VIETATA LA VENDITA AI MINORI: FANCIULLE PERVERSE, SATANISTI & IMPOTENTI NEI “RACCONTI DI DRACULA” (1973 – 1980)

Irving Mathias, alias Stanis Mulas.

Nomi da sogno, inventati, finti, che cancellano la proprietà letteraria dell’autore.

Uno, nessuno, qualcuno.

Mathias/Mulas il sardo, nel 1974 scrive il Racconto di Dracula intitolato Lo spirito. Il finto titolo originale è Satanic school e la cosa mi interessa molto, infatti l’ambientazione sembra portarci dentro a quel filone lolitesco del thrilling nostrano, a film come Cosa avete fatto a Solange?, Nude si muore, Enigma rosso. Il collegio femminile e aristocratico si trova da qualche parte in Scozia, però possiamo riformularlo anche a Barletta per quel che importa.

Le figure retoriche del filone sono rispettate. Studentesse birichine e sporcaccione (alcune conservano stralci di riviste import pornografiche sotto i materassi, per consolarsi dalla penuria di augelli maschili), la solita direttrice zitella, austera e canuta, alcune professoresse lesbiche e perverse e un giardiniere/stalliere tuttofare bigotto, coglione e sessantenne. Mulas mescola il bicchiere narrativo e ne fa uscire la solita (gradevolissima) sbobba di porcate e feticismi. A dare una svolta è l’arrivo di uno spirito demoniaco, allievo di Satana e in procinto di passare un esame per accedere ai piani alti delle sfere infernali. L’esame consiste nel portare scompiglio e malanimo nel collegio, cosa che gli riuscirà grazie alla possibilità di incarnare a piacimento sia corpi maschili che femminili. Lo spirito, mosso dalla brama del male puro, compirà orrori, violenterà contronatura le verginelle saffiche e getterà discredito sul collegio (l’idea più bella sarà quella di possedere il corpo del tuttofare represso e trasformarlo in un Rocco Siffredi inculatore e assassino che getterà giù dalle scale la direttrice castigata e la farà ritrovare con le copie delle riviste porno, così da rovinarle la reputazione anche da morta). Mulas si diverte abbastanza a portare per 120 paginette la storiella e a incrociarla (siamo nel 1974 lo ripeto) con alcune derive del thrilling e dell’horror iberico (Gli orrori del liceo femminile e l’idea dell’alieno che entra nei corpi come nel bel Horror Express). La scrittura è veloce, fitta di dialoghi e descrizioni, poco concentrata sulla psicologia (assente!) dei personaggi. Le scene erotiche sono allusive, pur lasciando poco all’immaginazione degenerata dei lettori di allora.

Il finale è meno convincente, forse irrisolto, probabilmente appiccicato dall’autore ormai a corto di idee o di tempo.

Libro: 7; feticismo: 6; anti-morale: 7; delirio: 5; Copertina: 7; eros & thanatos: 4; impotenza: 5.

Joseph Britt, alias Aldo Crudo, curatore della collana, anche sceneggiatore con le mani in pasta nel cinema, qui autore de Il nomade del sogno uscito (la ristampa) nel 1975. Roba strana Il Nomade. Anzitutto la copertina, una delle poche senza donnine discinte. Mario Caria traccia un uomo occhialuto, forse panciuto, in mezza figura, lievemente di profilo rispetto al lettore. L’uomo è chiaramente terrorizzato, ghermito da due possenti zampe demoniache, forse appartenenti a un lupo, un mostro dagli occhi rossi e il muso bianco, quasi in dissolvenza nei colori glaciali dello sfondo. L’ambientazione è nordica, così come le referenze alla base del testo, anomalo persino nei contenuti. Un’atmosfera ovattata e oppressiva cala sugli abitanti di Akaalund, sperduto villaggio del nord. Crudo usa una scrittura narcolettica e cinerea, le parole volteggiano sulla pagina simili a brandelli di garza e si fa fatica nell’afferrarle pienamente. Si legge Il Nomade come in un sonno paludoso, fatto di nebbia, neve, alghe, foreste e mare glaciale. I personaggi, indistinti con lo sfondo, sono stoppini fumosi tra cui aleggia un’atmosfera nemmeno horror, forse una miscela inedita tra Bergman e Franco, come dire: cani & porci. Reincarnazioni, morti, violenze e segreti. E ancora il nord gelido. E albe dure come il cobalto d’oriente.

Libro: 4; feticismo: 0; anti-morale: 0; delirio: 0; Copertina: 1; eros & thanatos: 2; impotenza: ?

