NUDE PER IL MOSTRO: UN’ORGIA DI “DRACULA” & “KKK” PER IL VOSTRO NATALE ROSSO SANGUE

Li ho scoperti per caso, da frequentatore assiduo dei mercatini dell’antiquariato del Piemonte orientale.

Il mio ambulante di fiducia, il signor Enio, ne aveva una buona cinquantina, perfettamente tenuti, letti da mani graziose di fanciulle degli anni Settanta, che vergavano il loro nome sul retro delle collane, agghindandole con miti fiorellini.

Vedendomi sempre a caccia di primizie dell’orrore, vecchi volumi polverosi che nessuno comprava mai e leggeva più, oppure ghiotto dei Fantomas tagliati e ri-tradotto/ri-scritti di Fruttero & Lucentini, il signor Enio me li mise sotto gli occhi, spiegandomi la storia di quelle collane, i Dracula, i KKK, e svelandomi il trucco degli autori italiani celati sotto pseudonimi demenziali.

Furono le copertine a stregarmi e spingermi all’acquisto.

Il signor Enio è uno di quelli onesti.

Li comprai, allora, per mille lire l’uno.

Su internet, oggi, li trovi magari a dieci l’euro l’uno.

Da allora, di mercatino in mercatino, ogni qual volta ne reperisco uno – magari mischiato/celato dai porno di Barbieri – lo acquistato.

Certo, per uno buono, interessante, magari te ne ritrovi una decina pessimi, eppure, tra Dracula e KKK, di quei romanzi ne saranno usciti 300.

Una cifra pazzesca se pensiamo sempre all’adagio che da noi il fantastico non attecchiva, se non nelle divagazioni colte di un Calvino, di un Buzzati, o un Arpino.

Tra quegli scrittori ve n’erano alcuni di gran pregio, dei veri master of horror all’italiana, e penso soprattutto a Frank Graegorius, piuttosto che uno come Franco Prattico.

Pochi ci hanno creduto, magari anche solo in alcuni romanzi.

Tuttavia, come nel cinema di genere di quegli anni, le cose riuscivano, anche senza troppe motivazioni o convincimenti interiori.

Andiamo a cercarne qualcuno.

Impolveriamoci le mani, spostiamo pile di volumi in disfacimento vegetale.

Vediamo cosa portiamo a casa per pochi euro…

Nei KKK è interessante notare che, proprio negli ultimi anni di vita editoriale della collana, fanno la loro comparsa alcune trame che paiono anticipare la nascita del thrilling all’italiana, genere tra i più importanti e originali della nostra cinematografia negli anni ’70. Vediamoli.

IL VOLTO E LA MASCHERA di Enisian Ronald Silvas, nome pomposo dietro al quale si nasconde (probabilmente) tale Silvano Alessandrini. La trama può già fornirci alcuni indizi. La riporto integralmente: “1600. La tranquilla vita di provinciale di Saint Cloud, paesino della Francia, è sconvolta all’improvviso dalle criminose gesta di un maniaco sessuale il quale penetrando di notte nel locale cimitero, profana le tombe di alcune donne, per poi abusare dei loro corpi. Gli indizi purtroppo sono vaghi, le prove inesistenti. Tuttavia la Polizia, seguendo una tenue traccia che la conduce al vicino manicomio criminale, riuscirà a catturare il turpe individuo e ad assicurarlo alla giustizia.” Bene, questo il trailer del volume. Prima di vederne alcuni aspetti, vorrei permettermi di citare alcune considerazioni semiologiche fornite dagli studiosi Antonio Bruschini & Antonio Tentori nei loro studi sul thriller del Belpaese. I due critici evidenziano, dal cinema di Argento in avanti, alcune “regole” non scritte e non dette che ritornano di pellicola in pellicola, anche in quelle di coloro che cercheranno di imitare il successo del regista romano. Le elenco sinteticamente.

Elementi del thriller italiano:

1-      il particolare rivelatore

2-      personaggi ordinari in situazioni stra-ordinarie

3-      l’assassino guantato, inarrestabile, dappertutto, sadico

4-      ambientazione tipicamente italiana (città/provincia)

5-      la famiglia borghese / il trauma infantile / madre – padre – figlio

6-      le radici infantili (disegni, pupazzi, musichette)

7-      ritualità dell’omicidio, ovvero una particolare cura nella messa in scena delle varie morti violente.

