo del figlio di Francesco Vinci, a cui si accompagnava spesso. Sostanzialmente, tra il ’93 e il ’94 muoiono tutte le persone legate in qualche modo a uno dei supersospettati. A questa catena di misteri si aggiungono le profanazioni alla tombe. Qualcuno aveva manomesso la tomba della Pettini, la vittima del 1974. Nel 1994 una mano ignota aveva profanato due delle tre croci messe da Renzo Rontini per contrassegnare il luogo in cui aveva perso la vita sua figlia Pia e il fidanzato Claudio. Il resto del libro si concentra sulla figura di Pacciani e dei suoi compari. Bruno cerca di sovrapporre la figura del contadino a quella del maniaco disegnato dal profilo psicologico. Bruno non è un giornalista come Catola e non è estraneo alla vicenda. Lui è assolutamente convinto dell’innocenza di Pacciani e della banda. L’ultima parte del lavoro “I messaggi cifrati del serial killer” si occupa dei segni linguistici (5) lasciati dal mostro. Il primo è quel messaggio, quella lettera imbucata la notte dell’ultimo delitto, tra l’8 e il 9 settembre del 1985 in una cassetta postale di San Pietro a Sieve. Sulla busta ci sono delle lettere grandi ritagliate da un settimanale (forse Gente). C’è scritto: “Dott. Silvia Della Monica, Procura della Repubblica Firenze”. Dentro la busta un foglio bianco piegato in quattro e incollato che contiene una bustina di plastica con un lembo della mammella di Nadine Mauriot, uccisa poche ore prima. Il secondo messaggio è il bossolo calibro 22 rinvenuto (il 10 settembre del 1985) all’Ospedale Santa Maria Annunziata a Niccheri. Il proiettile è a terra, nel parcheggio per handicappati di fronte alla cappella mortuaria. Il terzo messaggio (1 ottobre 1985) viene recapitato alla Procura, tre lettere per ciascun sostituto procuratore. Tre buste analoghe a quella inviata alla Della Monica. Qui però l’indirizzo è scritto a macchina. I destinatari sono Francesco Fleury, Paolo Vanessa e Pier Luigi Vigna. Dentro ci sono dei ritagli di giornale che riguardano il mostro, un dito di guanto da chirurgo e un proiettile calibro 22. Il quarto messaggio arriva il 3 ottobre sul luogo dell’ultimo delitto agli Scopeti: si tratta di un paio di guanti da chirurgo marca Travenol Triplex e un fazzoletto Scottex con macchie di sangue e ciocca di capelli castani. Il sangue non appartiene alle vittime. Il quinto messaggio arriva l’11 ottobre 1985 e consiste nel solito proiettile lasciato a pochi metri dalla cassetta postale di San Piero a Sieve dove era stata imbucata la busta col lembo di seno di Nadine. Di questi 5 solo il primo può essere attribuito al mostro con certezza. Un rebus semantico insomma. L’originalità del lavoro del criminologo è qui. Bruno si lancia in complicate deduzioni dei 5 messaggi (presunti) e arriva a una conclusione (siamo nel 1996) già espressa nel dossier segreto compilato per il Sisde, ovvero per i servizi segreti. Per Bruno i messaggi sono una classica sfida agli inquirenti. “In altri termini l’assassino delle coppiette, l’autore degli 8 duplici delitti che hanno sconvolto Firenze e la sua provincia, potrebbe voler dire: “Cercare in un luogo clinico per non autosufficienti e per anziani intitolato ad una Monica (monaca) o ad una santa suora, a Bagno a Ripoli o a Pontassieve. Intendo fermarmi e vi invio gli elementi per identificarmi”. Per Bruno è qui la chiave del giallo!