Dan Brit, alias Renato Carocci, scrive (1978) tale Terribile eredità. Il romanzo è un coacervo, un fricandò di roba: parte lento, tranquillo e, al solito, non hai idea di dove vorrà condurti. All’inizio si legge di un disastro aereo, roba da farti ricordare di quello sciroccato che si è schiantato con tutto l’aereo di passeggeri perché voleva suicidarsi. Poi si scopre che c’è una ragazza, Sarah, che prevede queste catastrofi. La mente corre al coevo Il tocco della medusa, con Richard Burton che porta iella a livelli stratosferici; dopo altre pagine capiamo che Sara non (pre)vede nulla, anzi è dotata di un potere mostruoso che la paragona alla Carrie sfigata di King (anche Sarah è verginella e inesperta nelle cose del mondo). Un’amica (lesbica ed esperta) si prende cura di lei, dopo che l’amico psichiatra (che ricorda molto il Marc Porel di Sette note in nero di Fulci) l’ha sverginata ed è (per questo) morto. La nuova amica si chiama Francine e giocherella subito con le dita. Poi Sarah si stufa di massacrare gente con la sola forza del pensiero e si toglie la vita. A questo punto appare chiaro che Carocci ha finito la benza, eppure è costretto ad andare avanti, così s’inventa un transfert e i poteri passano a Francine. La lesbica riceve la visita di un giornalista che la violenta analmente e lei non trova di meglio che teletrasportarsi in California, dove verrà ripescata dall’oceano da una coppia di turisti infoiati e onanisti. Scatterà la gelosia a tre, un incidente su una Camaro lanciata a tutta velocità e pure una resurrezione in un obitorio. Uno dei personaggi si chiama (E)Leonor, che è un nome bellissimo. Non mi viene altro.

Libro: 4; feticismo: 1; anti-morale: 0; delirio: 7; Copertina: 5; eros & thanatos: 3; impotenza: ?

Harry Small (Mario Pinzauti), Proiezione nel passato, 1973. La cosa più divertente nello scrivere un articolo sui Dracula è di doversi inventare un modo per tirare una paginetta per ogni romanzo. Su alcuni è facilissimo, altri invece appaiono talmente brutti o insignificanti da rendere tutto difficilissimo. E’ il caso di questo Pinzauti del 1973 dalla trama piattissima, forse nemmeno horror. Due donne, madre e figlia, entrambe piacenti e perverse. Un uomo giovane e aitante, leggi virile e non impotente (come piace a me!). Le due se lo sciupano a dovere, poi si rinfacciano di esserselo rubato a vicenda. Finirà male, ovvio, tuttavia il libro appare più come un anonimo romanzetto porno dei primi del ‘900. Per collocarlo nella collana l’autore si inventa scemenze sull’energia sessuale psicoeterea, sul subconscio, la proiezione psicofisica dell’orgasmo e la trasmigrazione dei corpi, ma è solo aria fritta. Anche lui doveva trovare un modo per tirare le pagine (e tirare a campare!). Leggi leggi e ti annoi, poi si arriva a pag. 104 con le due tipe che se le cantano e la giovane lolita minorenne se ne esce con un’affermazione che mi apre un mondo nella testa. Dopo che la madre le urla dietro di andarsene via e smetterla di rubarle gli uomini, la lolita ribatte secca che non ha nessuna intenzione di lasciare la sua casa e mettersi a girovagare per il mondo come una barbona. Lei si sente inserita nel mondo borghese e conformista e non ha alcun desiderio di rischiare chissà cosa nel mondo balordo degli hippies sfigati! Insomma quasi una dichiarazione d’intenti che mi rimanda alle tante fastidiose eroine dei thrilling del periodo (penso ai film di Luciano Ercoli o i primi di Sergio Martino con la Fenech, o ancora i thrilling di Lenzi con la Baker), donne fascinose, ben vestite, alla moda, e sfacciatamente ricche, mantenute da un marito cornutazzo industriale che poi le voleva uccidere per intascarsi l’assicurazione milionaria. Robe così. La coscienza di classe della lolita di Pinzauti è quella della signora Wardh, di una giovane donna dei ‘70 che si sente il vento in poppa, a cui non manca nulla. A questa gente della classe operaia, del lavoro salariato in generale non frega un cazzo. In quel mondo da vip della Costa Azzurra conta solo il denaro, anzi meglio il suo valore astratto, un’ipostasi fantastica dentro alla quale ci siamo tutti, poiché il denaro rappresenta tutte le forme di rapporti sociali esistenti e li sancisce come merci. La quotidianità è scambio sociale. Perché quando si è giovani e un po’ puttane, la passera può comprare molte cose, dopo però serve un fesso da accalappiare. Meglio se danaroso. Credo di aver fatto la paginetta. Passo al prossimo!

Libro: 0; feticismo: 0; anti-morale: 6; delirio: 0; Copertina: 4; eros & thanatos: 0; impotenza: ?

1980, i Dracula hanno le ore contate.

L’anno seguente la collana terminerà in una cascata di ristampe, segno che già nell’80 era finita.

Camerini e Cattaneo imperversavano. A chi interessava più una collana di romanzacci scritti coi piedi e velocemente da finti autori anglofoni?