Sicuramente, chiunque di voi abbia visto anche solo un film thriller dei Settanta/Ottanta, ritroverà alcuni degli elementi sopra riportati. Bene. Queste caratteristiche elencate, differenziano moltissimo i plot da quelli precedenti, soprattutto dai modelli dei crime tedeschi, tratti dalle opere del più ecumenico Edgar Wallace. Argento crea una vera rivoluzione, abbandonando progressivamente le tematiche gialle (leggi logica e razionalità) per calcare la mano sugli aspetti più forti, visivi e di tensione. Inoltre la figura dell’assassino mascherato, della mano guantata, del rasoio, diventeranno un leit-motiv per questo tipo di film.  E i KKK? Il libro di Alessandrini, IL VOLTO E LA MASCHERA, è appena precedente all’irruzione di Argento sugli schermi italici, eppure certe idee sembrano già nell’aria. Infatti il romanzo presenta un assassino mascherato che uccide all’arma bianca ed è spinto ad agire da un trauma che lo porta verso la necrofilia. Certo, l’immaginario di Alessandrini è molto gotico (e l’ambientazione è tutt’altro che metropolitana o contemporanea) e guarda al Freda di “L’orribile segreto del dottor Hichcock” o al Bava di “Sei donne per l’assassino”, ma alcune cose colpiscono. Ad esempio le lunghe sequenze descrittive dedicate ai momenti che precedono le incursioni del maniaco, simili a certe attese e sospensioni del thrilling cinematografico. Anche certi ambienti sono tipici, come la clinica per donne isteriche attorno a cui gravita la vicenda. Certo, su tutto, rimane il sapore necrofilo della vicenda, l’apparato funebre su cui Freda, ad esempio, aveva costruito il suo film.

Già le cose cambiano con IL COLLEGE DELLA MORTE di Laura Toscano, libro uscito nell’aprile del 1971. Anche qui riporto la sinossi completa dal volume: “Un uomo è scomparso lasciandosi alle spalle il mistero di due delitti terribili quanto insoluti. Dopo lunghe ricerche la moglie di lui, una ragazza giovane e bella ed apparentemente innamorata, riesce a rintracciarlo in un antico castello del Galles, trasformato in un college di lusso dove l’uomo si è rifugiato facendosi passare per l’insegnante di disegno. A sua volta la ragazza si fa assumere al collegio, ma già dal momento del suo arrivo comincia un carosello di violenze e delitti, apparentemente ingiustificati che portano tutti l’identica firma della follia. Le ragazze del college vengono uccise barbaramente da un misterioso assassino che si accanisce con furore sui loro corpi giovani ed affascianati. Come è possibile collegare i due delitti di Londra con quelli del college se non attraverso il filo sottile dell’esistenze dello stesso misterioso personaggio? E’ quello che tutti cercano di capire e di scoprire dietro la complicata impalcatura del racconto, finché all’ultimo istante la verità si rivelerà agghiacciante, riportando tutti gli avvenimenti ad una dimensione di orrore insospettabile…”.

A mio avviso non è importante stabilire se Laura Toscano o gli scrittori dei KKK vedessero o meno certi film del periodo e tanto meno è interessante capire se certi produttori o registi abbiano “rubato” da questi volumetti o dai fumetti neri del periodo. Trovo maggiormente stimolante l’idea che certe cose fossero nell’aria e che, tra cinema, letteratura e fumetto di genere, ci fu una sorta di osmosi, di contaminazione, di sincretismo.