Compagni di sangue, edito da Le Lettere nel 1998 e scritto a quattro mani da Michele Giuttari e Carlo Lucarelli (autore, successivamente, di una puntata del suo Blu notte dedicata al Mostro di Firenze). Il volume si apre con la cronologia dei delitti, dal 1974 (il delitto del ’68, come vedremo, viene momentaneamente accantonato). A pag. 30 leggiamo della presa di servizio alla Questura di Firenze di Giuttari, nuovo capo della squadra mobile. E’ il 15 ottobre 1995. Pacciani è stato appena condannato e le motivazioni della sentenza indicano probabili complici. Giuttari è incaricato di vederci chiaro e approfondire le indagini in vista del processo d’appello. Per prima cosa il super poliziotto rilegge montagne di carte: verbali, interrogatori, lettere anonime, tutto il lavoro della SAM di Perugini (ormai volato in America). Un lavoro immane. Giuttari si appropria dell’inchiesta. Chi sono i compagni di merenda di Pietro Pacciani? E chi sono le donne che si accompagnano a loro? Quasi tutte prostitute. Donne con alle spalle vite spezzate, disperate. Il mondo dei compagni è un feuilleton loschissimo fatto di perversioni e violenza bestiale. Un mondo regredito ai livelli animali. Lombroso li avrebbe messi tutti nel suo museo sotto formalina. I due autori dipingono una Firenze circondata da campagne bellissime infestate da sacche di superstizione degne di un medioevo da edicola. Maghi, fattucchiere, pittori pornografi, ville, edicole dedicate a strane Madonne, sette e rose nere. L’universo di Pacciani, Vanni e Lotti è un posto di perdenti, di emarginati, tuttavia dietro di loro paiono profilarsi altri burattinai, meno rozzi, meno sprovveduti. Esistono veramente? Frattanto Pacciani viene assolto. Il procuratore generale ricorre in appello e Pacciani riacquista la veste di imputato – orco. Tutto da rifare, quindi. Nella seconda parte del libro gli autori saggiano l’attendibilità di Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merenda che, dopo lunghi ripensamenti, decide di collaborare con gli inquirenti e confessare tutto. Confessare cosa? Vanni e Pacciani erano gli esecutori materiali dei delitti. Pacciani era il capo del gruppo. Duro, litigioso, violento. Intanto si avvicina la data del 5 ottobre 1998 e l’inizio del nuovo processo. Giuttari deve far presto e raccogliere le prove che mancano. Solo a pag. 168 si sente il bisogno di ripercorrere la pista sarda e i fatti concernenti il delitto del 1968. Per il capo della squadra mobile il delitto non è accomunabile agli altri se non per il passaggio di mano della pistola dal gruppo dei sardi a Pacciani. Questo spiegherebbe anche le strane morti di Vinci e compagni tra il ’93 e il ’94. Probabilmente sapevano a chi avevano dato l’arma e per questo erano troppo pericolosi. Nell’epilogo Giuttari torna a chiedersi se dietro la banda dei compagni di merende ci sia dell’altro. Emerge che tra il ’79 e l’84 Pacciani era diventato ricco. 150 milioni sul libretto postale più due case ristrutturate. L’acquisto della quasi totalità dei buoni era avvenuto tra il 1981 e il 1987 e, cioè, nell’arco di tempo in cui erano stati commessi i delitti con le macabre esportazioni. Qualcuno pagava i compagni di sangue per quei feticci? Li usavano per dei riti? Chi erano i mandanti? Troppi dilemmi. Intanto il 22 febbraio 1998 Pacciani viene ritrovato morto nella sua casa di Mercatale. Il 24 marzo 1998 la corte d’assise dichiara colpevoli Mario Vanni e Giancarlo Lotti, la gola profonda. Giuttari è un investigatore vero, non da romanzo. La sua prosa risente di una certa forma mentis, di una impostazione inquadrata. Troppo logico, razionale, con un inguaribile bisogno di ordine, di pulizia morale. Chesterton descriverebbe l’autore come “una sentinella insonne di guardia agli avamposti della società (…) tende a ricordarci che viviamo in un accampamento armato in guerra contro un mondo caotico, e che i criminali, figli del caos, non sono che traditori all’interno del recinto”. La vera devianza è l’ordine, ribellione al cosmico nonsense delle cose. Giuttari è la sentinella, il mostro un’ancestrale proiezione della brutalità degli scimmioni e dei lupi.