Le copertine di Caria erano state un buon traino, per via delle donnine discinte. Tuttavia nell’80 il porno era sdoganato e Polselli faceva accoppiare la Lotar con un cavallo o altre bestie. Insomma il 1980 è data estrema. Il cinema e la letteratura (King, Barker, Straub, McCammon, Grant) sono altrove, persi dentro le meraviglie dello splatter politico, chirurgico, demenziale. Il gotico, coi suoi manieri, le sue rovine, i suoi labirinti psicanalitici, è roba passata. Almeno per il momento. Dunque Trail. I morti tornano a Trail. Di Dan Britt, ossia Renato Carocci. La copertina di Caria è stupenda, metafisica. Un gatto bianco e la sua ombra. Una donna in mezza figura, spogliata. E un’ombra dietro di lei che si protende da una finestra aperta su una notte americana. La trama ricorda molto certi gotici anni ‘60 di Freda. Lo spettro, A doppia faccia, una spruzzatina di La notte in cui Evelyn uscì dalla tomba di Emilio Miraglia. Ecco. L’allure gotica, il castello, la morte della castellana, il marito viveur che se la spassa con l’amante, con la servetta, per poi scoprire che Scotland Yard sospetta l’omicidio della moglie e gli fiata sul collo. L’apparizione della morta, spettro selvaggio dentro le armature insanguinate. Una lunga sequenza narrativa che ricalca quella dello Spettro, dove Barbara Steel e Peter Baldwin scendevano nella cripta per recuperare la chiave del dottor Hichcock. Una prosa veloce, franta, innervata su valanghe di dialoghi annacquati. Le reminiscenze col gotico che fu piacciono molto e fanno a pugni con quella data impressa nella quarta di copertina, il 1980 appunto. Carocci sembra volerci lasciare con una sorta di riassunto di quel che è stato e non sarà più. Ovviamente lo spettro della morta è una macchinazione. Ovviamente dietro c’è (come nel dittico di Miraglia) la mano di qualche aspirante all’eredità. Un thrilling gotico fintamente arcano.

Libro: 8; feticismo: 1; anti-morale: 2; delirio: 2; Copertina: 7; eros & thanatos: 6; impotenza: ?

Sempre Carocci, sempre il 1980.

Il gotico è andato.

E pure il thrilling con le sue bamboline  – disarmonie e donnine giramondo – ha tirato le cuoia.

Gli anni ‘80 saranno un’altra cosa.

Eppure Carocci e Cantarella ci provano ancora. Che l’aria è cambiata lo si respira bene da questo Il demone nel cristallo, gotico sotto le false apparenze di qualcosa di moderno. Ambientazione contemporanea, si parte in Germania, poi si vola a New York e a Miami per tornare in Germania. Tre militari americani di stanza nella Foresta Nera, uno dei tre di colore, ma Carocci ripete all’ossessione la parola “negro”. I militari, da buoni militari, sono infoiati e stuprano, uccidono una coppietta appartata, lui fotografo di moda e lei modella. Il più giovane e posato del trio ruba la macchina fotografica del fotografo. Non lo avesse mai fatto. Il demone nel cristallo vuol dire che, senza fornire mai una spiegazione, l’obiettivo della reflex è in grado di prevedere le morti violente. Gole squarciate, gore di sangue, gente che spicca il volo e si spiaccica la faccia sul selciato. Martin, il nome del giovane militare, al suo rientro in America riprende la sua attività di fotoreporter di nera e, grazie all’ausilio della reflex occulta, diventa il più grande fotografo di cronaca di cui ci si ricordi. Il suo personaggio – sempre con la macchina al collo, quasi drogato, vampirizzato dal bisogno di fissare, riprendere, immortalare delitti e tragedie sempre nuove – ricorda molto l’Harvey Keithel del Gatto nero di Dario Argento. Naturalmente la morsa del gotico, la sua stretta morsa del ragno, farà precipitare lo stesso Martin dentro all’incubo. Martin tornerà in Germania e pagherà caro tutto; a sostituirlo la sua ragazza, nuova fotografa di nera pronta ad aggirarsi per una New York infestata di barboni e drogati che scivolano lungo i grattacieli come zombie romeriani. Le descrizioni schizofreniche della metropoli si riallacciano al nuovo cinema americano del terrore dei vari Romero, Carpenter, Cronenberg, Hooper, non più interessati a castelli e cripte. Anche la ragazza farà una brutta fine, vittima di un maniaco che la sevizierà legandola con il nylon sublime delle calze. Nelle ultime righe la reflex si spaccherà e pezzi della lente, dei cristalli, finiranno sotto la scarpa di un passante, fondendosi col cuoio, similmente a quanto avveniva coi vetri dello specchio demoniaco nel film Mirror di Ulli Lommel. Comunque la trama, l’idea alla base di questo romanzetto, è assai interessante: la macchina fotografica che anticipa o causa la morte di ciò che inquadra, fotografa. Sembra un soggetto pronto per un romanzo fiume di Stephen King – uno che sugli oggetti diabolici scriverà parecchio (auto, camion, falciatrici, giocattoli e utensili vari) – oppure anticipa curiosamente un film di Francesco Gasperoni del 2009 intitolato Smile, basato su sette ragazzi in gita in Marocco che entrano in possesso di una strana macchinetta fotografica. Da quel momento una strana forza oscura li inseguirà nei boschi, uccidendoli uno a uno. Le somiglianze del soggetto ci sono eccome: che Gasperoni si sia letto Carocci? Certo l’argomento macchina fotografica – mondo spettrale non è nuovo. Che gli spiriti esistono e possono essere fotografati è assodato. La macchina fotografica è un exemplum  capace di fotografare ciò che Omero chiamava fumo, ombre inconsistenti dell’aldilà fulciano. Nel gran serraglio dei neurodeliri del XIX secolo, la fotografia diviene unione tra scienza e sovrannaturale, fotografia psichica. Dalla fotografia post-mortem a quella spiritica il passo sarà breve e nelle sedute spiritiche prenderanno parte un fotografo, un medium e la persona da ritrarre; in certi casi il fotografo, per semplificazione, assumeva su di sé il ruolo di medium e fotografo, divenendo così un fotomedium sublime! Bene, da Carocci fino al fotomedium!