Il college”, più che ad Argento, ad esempio, sembra guardare ai suoi epigoni, in particolare al Di Leo de “La bestia uccide a sangue freddo” o agli “Orrori del collegio femminile” di Serrador. Del nuovo thriller ha i punti 2, 3, 6 e 7. Ma ancora una volta sono i particolari degli omicidi, il modo in cui vengono descritti che sembrano davvero un equivalente letterario di quanto sta avvenendo sugli schermi. Trascrivo brevemente alcuni passi: “Lilith si voltò in tempo per vedere avanzare verso di sé una figura sinistra e terribile che brandiva un lungo, acuminato coltello. Spalancò gli occhi, bloccata da una rivelazione improvvisa, senza neppure la forza di urlare. Ormai sapeva la verità, ma era troppo tardi per mettere gli altri sulla strada giusta… troppo tardi soprattutto per lei…”. Oppure: “(Mary-Ann) fu sul punto di tornare verso la finestra per chiamare aiuto, ma l’ombra scattò in avanti all’improvviso, chiudendole la bocca con una gran mano gelida, impedendole di urlare.” Il plot è poi impreziosito da una fauna di personaggi lombrosiani: professori che trescano con le alunne e sono fortemente indiziati, proprio come avverrà nel bel film di Dallamano “Cosa avete fatto a Solange?”. Nell’epilogo poi la vicenda si colorerà di toni ancora gotici, andando a pescare una citazione quasi letterale alla pazzia ereditaria del racconto degli Usher. “Il college” della Toscano è uno splendido pulp nostrano, capace di miscelare con gusto le tematiche del nero con quelle più nervose e moderne del thriller. Certo, è una pecca l’ambientazione sempre straniera (questo naturalmente avviene anche nella collana dei Dracula), quasi sempre inglese o americana, mai italiana. Purtroppo, e con questo mi ricollego all’inizio, gli pseudonimi e le ambientazioni risentono di quella scarsa fiducia che i produttori, gli editori e gli scrittori stessi hanno sempre riposto nell’idea di un fantastico autoctono.

JACK LO SVENTRATORE, opera di Simon O’Neil, ovvero Giorgio Simonelli, anche scrittore per i Dracula e poi sceneggiatore di Antonio Margheriti (suo è lo script del giallo/gotico “La morte negli occhi del gatto”). Anche qui troviamo un plot incentrato su un maniaco che vuole rinverdire i fasti dello sventratore ottocentesco. Siamo sempre a Londra, negli stessi quartieri, solo che adesso ci sono le automobili e la nebbia è sostituita dallo smog delle auto. Simonelli insiste molto sulle scene cruente, ben orchestrate e particolareggiate, con puntatine che, vista l’epoca, sarebbe giusto definire gore. Sesso e sangue si intrecciano con una sfacciataggine tale da farci dimenticare il cinema casto di Argento e le novelization su carta dei primi tre film commissionate a Nanni Balestrini. La prosa di Simonelli, il suo immaginario, sembrano puntare a una letteratura più feroce e moderna, fatta di frasi brevi e secche, vicina a quello che sarà “Un sogno di sangue” di Francesco Argento (alias Tiziano Sclavi), pubblicato da Campironi nel 1975 con distribuzione nelle edicole. Interessante anche l’idea di giocare la vicenda su pochi personaggi (praticamente tre), in modo simile a quanto fatto da Chabrol per il suo “Tagliagole”. Lo scioglimento dell’enigma è abbastanza inaspettato e apre a un finale sadico e politicamente scorretto, lontano da tanti epiloghi zuccherosi a cui la fiction televisiva ci ha abituato. Decisamente da riscoprire.

Un altro KKK psychothriller è ROSSE SOTTO LA LUNA di Giorgio Ricci, che non è come dire Giovanni Pascoli. Però. Rosse, come gli altri volumi, si presenta a noi ormai sgualcito dalle letture e dal cattivo stato di conservazione. Le sue pagine sanno di sporco e muffa, come una sala indefinibile d’una volta, quando accanto a te poteva sedersi un tizio pelatino con le mani affondate nell’impermeabile. La trama è indifferente: siamo a una letteratura quasi casuale, incosciente del proprio andamento automatico, improvvisato su un canovaccio che conoscono anche i sassi: il sadico pervertito, i poliziotti da barzelletta, i sir inglesi dalla facciata vittoriana e irreprensibile e dietro trombatori a catena di minorenni, un detective sagace che risolve il tutto con uno stratagemma da prima elementare. Però. Gianni Ricci, che non è come dire Luigi Pirandello, ci restituisce un prodotto nostalgico, d’un onirismo decadente condito di delirio sadiano che sa di bettole, vicoli sordidi e dadaismo involontario.

