L’ALTRO THRILLING ALL’ITALIANA: QUELLI GREZZI, SPORCHI E MORBOSI!

Torniamo a casa.

Torniamo al thrilling all’italiana, ai suoi lampi surreali, al connubio di morbosità, sesso e morte.

Agli occhi di bambola di quelle femmine, truccate in modo preciso (non come oggi, coi tratti somatici annegati da una non-luce televisiva d’obitorio), con calze nere, vizi e anime di ghiaccio.

Torniamo a quel decennio, al suo consumare, bruciare, qualunque speranza di reale rinnovamento.

Torniamo ai gialli-sexy.

Al lounge di quelle musiche.

Ai paesi di provincia.

Alle città anonime e borghesi.

A quelle storie da fotoromanzo censurato.

Scritte e girate, il più delle volte, da artigiani che passavano da un giallo a una commedia o un poliziesco senza colpo ferire.

Oltre ai film più conosciuti – e reperibili – esistono altre dozzine di pellicole piene delle barocche follie di quel cinema.

Limitiamo l’indagine (comunque superficiale, viste le forze mentali di chi scrive) a quei lavori che riposano dentro i ’70, stabilendo come limite il 1979/1980.

Limitiamoci anche a una serie di lavori secondari, più sciatti rispetto ai grandi film coi soldi, ma non per questo meno belli, anzi.

Quindi abboffiamoci di titoli, sensazioni e immagini, gentilmente reperite dal nostro capo & padrone, Davide Longoni!

Tuffiamoci nel vortice macabro orrorifico.

E amen.

O Amer?

A.A.A. MASSAGGIATRICE BELLA PRESENZA OFFRESI, del 1972, regia di Demofilo Fidani, uomo dei western nostrani ed esperto di sedute spiritiche. Nel cast una superlativa Paola Senatore, generosissima a mostrarci le sue filiformi grazie, Simonetta Vitelli, Yvonne Sanson, Hunt Powers, Giancarlo Prete e Howard Ross in gran spolvero. La trama funziona alla grande. Una ragazza di buona famiglia che decide di andarsene dall’ambiente asfissiante di casa e si butta nella prostituzione d’alto bordo per fare soldi a palate. Il maniaco, come in Tulpa, ammazzerà tutti i maiali panzoni e pelati con cui lei scoperà. La bellezza delle immagini, dei costumi, di quegli occhi femminili enormi, delle ciglia infinite, contrasta con l’iconografia di un ceto chiuso, medio-borghese, proiettato sul “piano solo” del risparmio per il futuro, per i figli, per i nipotini; la famiglia di Paola Senatore ha raggiunto il benessere a prezzi durissimi, lavorando come bestie nei corridoi lecchini dell’autorità pubblica. I segni della loro rispettabilità sono quelli di tante commedie con Tognazzi, Sordi e Gassman. Ma il clima sta già mutando: gli episodi di guerriglia urbana (fuori campo), gli attentati terroristici (fuori campo), le manifestazioni d’indipendenza dei giovani (i famigerati capelloni, beatnik lontanissimi dall’orizzonte delle 3M – moglie, mestiere, macchina) dispongono l’umore dei cittadini verso un senso di sfiducia nella democrazia, nello stato; è da qui che tanti padri cinematografici si fanno mani guantate, giustizieri da poliziottesco. Padri che emanano la medesima aura funeraria dei vecchi potenti democristiani. Film splendido. Ultima nota: la colonna sonora jazz di Lallo Gori, impreziosita da squarci progressive dal sapore pinkfloydano. Da tagliarsi i polsi per averla!!!