Libro: 7 e mezzo; feticismo: 1; anti-morale: 0; delirio: 2; Copertina: 7; eros & thanatos: 6; impotenza: ?

Peter John Fenton è il giudice (anche di stanza a Vercelli per un breve periodo) Giuseppe Paci. Anzitutto dirò che la scrittura di questo La maledizione (1975) è discreta e scorrevole, meno imperniata sui dialoghi fiume di altri Dracula e costruita su iperbole e perifrasi (in particolar modo quando si scivola sul sesso e ci si ferma sempre sulla soglia della camera, come avrebbe fatto uno scrittore di buon gusto come Piero Chiara). La trama è cosa già vista, soprattutto nel 1975. Una maledizione gettata da una strega zingara. Un casato guasto. Un castello avito. L’Inghilterra dei primi del ‘900. E ancora villaggi fuori dal tempo, cigolii, nitriti e carrozze sul fango. La trama pare anticipare quell’Occhio del male di Richard Bachman di poco successivo. Ovunque si respira un’aria da gotico vizzo, con bare sui trespoli, candele votive, sepolture monumentali e putredine sessuale. Il giovane protagonista giace con belle zingare minorenni, cuginette sadiche e giovani compagne d’Università. Verso la fine la vicenda pare quasi volgere al giallo, ma il sovrannaturale qui c’è eccome. La copertina di Caria è molto bella. La faccia della strega che aleggia sui destini di tutti, in particolare di una bella ragazza bionda dagli occhi accesi di libidine. La candela in cera è un tropo del male, anticipazione retorica di quel peso, di quella condanna che si deve sempre scontare in un gotico, anche in quelli trash.

Libro: 7; feticismo: 3; anti-morale: 2; delirio: 6; Copertina: 8 e mezzo; eros & thanatos: 8; impotenza: ?

Il club degli impotenti è un titolo che sconcerta, tanto è di buon auspicio. Irving Mathias, nel 1976, ne è l’autore. Irving Mathias è Stanis Mulas il sardo. Che poi, sia nella copertina che nel romanzo di impotenti ce ne sono pochi, di sadici invece molti. Questi Dracula di metà anni ’70 paiono spesso dei romanzetti porno spacciati per degli horror demodé. Nel club, a parte l’apparizione un pochino fuori luogo di Dracula in persona nel finale, di horror non vi è nulla. Mulas pesca a piene mani nei luoghi comuni della letteratura porno  femminile del post-romanticismo. Da Mannoury d’Ectot sotto la Terza Repubblica a Renée Dunan, fino alla scrittrice surrealista Anais Nin. Certo Mulas non è un fine pensatore e probabilmente nei suoi ricordi c’è la frenesia di Pauline Réage (pseudonimo pastiche tipico della letteratura porno) con la sua Historie d’O del 1954, storia di una donna trasformata in perfetta schiava sessuale. Anche il club (dei presunti impotenti) prende quella strada lì e non lesina sulle catene, i collari, le scudisciate sulle chiappe, le guaine, i ganci e le lesbicate. Poi alla fine arriva Dracula a marchiare le natiche dei corpi delle ragazze di vita. Mah?

Libro: 1; feticismo: 1; anti-morale: 1; delirio: 2; Copertina: 4; eros & thanatos: 3; impotenza: ?