Un KKK del 1970 di Jannet Mills: MACABRUS, ma qui è un’altra storia, oltre lo psycho-thriller. Jannet vuol dire Laura Toscano, una nostra signora della letteratura italiana, che meriterebbe uno studio approfondito. MACABRUS ha una copertina verticalmente divisa in due zone di senso: una occupata da una donnina pin up accovacciata, con le lunghe gambe tornite a solleticarci fin quasi il naso, l’altra, limitata da una nube rossa, sotto l’egida di un boia scarlatto armato d’ascia. C’è un boia scarlatto nel romanzo? No, ovvio. Cornovaglia, brughiera desolata, mugghiare di mare. Reginald è un ricchissimo nobile scozzese e, con la moglie Clarice, vive nel suo gotico castello. Lui è un aristocratico roso dalla noia; alle spalle, prime esperienze sessuali da voyeur, zoofilia con la cagnetta bretone, infine la discesa nell’impotenza. Clarice, coltivata in un’asfittica austerità puritana, lontana dalle presenze ossessive del sesso zozzone, brucia le sue voglie nel ricordo del cugino perverso e della sorella ninfomane; nel profondo, le rimane un senso di schifo e sublimazione autoerotica. Con loro vive un monaco folle, Primus, rintanato in un laboratorio alchemico/fantascientifico costruito nella pancia del castello; Primus è un magnetista, un emanatore di fluidi psichici che tengono in scacco la coppia di sangue blu. Primus è quasi sul punto di scoprire la vita eterna, intanto, sadicamente, si trastulla frustando Clarice, mentre la nobildonna si masturba. Poi tutto crolla: arrivano dei teppisti prezzolati da Reginald il cornuto. E’ la sua banale forma di vendetta per il sadismo del frate. Segue tortura a morte del mistico con qualche strumento medievale da Margheriti movie. Infine Reginald elimina la teppa (che per tutto il tempo si è fatta beffe della sua impotenza, regalando una gang-bang alla moglie), Clarice e dà fuoco al castle. Siamo appena a pag. 30! Dopo passano gli anni, Reginald si rifà una vita (nuova moglie, due belle figliolette minorenni), và a vivere a Londra. Tutto sembra procedere per il meglio, quando le sue figlie immacolate si comportano come le petites di un Pierre Louys scaduto nel vino più sozzo. Entrano in scena nuovi personaggi spenti, grigi, senza rilievo e per questo fantastici. La girandola continua con un nuovo monaco/scienziato, tale prof. Erebus, che pare essere la reincarnazione di Primus, invece è solo un simpatico necrofilo che inietta delle fialette a delle ragazzine per farle cadere in una trance simile alla morte e poi, dopo la sepoltura, riesumarle e zomparle alla meglio. La scrittura della Toscano è un moloch di complessi, sensi di colpa, frustrazioni, cattivo gusto, pornografia, lezzi schifosi, surrealismo e scrittura automatica, nel senso di una scrittura infittita di tutta la documentazione gotica del decennio precedente, rielaborata con una esasperazione stilistica che mescola ogni cosa e la riduce a un universo auto-referenziale, senza tempo, ciclico, eterno da porno fumetto da edicola. Un libro del genere, mastodontico nelle sue 120 pagine, sarebbe piaciuto a un Breton diciottenne o a un neurotico come me.

Max Dave, L’OMBRA ASSASSINA, nella collana I Racconti di Dracula del 1967, porta avanti lo psychothriller casereccio con uno stile rasciugato, senza fronzoli: un maniaco che sventra le sue vittime e un’ambientazione contemporanea. Dave (Pino &/o Carlo Belli) gestisce le sue 100 paginette col pilota automatico: dialoghi prevedibili, descrizioni concise e ancora dialoghi per smazzare le cartelle; delitti, indagini all’acqua di rose, ancora delitti e personaggi – figurina di cui dimentichiamo tutto appena chiuso il libro. Eppure lo stile asciutto fa filare senza intoppi, colorando la seconda parte della storia con una divagazione scientifica presa dal mito dell’uomo invisibile. Interessante segnalare anche uno stratagemma narrativo copiato pari pari dal film del 1956 di Reginad Le Borg: “Il sonno nero del dr. Satana”. Una lettura piacevolissima.