5 DONNE PER L’ASSASSINO, dello specialista poliziottesco Stelvio Massi, qui all’unica prova thrilling. Sceneggiatura di pregio di Roberto Gianviti & Gianfranco Clerici, con la mano di Vincenzo Mannino. Cast: Francio Matthews, Pascale Rivault, Giorgio Albertazzi, Howard Ross, Katie Christine. Regia solidissima, funzionale al genere, con impennate splatter molto forti (l’assassino che sventra le vittime, tra cui una giovanissima, virginale Ilona Staller) e luci a tratti psichedeliche. Bella trama e personaggi, al solito tutti sordidi, ricattatori che si muovono in una città di cadaverica ingovernabilità, affidata alle cure di un Howard Ross, inusuale ispettore brillante con appuntato da barzelletta. Importante la figura di pregio del primario, affidata all’acume immane di Albertazzi: egli dà le coordinate al film. In un mondo da crisi monetaria, da inflazione e crisi petrolifera, il quadro è desolante: comunisti, socialisti e cattolici declinano gli uni dentro gli altri, lasciando la nave della Repubblica priva di coordinate. S’arrocca il conservatorismo e il sistema partiti (ossia il lecca lecca dei culi a preti e potenti) dilaga fuori dal Palazzo: Albertazzi, neofascista di sinistra, abbraccia idealmente l’MSI e i manifesti di Mara Cagol pur di sfangarla e mantenere se stesso (e la moglie, ancor più sfacciata e senz’anima) nella dimensione del benessere a ogni costo. Primario Albertazzi, idolo/icona di un decennio già alla fine (siamo nel 1975, ma il più è fatto), pronto alla purga Fininvest. Film molto bello, colonna sonora jazz di un maestro come Giorgio Gaslini.

LA MORTE SCENDE LEGGERA, 1974, di Leopoldo Savona, scritto da Luigi Russo e Leopoldo Savona. Cast: Stelio Candelli e Patrizia Viotti. La trama è poca cosa, la produzione inesistente. Candelli è accusato di aver ammazzato la moglie e si rintana (complici amicizie altolocate all’interno dei gangli del Palazzo democristiano) in un albergo di 80 stanze nel centro di una città anonima. L’albergo è vuoto. Le ottanta stanze sono sempre la medesima, con le tendine cambiate. Mentre ogni scusa è buona per mostrare le scarse nudità di Patrizia, accadono cose strane, forse altri delitti inquietanti. Alla fine il maniaco c’è. La mano guantata c’è. L’atmosfera morbosa, da porno fumetto style Cronaca Nera, contribuisce a nobilitare la visione, altrimenti intrappolata nella pochezza assoluta della messa in scena e nella sublime inadeguatezza degli interpreti (la Viotti su tutti). Pochissima azione. Solo un tempo d’attesa, surreale e trash, vicinissimo alle sequenze sgangherate di Nuda per Satana o a certe “intuizioni” di Ed Wood in Necromania. Merita d’essere riscoperto. Musiche psycho di Lallo Gori!

IL VIZIO HA LE CALZE NERE, regia di Tano Cimarosa, anche nella parte di un inquirente. Nella semplicità di mezzi, un film inaspettatamente solido, girato con acume, soprattutto nelle scene di tensione, per nulla inferiori a quelle dei thrilling maggiori (vedere per credere la scena nella casa di bambole). La mano guantata c’è eccome e ammazza coppiette come il mostro di Firenze. Il cast funziona, con attori rodati in altri gialli, da John “Torso” Richardson a Dagmar “L’iguana” Lassander e un insolito Ninetto Davoli, chiamato giusto per farsi una scopata e un interrogatorio. Ottimo anche il sempre efficace Giacomo Rossi Stuart. Comunque, tornando al plot, in un’Italia da baratro, quella del 1975, una donna in nero passa al rasoio varie viziose in quel di San Benedetto del Tronto. Cimarosa regista sfrutta bene la provincia come placenta del torbido e usa con rigore il montaggio, alternando scene d’indagine a morbosità e delitti. Quel che merita è l’alternarsi di scene in pieno sole (ah, la nostra Italia, che bel posto in cui vivere, tutta mare e musica) con il buio totale che avvolge le scene di violenza. Quando la luce cala, il maniaco entra in azione, cancella il traffico monetale, azzera differenze sociali e vite maggiori o minori. La vena consumistica del paese è dietro l’angolo,  però si ravvisa nella povertà funzionale dell’intreccio l’ombra di una grave crisi, di una degenerazione da attendere con l’inevitabile sorriso del cinismo. E bravo Tano! Meno bravo Carlo Savina, con una partitura meno brillante del solito.