Daniel Scott, tale Mario Ratti, forse il regista de I vizi morbosi di una governante. Ratti, a parer mio, di libri ne ha azzeccati parecchi. Lui è uno fumettoso, bidimensionale, senza l’atmosfera di un Libero Samale o le intuizioni di un Pino Belli. Ratti scrive con leggerezza e approda, verso la fine dei ’70, a una prosa veloce, quasi sclaviana. Come nei suoi film (se è lui) Ratti scrittore è assai pecoreccio, volgarotto e pruriginoso. Con La vita nella morte (1978) mette in scena delle situazioni che ricordano l’incipit di I vizi morbosi di una governante, appunto. Un gruppo di personaggi dell’alta borghesia, stronzetti pieni di soldi che vivono di rendita senza fare un cazzo dalla mattina alla sera, se non inventarsi delle sedute spiritiche (truccate) per sbarcare la noia. A Ratti la faccenda piace e lo si vede trigare nel descriverci i vari trucchi dei finti medium. Poi, per rimpolpare un romanzo che non si capisce bene dove voglia andare a parare, ci mette il solito lesbismo becero. Ciò che interessa è l’ambiente borghese, molto presente nei thrilling degli anni 70. Conti, duchesse, castellane, banchieri, attori che si aggirano fra motel, parcheggi, ristoranti, caffè, terrazze panoramiche di un’Italia-Vajont da rimuovere, da re-inventare sull’illusione dell’espansione industriale e gli spostamenti infiniti come se si vivesse in un paese civile, moderno, all’avanguardia. Inutile dire che ai personaggi di Ratti non può fregare di meno di come si viveva e lavorava nelle fabbriche dei ’70, luoghi durissimi di maltrattamento, ricatti, omicidi civili. La fabbrica nevrotica è lontana dai chiarissimi cultori degli studi medianici. Questo sul romanzo, ossia nulla, perché il resto è noia. La copertina di Caria è sublime, con quei colori acidi, lisergici e la ragazza che balla lo shake. Di Piccioni? Umiliani? Psichedelia pop da edicola. Nelle ultime pagine del volume, Antonio Farolfi in persona fa i conti e ci spiega i costi e i ricavi de I racconti di Dracula… barando ovviamente!

Libro: 2; feticismo: 0; anti-morale: 0; delirio: 0; Copertina: 10 e lode; eros & thanatos: 0; impotenza: 0.

Antonio Di Pierro si fa di mescalina culturale.

Si maschera sotto il nome ridicolo di Jeremy Selenius e scrive, nel 1973, Quel convento nella Foresta Nera. Una roba forte, fuori di testa, piena di cose. La scrittura è robusta, moderna, scorrevolissima. Pochi dialoghi, molto ritmo e delirio sado/erotico. La trama? Un americano nella Foresta Nera. Gira sulla sua bella Bentley bianca e si chiama Hall Mason. Deve andare a trovare dei vecchi parenti. Incontra una strana autostoppista, Mae, che lo porta da lei, in una casa rustica nel cuore della foresta. Si finisce a fare sesso bello pesante. Al risveglio Hall è solo, con il cadavere putrefatto della zia zombi. Mae è sparita, trascinata nelle segrete gotiche di un monastero pieno di satanisti che si fanno chiamare i Santi di Satana. I satanisti vogliono punire Mae per i suoi esperimenti sui cadaveri (tra cui la zia di Hall); inoltre devono difendersi da un acerrimo nemico, un vampiro senza pace e senza tempo che li vuole uccidere uno a uno. Tra i satanisti ci sono delle donne quarantenni e tettone, chiamate Sante di Satana Gertrud e Sante di Satana Franka. Insomma una gerarchia ben precisa e con ognuno con il suo bravo compito da apostata. Questi satanisti europei sono molto più compassati e regolari rispetto ai trip rock di Charlie Manson e i suoi confratelli nudisti e capelloni in dune buggy nella Valle della Morte. Charlie si accampava nelle cave minerarie abbandonate, faceva il ladro di auto, il santone, il maniaco sessuale plagiatore. Insomma un non perfetto American Way of Life. Charlie aveva un piano per reclutare i rifiuti della società e operare al di sotto della coscienza della cultura ufficiale. Le porte della percezioni si stavano per spalancare e i campus di Berkeley erano il luogo ideale per reclutare sballati. Charlie divenne il dio della scopata galattica. La musica, l’acido, l’erba lo fecero diventare un leader. Bancarelle psichedeliche, accozzaglie di biker e LSD non lo interessavano. Charlie aveva il suo mini pulmino e le sue ragazze. Vivevano ai margini, nelle stazioni di servizio abbandonate, ascoltando i Beatles col fonografo. Roman Polanski, Malibu Beach. Magical Mistery Tour, zingari, tendoni, la figlia di Angela Lasbury da scoparsi. Manson family nella via lattea delle vibrazioni d’odio e amore. Le ragazzine giovani scappate di casa finivano da Charlie che le accoglieva, provvedeva alla loro educazione, le costringeva ad inginocchiarsi, baciare la croce, sacrificare animali, bere il loro sangue e prepararsi alla battaglia finale contro i bianchi, contro i ricchi, contro il capitalismo barbarico delle multinazionali. Helter Skelter e pompini lisergici, come quelli della piccola Bo, altra trovatella scappata dalla casetta felice delle Barbie e approdata dinanzi al suo nuovo idolo. Charlie si fa praticare una fellatio e la ragazzina, per sbaglio, gli trancia il pene, ma Charlie se lo riattacca e la costringe a riprendere il servizio. Helter Skelter e visioni dal futuro. I negri in armi. Le rivolte in America che lo spingono a scappare altrove, magari in Italia, col suo bus in Italy, a leggere i comunicati delle Br ed appassionarsi alla morte dell’anarchico Pinelli, letta come segno della tensione anche nella vecchia Europa. Charlie in attesa del crollo delle istituzioni per impadronirsi del potere dei porci ricchi e democristiani. Charlie e la vagina spanata di Sharon Tate. E sulla vagina di Sharon mi ricollego ai satanisti da operetta nella Foresta Nera, meno lisergici però. Il vampiro, loro nemico giurato, prende una delle Sante e le immerge la lama nel retto fino all’elsa, poi le squarcia l’intero complesso genitale. Insomma, follia, delirio, cattivo gusto, politicamente scorretto, misogino, lisergico. Non vi piace? Tranquilli, Don Matteo non finisce con la decima stagione. La copertina di Mario Caria è roba strong, un orgasmo visivo. Da leggere con la parte finale strumentale di Us and Them dei Pink Floyd in sottofondo. Ancora poco e il buon Caria sarebbe andato a cercar lavoro da Renzo Barbieri!