Gli affari riservati del mostro di Firenze di Pietro Licciardi e Gabriella Pasquali Carlizzi, 2002. Non possiamo parlare del mostro senza parlare di lei, la straordinaria Carlizzi, purtroppo recentemente deceduta. La Carlizzi è un personaggio che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo: è stata la croce e delizia di mezze procure d’Italia e si è occupata di tutto, da Mani Pulite al caso Moro. Il Mostro però è il suo asso. E questo libro, indefinibile, ne è la testimonianza più cristallina. La forma è simile a quello di Spezi, ossia una lunga conversazione condotta da Licciardi (a sua volta autore di un interessante volume dedicato all’appendice perugina sul mostro, ossia il caso del dott. Narducci) alla Carlizzi, da sempre convinta che dietro al mostro ci sia una realtà esoterica molto più grande. Una schola esoterica chiamata “Ordine della Rosa Rossa”. L’autrice stima molto Giuttari, il quale, a detta della scrittrice, pare si sia appropriato di certe intuizioni. Intuizioni e brandelli di verità contenute anche nella relazione del dott. Francesco Bruno. Verità pericolosissime. Infatti ignoti forzano la macchina del marito della Carlizzi, le stanno col fiato sul collo. L’autrice rivanga vecchie vicende spinose. Pacciani era convinto che il mostro fosse uno del Sisde, dei servizi segreti. Follia? La Carlizzi scuote la testa e rilancia. E se ci fosse un collegamento tra il Mostro e via Poma? Simonetta Cesaroni e Stefania Pettini, la vittima del 1974. In quel delitto, avvenuto a Borgo San Lorenzo, “il mostro si è accanito sul cadavere di Stefania vibrando 97 colpi di coltello e cacciavite, molti dei quali nelle zone sessuali. Bene, anche nel caso di via Poma l’arma usata è stata una lama lunga e sottile. Si rileva poi che anche Stefania, che aveva 18 anni, era una segretaria, né più né meno di Simonetta. Ci sarebbe infine la vaga traccia di una ricorrenza macabra: 8 settembre 1985, scoperta dell’ultimo delitto fiorentino; notte fra 7 e 8 agosto 1990, ritrovamento del cadavere di Simonetta”. Ipotesi affascinanti. Sembra di stare in un romanzo a metà tra la cronaca e la fiction di Danilo Arona. Andiamo avanti nella perizia. Nella vicenda del Mostro sarebbero coinvolti servizi segreti e massoneria. Segue corrispondenza unidirezionale della Carlizzi verso Giuttari con lettere geniali. Una indirizzata nel 2001 con l’autrice che si sente depositaria di verità innominabili. “Questi criminali si avvalgono di armi per le quali riescono a procurare la morte, spesso senza nemmeno spostarsi dai loro templi. Ed io, glielo confido, è qualche giorno che sto davvero male, ci sono momenti in cui mi sento morire come se tutto il mio corpo fosse paralizzato da forze invisibili (…) E’ per questo dottor Giuttari, che torno a pregarla di non spostare le date già fissate per la mia deposizione, sempre che ci arrivi viva (…)”. Per Gabriella i delitti sono rituali, consacrazioni della setta delle Rose Rosse. Anche Narducci non è altro che una pedina nelle mani della setta. Ognuno di noi è una pedina. Gabriella afferma che “nei delitti del “mostro” bisogna distinguere il movente, i celebranti, il mediatore, il capo della manovalanza, l’uccisore, il sacrificatore, il custode dei feticci”. E i feticci? A che servono? “Sono consacrati sull’altare e dopo il rito vengono resi liquidi o in polvere e distribuiti sul mercato esoterico mondiale a costi miliardari”. Gabriella snocciola possibili snodi e collegamenti trasformando il Mostro in un X-Files di portata mondiale. In questa sede (letteraria, di critica) non mi perito di accertare la verità dei fatti (comunque non potrei farlo), ciò che mi (ci) interessa è il valore suggestivo dei libri trattati e quello della Carlizzi è uno dei più affascinanti e originali, quasi una strega di Blair cartaceo dove si dice tutto e niente e alla fine, non si fanno nomi né si tracciano confini precisi. Gli affari riservati è un testo di fiction e cronaca costruito come una conversazione che valica il tempo e le date e mescola tra loro avvenimenti inconciliabili, usando come pezze di appoggio documenti improponibili e surreali raccolti dalla scrittrice nel corso di un’intera vita di indagini. La bellezza del libro risiede, forse, anche nella figura stessa dell’autrice, un personaggio ancor prima che una persona. Una studiosa dei percorsi occulti dietro le vicende italiane degli ultimi trent’anni. Una sorta di Lucarelli underground, per nulla mainstream e in possesso di verità a metà tra Peter Kolosimo e Dylan Dog. Opera geniale!