LA POLIZIA BRANCOLA NEL BUIO, anno 1972, probabilmente distribuito nel 1975. Anni ’70 violentissimi, colori stirati, slavati dalla consunzione dei nastri, ambienti di una gravità e approssimazione dilettantesca da primi porno italiani. Fuori campo, lo sbando del decennio, con magistrati, inquirenti, poliziotti alla vana ricerca dei mandanti delle stragi di stato e dei primi focolai latenti delle Br; figurarsi dunque l’importanza accordata a un maniaco sessuale qualunque alla sua cruenta prova generale, simbolicamente in anticipo sul mostro dei mostri, quello di Firenze. Helia Colombo è il regista senza talento. Sempre Colombo scrive quel che c’è da scrivere, ossia nada. Alla sciattezza assoluta di Joseph Arkim, Francisco Cortez, Elena Veronese e altri l’interpretazione dei caratteri. Su tutti si salva (e bene) una Gabriella Giorgelli che si fa succhiare le zinne da un mentecatto bavoso. Tutto rimanda al porno fumetto  più piatto e delirante, con un maniaco che gira attorno a una villa di un fotografo paralitico (e impotente, è importante sottolinearlo) che usa ritrarre perverse modelle in pose hard. L’inghippo giallo verrà risolto con metodi fantascientifici, ovverossia una macchina capace di fotografare il pensiero del colpevole! Ricordiamo, oltre alla povertà francescana del tutto, scene inerti, prive di verbo, di vita, d’azione; un pranzo/cena d’inusitata lunghezza, in cui niente accade e la vanvera procede come una piece dadaista, fatta con mozzi di parole buttati nell’aria. Il maniaco appare poco, ma quel poco è graffiante, tagliente. Dunque? Un brutto film? Affatto. Lo sapete: qui non si bada alla bellezza sterile del grande cinema. A noi del cinema non frega una mazza. La polizia nei ’70 fa molte cose. Chiede aiuto. Ha le mani legate. Ringrazia. S’incazza. O brancola, appunto. Peccato che nel lavoro di Colombo (radiato dal mondo dei cinematografari dopo quest’opera apocrifa) la polizia sia inesistente. Il bello del suo “testo” è proprio l’assenza di un plot, coi personaggi (qui manichini surreali) che brancolano nella scena, inciampando gli uni negli altri, aprendo la bocca per enunciare spropositi sessuali, lascivie della carne, oltraggi parentali. Ogni tanto la mano guantata incide, slabbra la pelle (quella dolcissima della Giorgelli dopo una doccia mostrata con acume ginecologico). Onestamente: cosa chiedere di più? Un senso, una morale, il bisogno di identificarsi? Ne avete bisogno? Noi no. Renzo Barbieri non ne avrebbe avuto. Jess Franco non ne avrebbe avuto. Jean Rollin non ne avrebbe avuto. I migliori sono con noi.

IL FIORE DAI PETALI D’ACCIAIO di tale Gianfranco Piccioli, ma di lui non ci importa; importa invece di Gianni Martucci, co-autore dello script de Ragazza tutta nuda assassinata nel parcoda portare con l’orgoglio d’uno stemma – e di questo film noioso, in cui accade poco, a parte le lesbicate di Paola Senatore (figura d’avorio degli scacchi) e il guscio marcio della Carroll Baker. Nota di merito a Gianni Garko, chirurgo con grana. Appaiono anche Umberto Raho e Alessandro Perrella. La trama non è gran cosa, però vi sono dei momenti erotici molto interessanti e una sequenza ambientata in una sorta di cimitero delle bambole, in cui Garko confonde il corpo della moglie con quello dei feticci, ombre stigmatizzate dalla paura. Scena di grandissima atmosfera e inquietudine, poi bon, noia. Siamo nel 1973.

IL SESSO DELLA STREGA di Elo Pannacciò. Gran nome. Gran film. Preferiamo questo cinema di grana spessa alle finezze intellettuali. Non lo siamo, intellettuali. Ma Il sesso, Vhs Lamberto Forni con locandina (meravigliosa e ripresa, ricopiata dal pornofumetto ne) originale, ci ha sempre attinto. La trama strana. Un mix fra il thrilling con mano guantata e il gotico ’70 già degradato, povero, squadernato tipico di un Polselli, d’un Morrissey, d’un Mancini. Il cast è perfetto: Susanna Levi, Donald O’Brien ispettore di polizia sornione, Marzia Damon da sturbo, Camille Keaton e un Franco Garofalo che s’apparta con la Damon dentro ai sepolcri, sulle bare putrefatte e ne carezza cogli occhi la sacrale solitudine del sesso. L’aria è viziosa, malsana, satura di colori a tempera, ad olio, tirati, grumosi, narcotici. Perché, in fondo, il poco/tanto della trama si consuma in un ritmo rallentato, indifferente, svogliato. E qui si apre la nota curiosa, la più curiosa: sulla sceneggiatura pare firmata da Franco Brocani – autore sperimentale del capolavoro gotico Necropolis, film oltre le colonne d’Ercole, come il suo gemello horror Don Giovanni di Bene. I dialoghi infatti paiono scendere sui corpi attoriali come voci dal profondo, monologhi letterari, preziosi, incastonati a viva forza su quelle facce incapaci d’essere altro oltre ai loro magri stereotipi anagrafici (non parlo però di Garofano, attore/autore di rara preziosità in questo tipo di cinema). Anche Pannacciò pare volersi affrancare da certo cinema becero (per poi finirci in pieno) utilizzando un montaggio non sempre cristallino, spezzato, venato da venti di ricerca formale. IL SESSO DELLA STREGA è il bacio d’un sonno lungo, senza alcuna speranza di realtà.