Libro: 9; feticismo: 7; anti-morale: 10 e lode; delirio: 10; Copertina: 10; eros & thanatos: 9; impotenza: ?

Autopsia Edstrom del 1974, scritto da J. De Blasio. De Blasio è bravo e inocula una ventata di novità nella prosa passatista della collana. La scrittura è moderna, nervosa, plastica. Blue è una cantante che nasconde un orribile segreto; il bel mondo, la bella vita, il successo, non bastano a coprire il tremore, la vibrazione che le cresce nel cranio e le morde le viscere, il sesso, spingendola a trasformarsi, a diventare un’altra donna, non più bella, bensì grinzosa, spietata, cannibale. De Blasio si è riletto un pochino di Freud, di Satanik, del dottor Jekyll e Psycho di Bloch. Il libro risulta avvincente e morboso, ben calato in una New York moderna e scintillante. Nel finale sprofonderemo nel delirio di Blue, aiutati dalla scientifica spiegazione dello psichiatra Edstrom! Splendido romanzo e splendida copertina con Caria che ci mostra la dissociazione di Blue e gioca col nostro cine-occhio, disegnando i riflessi prismatici della luce sulla lente di un obiettivo immaginario.

Libro: 10; feticismo: 8; anti-morale: 7; delirio: 7; Copertina: 8; eros & thanatos: 9; impotenza: ?

Il serpente d’oro di Harry Small/Mario Pinzauti, edito nel 1979. Galles, castello, soliti parrucconi, un sir esploratore, una casa pieni di cimeli dal Messico, tra cui un serpente d’oro appunto. Nella magione parentado vario, tra cui cugini e nipoti. Il vecchio ha dedicato la sua vita allo studio delle civiltà tolteche e azteche. La coppia di cugini, marito e moglie, mirano all’eredità del sir, eredità che spetta al nipote prediletto. La coppia ha una figlia vergine e puttana, che inizia subito a farsi il servitore negro della casa. L’altra serva di colore (ma Pinzauti non si risparmia un “negro” nemmeno a pagarlo – oggi si farebbe subito un gazebo del PD in piazza per radiarlo dall’ordine… di cosa?) viene stuprata e cooptata dalla coppia libidinale. La ragazzina fa le sue porcate. I servi di colore sgozzano un gallo e maledicono tutti. La gente inizia a morire come mosche e due ispettori di Scotland Yard gironzolano per il parco senza concludere nulla. Pinzauti è in forma e ci dà dentro con le foie della viziosa ragazzina e del parentado e snellisce il dettato con una prosa veloce, sintetica. Potrebbe essere un thrilling morboso sulla falsariga de I vizi morbosi di una governante, poi nel finale si opta per il solito fantastico puro e insensato con finale sospeso che permette a Pinzauti di chiudere e non spiegare nulla, invocando forse i demoni del vuoto e della notte.

Libro: 9; feticismo: 8; anti-morale: 9; delirio: 7; Copertina: 6; eros & thanatos: 8; impotenza: ?