Dolci colline di sangue, Sonzogno 2006. Autore: Mario Spezi, colui che più di tutti ha seguito (fin quasi nelle pieghe di un’ossessione personale) i fatti del Mostro. Il sottotitolo è importante: “Il romanzo sul mostro di Firenze”. La cornice di quest’opera (capitale per l’argomento) è importantissima: Spezi presenta il suo lavoro come una metafiction. I fatti sono reali, non è detto che lo siano anche le conclusioni. L’esordio è splendido: la lingua italiana usata dal giornalista non è affatto giornalistica, bensì ricca ed elaborata, colta. Si comincia con Coltrane, col jazz e una regista (quella di Rivombrosa) che sale alla casa sulle colline dell’autore per parlare con lui del Mostro. Il colloquio apre i flussi del tempo, le sacche della memoria e l’ex giornalista ricorda il suo passato in cronaca nera, il suo incontro coi delitti del Mostro, scene di un crimine che, a differenza di quasi tutti quelli che ne scrivono, lui ha visto coi suoi occhi. Il fumo della sigaretta s’inerpica nell’aria e apre i flashback narrativi. Corpi straziati appena illividiti dalle albe e dai flash dei fotografi della mortuaria. Per quegli anni, per il tipo di cronaca nera che si faceva in Italia, per la provincia sonnolenta, il mostro doveva essere un alieno. M come moglie, M come mamma, M come Morte, M come mostro! Si viene catturati dalla prosa, dal taglio thrilling del libro e si legge in apnea. Spezi ci riporta nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, ci riporta alla nostra infanzia, a un paesaggio bellissimo e incantato, incorniciato nella storia del nostro paese macchiato dal sangue. Gore di sangue. Cinzia Th. Torrini ascolta rapita, qualche volta pone delle domande cariche d’angoscia allo scrittore. Lui continua a fumare placido e si concentra sul primo delitto del 1968, la chiave è lì, dice sicuro. Nella pista sarda, la pista percorsa dai Carabinieri e opposta a quella dei compagni di merende (che sarà la pista della Polizia). Ma andiamo con ordine. Col delitto del 1983 il caso del mostro valica i confini nazionali. Il Times dedica un intero fascicolo domenicale al mostro. Arrivano troupe da tutto il mondo. Lo stato italiano mette in campo esercito e taglie milionarie. Il mostro mette in scacco un’intera nazione che da poco aveva smesso di essere agricola. Fioccano i bounty killers, fioccano i giornalisti, i tuttologi, i mitomani, i testimoni. Ognuno ha visto qualcosa, ognuno vuole vedere qualcosa. Il mostro parla ai giornali mandando centinaia di lettere false, perché il mostro, quello vero, non parla, non sfida gli inquirenti e quando lo farà, lo farà solo coi fatti, con una busta, con un lembo di pelle e un errore ortografico (vero o presunto). Anche gli scrittori si occupano del mostro. Una scrittrice finissima come Laura Grimaldi esce per Mondadori con Il sospetto. Nel 1985 la macabra saga del mostro diventa un fumetto pubblicato su “Il Monello”. A cadaveri ancora caldi vengono girati alcuni film nei medesimi luoghi delle tragedie. I famigliari delle vittime insorgono. Scoppia un caso. Alcune pellicole spariranno nell’oblio, diventando invisibili (28° minuto, ora interamente visionabile su YouTube). Spezi racconta dello scontro tra gli investigatori, tra Polizia e Carabinieri, carabinieri che, alla fine, usciranno dall’indagine e non ne vorranno sapere più nulla. Perché l’inchiesta sul mostro ha bruciato molte carriere. Ma Spezi rimane convinto che la verità sia da cercare nella pista dei sardi. La pistola era la loro, non ha mia cambiato di mano. Scava, indaga, il nostro si convince di aver trovato finalmente una pista, un nome, un indirizzo, una porta a cui bussare, magari una sera di novilunio…

Dovrei parlarvi ancora di altri libri, soprattutto Storia delle merende infami di Filastò, a mio avviso il libro totale sul Mostro, ma dalla regia Boss Longoni mi fa strani segni, devo tagliare, concludere o per me si mette male. Ubbidisco consigliandovi di reperire il libro di Filastò, ammesso sia ancora in commercio (forse sì, siete fortunati…). Tuttavia, prima di congedarmi voglio dirvi ancora una cosa.