GIALLO A VENEZIA di Mario Landi, film del 1980, limite estremo della nostra lista, poiché il mondo dei ’70 è finito, risucchiato dagli entusiasmi collettivi di una nuova Italia. Finisce l’incubo delle manifestazioni infinite, delle proteste, dell’ideologia ludica del ’77; arriva la libertà di dimenticare tutto nel de profundis dei vari Fantastico in tv. GIALLO A VENEZIA è un film fuori dal tempo, il suo: pellicola sporca, trash, degradata, laida. Puttane sordide che battono in una discarica, un killer paninaro che sega gambe, accoltella nella vulva e spia una Mariangela Giordano quasi porno, infoiata. Ci sono le scialbe indagini di un incapace (sia come attore che come poliziotto) che spela uova e spara cazzate. E poi ci sono loro. Eleonora Fani e Gianni Dei, coppia torbida con lui che non riesce a fare sesso normale e la spinge sempre oltre, in situazioni da porno fumetto: in un cinemino porno con un aspro guardone segaiolo, a farsi sbattere da due rozzi muratori, cose così. Alla fine lei sbotta che non ce la fa più, che vuole una vita normale, una famiglia, un bambino, tecnologia, flessibilità, fiction tv fluide e high tech, insomma tutto quello che GIALLO A VENEZIA non è, non vuole ancora essere. La morte di Gianni Dei ha dell’epico, perché con lui finisce il come eravamo e comincia l’empire degli yuppies rampanti, delle donne in carriera.

Si potrebbe andare oltre, elencare PLAY MOTEL, PENSIONE PAURA, LA SORELLA DI URSULA, LA ROSSA DALLA PELLE CHE SCOTTA, DELIRIO CALDO, I VIZI MORBOSI DI UNA GOVERNANTE e altri ancora. Il piacere di terminare la scoperta di questo cinema innominabile, disprezzato e che ormai sta scomparendo lo lasciamo ai pochi che apprezzeranno questo articolo. E’ proprio questo senso di lenta scomparsa a fare muovere a due feticisti del genere come noi le mani sulla tastiera. Nel tentativo di provare a salvare quel mondo che non c’è più, ma che almeno ha il merito di consolarci. La sera, quando tutti noi torniamo dalle nostre quotidiane cure (outlet, magazzini, scuole, fabbriche, uffici, negozi, postriboli, chiese, sarcofagi, tanto non fa alcuna differenza, perché il lavoro sta consumando ormai senza più nemmeno consolazioni monetarie la nostra vita), dopo aver spento il telegiornale in cui ci parlano dell’ennesimo slogan di Matteo Il Magnifico, abbiamo la possibilità di accendere il nostro computer, o il nostro lettore dvd e di far partire uno di questi film. Da queste pellicolacce cattive non ci verranno i “Sacra verba”, né degni insegnamenti; i filmacci sconsacrati e rinnegati ci parleranno di altro: ci parleranno di libertà, libertà di essere brutti e squallidi, possibilità di perdere tempo, di sprecare, di affrancarci dai ritmi produttivi, dalle esigenze che la vita stessa ci impone (mangiare, dormire, vestirci, sposarci, amare, divorziare, figliare, morire). Saranno un incredibile inno alla vita, alla possibilità anarchica di dire di no, di rifiutare, di mostrarci nudi, con i nostri vizi morbosi e i nostri squallori, di non voler crescere.

Daniele Vacchino e Davide Rosso