Antonio Di Pierro, nel 1973, scrive L’ultimo mago, romanzo denso e delirante, con una buona prima parte che pare strappata da un lacerto apocrifo di Pierre Louys, scrittore sublime e ossessivo. Di Louys, Di Pierro ha le bambine scafate ed espertissime di un college scozzese. Le poppanti vogliose sono attorniate dal solito corpo di docenti, alcuni bellocci, altri vecchi e impotenti (o pederasti). Le bimbe hanno le stigmate della lussuria marchiate nelle carni; i loro corpi sognano, nel profondo del delirio erotomane, di cancellare i residui della pedagogia dei sani principi e di abbracciare il culetto tondo e nudo delle compagne di letto. La loro sconcezza è impunita, libertina, quasi pura, non ancora corrosa dal sangue sifiliaco di un mostro occulto e sanguinario che si cela nel collegio e le spia col suo occhio iniettato di sangue genitale. Le bimbe prendono appunti di matematica, grammatica, buone maniere e cucito e si sollazzano tra loro con dialoghi d’alta puttaneria: l’impressione (come nei migliori romanzi pornografici) è di un mondo capovolto, intriso di corpi senza peluria e senza peli sulla lingua, corpi frenetici e libidinali, spiati costantemente dal pazzo di turno o dalla direttrice, castigata zitella col capriccio puerile del finto specchio installato nelle camerate d’impulsiva indecenza. E mentre la direttrice spia e usa il vibratore, l’utopia del collegio con licenza di fottere è disturbato dai rostri di metallo di un maniaco sfigurato e indecente, dotato d’un pene asinino che viola i giochetti linguistici di bimbe e insegnanti. Il resto è fatto da notti di novilunio (come per il mostro di Firenze), pozzi, sotterranei, evocazioni del maligno, frustate sulle chiappe e vedove nere che entrano nelle bocche dei più curiosi. Un’opera magna!

Libro: 9; feticismo: 10; anti-morale: 10; delirio: 10; Copertina: 7; eros & thanatos: 8; impotenza:10.

1977, l’anno del punk, per dire.

Aldo Crudo, uno dei pensatori della collana, licenzia il romanzo La palude dei morti viventi che tratta dei soliti temi: ambienti palustri da gotico scaduto, vampira assatanata di sesso (derivata dalle pellicole di quegli anni di Larraz e Franco), maledizioni medievali, eccetera. Potrei dire che la vampira è una sirena omicida, corpo dalla vulva irresistibile e anemico, succubo assetato dello sperma umano; non lo dirò, il romanzo è una cazzata e Aldo Crudo ha finito le cartucce dopo la prima metà del libro. Quel che mi interessa è quella copertina bastarda di Mario Caria. Bastarda perché tarda, del 1977 appunto, con un soggetto che si avvicina alle copertine analoghe (e maggiormente spinte) dei porno fumetti di allora. Un paesaggio cimiteriale, delle lapidi che potrebbero essere di cartapesta, oblique, un pezzo di cancellata ferrosa, un maniero fallico sullo sfondo e una donna (la vampira) adagiata nel camposanto, intenta a stracciarsi le vesti e lasciasi andare a una libidine necrofila. Forse prenderà uno dei teschi alla sua destra e li userà per atti osceni? I colori aciduli, violacei e sporchi delle tempere, creano un alone sospeso, un fotogramma congelato di qualche filmino in Super 8, perduto dagli anni ’70.

E qui, per ora, ci fermiamo.

Rimane una curiosità.

Una mia fantasia, piuttosto.

Immaginare cosa avrebbe potuto essere la collana se il baron blood Cantarella avesse avuto più coraggio, o voglia. In fondo i Dracula muoiono di consunzione. Si spingono oltre la soglia degli anni ’60 ed escono dai binari, già commercialmente macilenti, del gotico nostrano. I Dracula erano scritti e potevano spingersi oltre nel mostrare situazioni scabrose, pre-pornografiche, cosa che ai registi non era concesso (nemmeno al più pruriginoso, ossia Polselli). Non che vendessero molto i Dracula, ma quel che vendevano era per via delle donnine in copertina e della scritta “vietato ai minori di anni 18”, quasi una garanzia per i “Fantozzi” oscuri che si appostavano attorno alle edicole di periferia. La pornografia accennata e certi intrecci ormai logori ne segnano l’inevitabile fine nel 1981. Ed erano già “over” nel 1971. Gli stessi fumetti neri di Barbieri e Cavedon erano un’altra cosa, molto più spinti, sadici e deliranti, quindi moderni. Eppure nel 1973 (quando, ad esempio, esce L’ultimo mago di Di Pierro) usciva anche un libro, anzi un raccontino, di Alvaro Mutis che non sarebbe sfigurato nella collana o avrebbe potuto suggerire ai vari scrittori nuove vie, nuove strade da percorrere.