Frank Graegorius, appunto.

Da leggere, come questi romanzi pulp, con un sottofondo azzeccato.

Io, oltre alle colonne sonore del gotico di un Micalizzi, di un Nicolai, di un Rustichelli (forse troppo enfatico, dodecafonico), di un Umiliani (il più moderno, geniale, malinconico senza sfracellarti i coglioni), di un Nicolosi, di un De Masi (bravo senza strafare), di un Lavagnino (lieve e ironico), opto per certe dissonanze moderne, suoni crudi e cupi che piovono dal vento dell’oltretomba: penso ai Sunn O))) e al loro capolavoro mastodontico (capolavoro perché rappresenta una sorta di sintesi del loro modo di intendere la musica e un superamento della forma canzone metal – o rock, o pop, o altro – in qualcosa di ineffabile e rasserenante, un jazz oltre il jazz, dolce e chiaro e senza vento, nell’ultima indispensabile track Alice) Monolith&Dimension, o ai Secret Chiefs 3 di Le mani destre recise degli ultimi uomini, colonna sonora paranoica di un reale film immaginario ispirato ai manifesti surrealistici e sadici del nostro cinema gotico/thriller, o ancora alle inquietanti e inesplicabili sonorità dei Fantomas di Delirium Cordia, o a un qualunque disco dei Demdike Stare.

Frank Graegorius.

Sempre Bissoli, in una edizione a tiratura controllata e limitata a cura della Dagon Press (Studi lovecraftiani), ha speso delle belle e pesate parole su di lui e sul perché vada considerato con un occhio di riguardo.

Frank era Libero (Samale), un medico/psichiatra, uomo colto e bibliomane, interessato dai grimoires e dalle scienze psichiche. I libri che Samale scrive negli anni Sessanta sono intrisi della sua cultura superiore, del suo gusto per l’occulto, il folklore e il fantastico. Nei suoi racconti si respira un’atmosfera palpabile, densissima, intrisa di fole, racconti popolari e un senso dell’ignoto ben costruito e dosato.

Di Samale vediamo la bella copertina di ANIMA NERA, un Dracula del 1968, ambientato in una Scozia sublunare che rimanda, in realtà, a un’Italia fascista, autarchica e arretrata, contadina, immersa in paludi, bonifiche e fame nera.

ANIMA NERA ha tutti i sintomi del gotico italiano.

La reincarnazione, il peso del passato sul micro-mondo, l’eterno ritorno, il patto col diavolo, la superstizione, la scienza (positivista) e la tentazione dell’occulto per vincerne i limiti, le passioni brucianti appena trattenute dal rigido protocollo dei costumi, l’amour fou, il sadismo, il folklore sul tema del vampiro (qui gula), il corpo della donna come Giano bifronte, strega & vergine immacolata, o i fugaci e appropriati riferimenti al Crowley della Golden Down, piuttosto che la tematica della maledizione che pesa sulla famiglia di nobili e messe nere per finire. Tuttavia, è bene specificarlo, rispetto ad altri, appunto un Prattico, Graegorius non crea un testo feticcio, un guazzabuglio di intuizioni buttate a cazzo, no; la sua scrittura, nei momenti migliori, è controllata, pacata, volta tutta a costruire, più che stupore, un’atmosfera densa e avvolgente, una dimensione altra, fantastica, simile alla staticità di certi esperimenti anti-narrativi di Fulci (penso all’Aldilà). Graegoius non la butta in caciara o nel trash, bensì prova a forgiare un universo del racconto in completa antitesi col mondo moderno in cui il volume viene distribuito. A sorreggere la struttura, preziose descrizioni architettoniche che, si sente, sono meditate e curate. Graegorius riesce a dare una dimensione dello spazio in cui si muovono i personaggi.

Il campanile della parrocchia dominava i tetti, come un pastore il suo gregge. Dietro l’abside della chiesa biancheggiavano le lapidi e le croci del cimitero parrocchiale, simili ad agnelli sperduti fra l’erba.”