I fatti e i misfatti relativi al mostro di Firenze non hanno prodotto solo una nutrita serie di volumi (di cui quelli sopra esaminati sono solo una parte), bensì anche dei romanzi che si sono ispirati più o meno direttamente alla vicenda. Mi piace ricordare il bellissimo Il sospetto di Laura Grimaldi, occasione per (ri)scoprire una delle più grandi scrittrici thrilling di questi ultimi trent’anni. Molto bello anche Fegato di Umberto Cecchi, uscito per Stampa Alternativa. Cecchi rilegge la vicenda dei delitti immaginando un possibile seguito e partendo da uno spunto dello stesso Pacciani, ossia che i mostri possano essere due, due che si danno la caccia. Il libro è scritto in un bellissimo italiano e la vicenda è veramente forte e originale. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di farci un film. Segnalo quell’oggetto non identificato che è Un amore all’inferno di Diego “Jack Folla” Cugia. A metà tra la fiction e il libro inchiesta (tipo “Gomorra” di Saviano), Cugia si concentra sulla figura del medico gastroenterologo perugino, raccontando la vicenda da un punto di vista singolare e personalissimo. Vale lo stesso discorso di Cecchi. Scritto benissimo, ti incolla alla sedia e, se letto di notte, con lumino acceso, provoca strani sogni. Mario Spezi, oltre a essere un bravissimo giornalista, è anche un valente scrittore. Il suo Il passo dell’orco mescola le vicende del mostro con quello del mostro di Foligno. Un thriller asciutto e ben costruito. Anche Alda Teodorani ha tentato una operazione originale col suo Labbra di sangue, rilettura onirica che sposta il teatro della vicenda dalla provincia fiorentina a quella romana. Un’idea che dimostra come i delitti del mostro siano diventati una metafora universale di mistero, angoscia e paura. Un monito di cui io e il mio socio Daniele Vacchino ci saremmo ricordati (permettetemi questa vile pubblicità) per la stesura del nostro Del bene più prezioso (scaricabile gratuitamente su Lulu.com e arricchito da una preziosa introduzione filologica di Antonio Tentori), romanzo in due parti che sposta la vicenda nella pianura vercellese e si confronta coi mille frammenti esplosi della vicenda, lavorando su piccole scene scardinate da una struttura logica sequenziale non più componibile, un poco come il primissimo romanzo di Tiz Sclavi, quel Film pubblicato dal Formichiere nel 1974. Col nostro libro (e con questo articolo) sper(avamo)o di liberarmi da tutte queste voci. Voci straziate di morti che dai viali dei cimiteri chiedono giustizia. Le ho sentite le vostre voci dentro tutti questi libri. Mi hanno riportato a quando avevo dieci anni e vedevo quel maledetto poster ovunque. Occhio ragazzi! E sentivo le radioline dei grandi sintonizzate in paese per sapere gli ultimi sul duplice omicidio del 1985. Ne ha uccisi altri, altri poveri ragazzi, dicevano. E ricordo le facce impaurite della gente e noi si era in Lunigiana, quindi mica c’entravamo molto con Firenze. Ma se andavi ad Aosta, in quel periodo era lo stesso. Come diceva il poeta, il mostro era metafisico. Era, per sinèddoche, la paura stessa.  Ormai siete quasi tutti svaniti. I sedici ragazzi. I personaggi. I poliziotti. I magistrati. Le prostitute. I compagni di merenda. I volti della (mia) Lunigiana. Anche il mostro sarà sceso nella bara. A noi viventi è toccato ascoltare le vostre voci. Adesso, come le mummie di Federico Ruysch, i morti tacciono. A noi, in questa notte scura e senza stelle, non resta che tornarcene a letto!

Davide Rosso