Il raccontino di Mutis è La casa di Araucaìma, oggi disponibile negli Adelphi in una traduzione sorvegliata di Carlo Brera e in copertina il Ritratto femminile di Julio Romero de Torres. Mutis scrisse il racconto quasi per scommessa con Luis Bunuel. Il sottotitolo del racconto dice: racconto gotico dei paesi caldi, ossia una terra caliente qualunque come Bogotà o Città del Messico. Un gotico tropicale, insomma, lontano dalle brughiere londinesi, o dalla Scozia tanto amata dai draculisti di Cantarella. La novità de La casa di Araucaìma non è solo nella locazione geografica; Mutis de-costruisce un racconto semplicissimo alla base di quasi tutto il gotico (italiano, americano, colombiano, messicano, francese, quel che volete voi): un tragico episodio, la morte di una giovane, la magione maledetta che rimane muta e solitaria, invasa dai venti e dalle grandi piogge tropicali.

La casa è scritta con uno stile ampolloso, conciso, vegetale. Non ci sono quasi dialoghi. Brevi capitoletti che riportano i nomi comuni dei personaggi (il guardiano, il padrone, il pilota, la machiche, il frate, la ragazza) o specificano chi sogna. Quasi tutti i personaggi della magione sognano qualcosa, ammazzano il tempo. Il padrone li mantiene tutti e, in cambio, chiede che si condivida la vasca da bagno con lui. Il padrone è un ex pederasta obeso, uno che veniva cacciato dai cinema dove adescava adolescenti. La machiche è una ex prostituta, tenera e malvagia al medesimo tempo, donna gigantesca e flaccida. Il frate è stato l’ultimo confessore di un Papa morente, e via così. I personaggi hanno tratti eccessivi, grotteschi, in ossequio al genere nero. Addirittura nell’hacienda c’è un servitore negro, Cristòbal, haitiano gigantesco e muscoloso che soggiace ai desideri della machiche e del padrone e, in segreto, pratica riti macumba eterodossi, ossia senza sacrifici animali e con lunghe alchimie vegetali. Ognuno di loro è incorniciato nell’hacienda, nella magione, nella casa, attorno alla quale si coltiva soprattutto caffè o agrumi. L’hacienda si chiama Araucaìma e nessuno ne ricorda più il perché. Un giorno arriva la ragazza e sconvolge gli equilibri eterni del luogo. La giovane stava girando un cortometraggio nei paraggi, aveva diciassette anni ed era vergine. La vedono arrivare con la bicicletta e ognuno cerca di instaurare una relazione con lei (quanti pornofumetti horror di Oltretomba, Terror, Lo scheletro hanno utilizzato un soggetto simile, e così i Dracula); l’unico che riesce a sedurla, strappandola a una prima attenzione rivolta verso il frate, è Cristòbal, il negro forzuto. La machiche però, per un senso di rivalsa, decide di vendicarsi e prima sottrae la ragazza dal desiderio inesauribile per il servitore, poi la rende complice dell’amore fra donne. A questo punto la ragazza cade in deliquio per la prostituta e se ne innamora pazzamente. Allora la machiche la scarica svogliatamente e la giovane si impicca a una trave della casa. Segue una pagina cara a tanti Dracula e Oltretomba, infittiti da delicatezze necrofile: il corpo della giovane viene portato nella camera del padrone e lavato con foglie d’arancio per ritardarne la decomposizione; intanto gli uomini dell’hacienda ne contemplano le nudità inermi e notano con inquietudine che i seni e il sesso della giovane si vanno gonfiando sempre più, marcando l’evidenza di quelle carni disponibili, rigide e ostentate. L’evento tragico scatena i fragili equilibri degli abitanti e invidie e gelosie porteranno alla morte violenta della stessa machiche e del pilota. Dopo aver seppellito la machiche nella medesima fossa della ragazza, uno a uno i personaggi della storia abbandonano la casa di Araucaìma. Ecco. Un gotico tropicale inedito nello stile, nel gusto di de-costruire i tempi del racconto (assai lineare, oserei dire orizzontale, anti-climax, affidato a una terza persona artificiosa e apocrifa), nel rifiuto dei dialoghi e in una concisione letteraria che sostituisce all’immedesimazione un gusto romantico per il naufragio, per il meraviglioso, quasi un sonno ipnotico surreale e decadente. Mutis esce dai rigidi confini della narrativa di consumo e costruisce un testo personale e d’autore, comunque pregno di quella materia bassa, sadica ed erotica, che i Dracula hanno sparso a piene mani. In Mutis la scrittura è metadiscorsiva, strumento per  spingersi oltre i limiti geografici e ravvivare con semplicità la fiammella del desiderio, dell’immaginazione pura.

Come hanno fatto i Dracula migliori, magari con molta meno libertà e fioritura. Forse perché a quegli scrittori là fregava solo di tirare a campare e non si ponevano il problema di sfruttare le possibilità offerte dalla collana e scrivere una loro casa di Araucaìma.

Davide Rosso