Si parlava di Prattico, ecco intravedo un suo Morton Sidney, lo afferro, lo spolvero: UNA VERGINE PER IL MOSTRO. Ne accenno più per la copertina, magnifica, che per il libro, piacevole e godibilissimo, ma senza quel tocco atmosferico (da Carpenter in Fog, per capirci) del Graegorius migliore. Anche qui abbiamo il paesino arroccato della Cornovaglia (Scozia, vecchia Inghilterra, eccetera, sublimazioni dell’arcaico contadino di un’Italia pre-Olivetti, pre-Piaggio, pre-Borletti, pre-Candy, pre-Ariston, pre-fornelli, cucine, mobili dal design industriale, pre-Geografie urbane, pre-piccole aziende, flessibilità, paternalismo e basso costo del lavoro) sublimato da tocchi espressionistici con tanto di barche di pescatori analfabeti (i nostri braccianti meridionali), gorghi infidi (il governo DC), scogliere rombanti (le cariche della polizia del governo Tambroni), un cielo eternamente plumbeo (il Movimento Sociale Italiano e il suo congresso a Genova nel 1960), i boschi secolari (la politica degli USA nei confronti dell’Italia, paese in bilico nella scacchiera anticomunista).

Gotico, sintomi del gotico, ideologia marxista…

VAMPIR MOSTRO DI SANGUE di Pericle Vander, alias Red Schneider, alias il giudice Giuseppe Paci, autore tra i più prolifici dei Dracula. Paci poi mi è particolarmente caro, visto che ha iniziato i suoi uffici per conto del ministero proprio nella pianura, a Vercelli, magari cominciando a piantar la cambretta del gotico nei sotterranei del castle – tribunale inquisitorio della mia città.

Comunque.

Scozia.

Ancora Scozia di notti incantevoli a fior di borro, accese sulle scoline sabbiose e sulle certose decrepite di immondi malefici. Ancora una famiglia aristocratica di immobili proprietari terrieri su cui grava il fardello del passato, della colpa immonda. Un mostro tra gli avi, un vampiro dall’aspetto mostruoso, truccato in abiti ottocenteschi da gran signore del vaudeville, un baggeo di nobili che gironzolano nei sotterranei e giocano coi vecchi strumenti di tortura, attori girovaghi ad allietarli.

Due o tre ore alla sera, dopo le sentenze, guardando la Lettera 22. Tutto qui. Non ci sono segreti. Non avevo trame complesse e, quando incominciavo a stendere un nuovo romanzo, non sapevo affatto cosa avrei scritto. I personaggi e le storielle venivano fuori per i fatti loro e, in un certo senso, non mi davano confidenza”.

Queste le parole di Paci raccolte per noi da Luigi Cozzi nel masterpiece scritto con Bissoli sull’argomento.

Non mi davano confidenza i personaggi.

Un’asserzione perfetta, per un perfetto scrittore di genere, impegnato nell’agone dattilografico delle cento cartelle in una settimana per sbarcare il lunario e non per vincere il Nobel.

La scrittura come agonismo privato, monetizzabile finché si vuole, ma effimera, fine a se stessa, in fondo sempre a perdere.

Scrivere non per immedesimarsi, per lasciare una traccia del proprio ego, per commuovere i gonzi, ma per negarsi, per annullarsi nelle marionette del testo. Scrivere per immaginare e non per lasciare un messaggio. Un’etica vicinissima al cinema di Franco e Rollin. O di un Garrone Sergio.

Il baggeo aristocratico preso nella sua letterarietà, senza pretesti o presupposti, solo un gruppo di idioti da scannare e disarticolare come se fossimo dentro un albetto del memorabile Wallestein. Uomini e donne forgiati nell’opprimente e familiare ambiente di darwinismo sociale; gli uomini sono sani, forti, vigorosi e irrobustiti dal canottaggio e lunghe marce alpine, le donne nervousness sterili dal saldo sentimento religioso e le sottane che grondano impudicizie. Per entrambi l’aldilà è un limbo ignoto, un chiodo fisso da setacciare colla ricerca medianica e i rischi che comporta. Vampir, il mostro omonimo di sangue, novello Wallestein che strappa, scopa, morde, è una garanzia per certe forme di sopravvivenza oltre la morte. Insomma c’è qualcosa, pare dire il viso deforme della creatura. Più che Lombroso, sarà Freud a far piazza pulita di Vampir, relegandolo a mero spettro dell’inconscio, orpello d’una strana forma di misticismo obsoleto.

Vampir il mostro che strappa, scopa, morde, ingoia.

La copertina sigilla.

La fanciulla vittoriana che dorme sonni probi, forse tagliati dalle lame del proibito e s’avvolge nei nastri vellutati del baldacchino; il mostro s’erge dai sudari trasparenti delle tende, allungando una mano dallo spleen vermiglio sulla celibe candela. Immane.

IL CAVALIERE DI LEGNO di Irving Mathias che è come dire antaniblinda, perché dietro c’è Stanis Mulas (forse uno scappellamento a destra?). Dunque: la base è I lunghi capelli della morte di Margheriti, col pastorello, la strega lasciva che lancia la maledizione sugli scherani del nobile locale. La strega, of course, muore atrocemente e torna dal limbo per seminare pesti e miserie. Gli scherani, intanto, nel castellaccio manzoniano, ci danno dentro a più non posso con orge e stupri da manuale. Tuttavia l’incipit è quasi ecloga sulla natura che rinasce e la vita bucolica che scorre serena sui campi, all’ombra degli alberi, alle sorgenti dei ruscelli incorrotti. Il Cavaliere Di Legno non è un meritorio industriale con patacca sul petto e fabbriche nell’Est europa, bensì un personaggio dalle suggestioni calviniane, mescolato alla scrittura georgica di Mulas, che magari ri-pensa alla sua Sardegna. E da queste premonizioni agricole, sporcate dalla lussuria dei potenti di turno, si scivola in un contesto imperfetto e quotidiano, mix di carestia e deep crisis non più d’età ellenistica, bensì omaggio onnisciente al nostro medioevo finanziario. Mulas manovra da buon burattinaio i fili narrativi, semplificando i tessuti senza perdere il colore dei rapporti sociali, aspri & crudi, d’una polarità binaria che oscilla dai latifondisti che gozzovigliano, ai villani che li sostituiscono nello sperpero indifferente. Il Cavaliere Di Legno è un vessillo funereo, un jongleurs professionels, un fantoccio di carnevale gigantesco, effige del vecchio, del brutto, della colpa che grava sul contado e avvelena i campi, impedendone il risveglio primaverile. Ed è questa cornice folklorica dai tratti essenziali e precisi che regala pregio al romanzo. Il resto sono le mutande color carne della madamigella in copertina.

L’OMBRA ROSSA CHE UCCIDE di Red Schneider, alias Giuseppe Paci in spolvero.

Romanzo psycho-geografico costruito sulle rive dell’Atlantico del Nord, ma poteva essere una apocatastasi calabrese, per dire; la trama è assorbita dai flussi/flutti delle parole, dalle descrizioni prolisse, magnifiche, semi-circolari di un gotico cruciale, grottesco, impregnato da quella contrapposizione tra cose moderne e cose medioevali, barbare, selvagge, ostrogote.

Il gotico è questo: un contrasto acceso tra il positivo e il negativo, tra l’efficienza fordista del mondo civilizzato e la crudezza pagana di un pre-mondo antico posseduto dai furori di un’antropologia dell’immaginario popolare, fabbrica di figure (ex voto di mostri, vampiri, licantropi, eccetera) commestibili sul piano del miracolo, dell’evento stra-ordinario.

Vi è gotico là dove la magnificenza scintillante del contemporaneo (coi suoi simboli, vedi l’i-Pod) diviene illusoria, regressiva e crolla sotto il peso delle colpe passate in giudicato. Dunque il gotico come roba di “crisi” del moderno, di-sconnessione (legittimamente rappresentata dal lucido e basso orizzonte, dalle descrizioni ripetute sul rombo d’acqua e aria, sul fischio tumultuoso del vento, sul frangersi impazzito delle montagne liquide sopra al paesaggio, sopra ai burattini/marionette dei personaggi, sopra al lettore, incapace di orientarsi in una tale immensità di circonstances urgentes, malefici, amour fou bestiale) di un mondo globale che si scopre (2007/2008 – e io, mentre tutto franava e nessuno di noi ne avvertiva ancora gli effetti, mi ricordo, come fosse oggi, che ero in macchina e guidava il Vacc(h)ino verso Belgioioso, al castle gotico della piccola editoria) fragilissimo dinnanzi alle patologie acute della krisis; krisis come scelta, decisione che non c’è, che non viene; krisis come malattia, immobilismo, stato d’eccezione tra la (non) vita e la morte dellamortiana.

Avercene di Red Schneider, uno che scriveva la sera, col culo, senza scalette, plot, idee, aiutato solo dalla chiarezza automatica del proprio orecchio interiore, refrattario al correggere, correggersi, al lucidare le parole, al riprenderle entro le cornici di una storia, point du jour.

UNA FOSSA BIANCA DI LUNA di Frank Graegorius.

Il messaggio automatico, come specchio appannato d’alito, è quello di una psicologia del gotico giocata non sui personaggi, quanto sull’impulso verbale, sullo sforzo surrealistico di costruire una scrittura medianica che, nel procedere della lettura, annulla le coordinate del lettore, trascinandolo nel mondo sub-lunare, inconscio, senza suoni.

La regressione del moderno, in questo caso un 1924 danubiano, s’apre sul ciangottare del vento, cioè un verbo improprio, metaforico, che reca al vento un suo parlare storpiando le parole, in questo caso, cinguettare lieve sugli usci, nei cortili di un mondo contadino, abbruttito dalla guerra appena trascorsa. Il vampiro che s’aggira tra i cadaveri dei soldati è poi figura antichissima e funeraria, paura primitiva del morto che ci ruba l’anima, ci succhia la vita. Il revenants del dottor Samale tuttavia esibisce un cappello a cilindro da mostro in frac; altri succhia sangue costruiscono ritualità carnevalesche che anticipano il Rollin fantasy de “La vampira nuda” del 1969.

La cosa non deve sviarci: il mondo descritto nelle minuzie linguistiche è una involuzione della mentalità d’Occidente, dove la tradizione contadina teme un mondo altro, onnipresente e invasivo (splendido l’accenno al cuneo di biancospino per trafiggere il morto nella bara), pauroso perché altro.

La copertina, poi, è così bella.

Mario Pinzauti, Harry Small, LA TETRA CASA DAI MATTONI ROSSI ci ri-propone quella componenta vittoriana fatta di ambiente familiare triste e severo e una gioventù oppressa dalle colpe dei padri, la cui condotta, ispirata dai sacri testi, non diviene mai strumento per cancellare le storture sociali, i vecchi privilegi feudali, aristocratici, ora borghesi, domani globalizzati.

Scienza e religione, materialismo, ateismo, guidano questi personaggi vittoriani nei labirinti dello spettrale, tra le biografie di un JeKyll in sedicesimo, di un Dracula da operetta, di un Frankenstein da porno stazione.

Aggiungiamoci anche la melanconia e le tare ereditarie e il gioco è fatto.

Castelli infetti e permanenti tendenze al sadismo.

Metempsicosi, tabule rase, middlemarch e finta moralina da gentleman con la patta gonfia.

Il corpus sanum dalla mens sana vittoriana è un fallimento morale, una concezione già pienamente materialistica, da azienda totale, delle cose, della carne giovane da palpare e consumare.

I mali che minacciano i giovani, più che il comunista, l’anarchico, il socialista – che sgomentano l’astratto senso morale della borghesia europea (ancora indecisa tra la città e la campagna) – sono la crudeltà deliberata, l’ozio e la disobbedienza alle leggi dei padri, quest’ultima non tanto per ristabilire un ordine di eguaglianza, bensì per sostituirsi ad essi e gozzovigliare al loro posto, con la medesima veemenza predatoria.

In Pinzauti, tutto questo bla bla bla è nel personaggio di Edward York Junior e di suo padre, sir Edward York.

Entrambi dediti ai giochi erotici con le medium, alla mondanità inquieta del magnetismo, che nella sonnambula trova la propria schiava di letto e delitto.

Insomma, grande Pinzauti!

Davide Rosso