SERGIO BISSOLI, UN AUTARCHICO NEI PAESI STREGATI

Sergio Bissoli è molte cose: scrittore, saggista, filosofo, bibliofilo, personaggio lui stesso, oppure, al medesimo tempo, non è nulla, o quasi, perché di lui si parla ancora poco, troppo poco, direi quasi che non sia sufficientemente conosciuto e considerato per il suo reale peso.

Di Bissoli si conosce principalmente il contributo saggistico dato per la riscoperta dei “Racconti di Dracula”, storica collana di romanzi horror che ha avuto una longevità editoriale, in Italia, sconosciuta a qualunque altra collana.

Sergio Bissoli ha fondato tutta la sua opera su quei romanzi, cercando di riesumarne lo stile e lo spirito, riadattandolo al suo contesto e alla sua esperienza. Questo è il cappello introduttivo. Si dirà ancora che di Bissoli sono disponibili molti libri, alcuni auto pubblicati, altri meritoriamente editi. Il più importante è il volume della Hypnos Edizioni (credo, al momento, la migliore casa editrice specializzata che abbiamo nell’italyetta), volume curato con l’acume bibliografico di un classico latino/greco da Giuseppe “Urania” Lippi. Ed è Lippi che per primo, con profondità di analisi, traccia il profilo del Bissoli, autore fuori dal tempo, fuori tempo massimo, che stride con la prosa cinematografica e visiva di oggi, che non collima con lo splatter e la pornografia e direi anche con la psicologia autoreferenziale (pippe mentali) novecentesca.

Autore filosofico, alimentato da un senso primario, primitivo del mistero; scrittore naturale, mesmerico, alla ricerca di una scrittura capace di fermare il tempo o influenzarlo, impedendogli di continuare a cancellare le tracce di un mondo contadino animistico, perennemente ai margini del boom economico. La lunga introduzione di Lippi al volume “I paesi dell’ombra” della Hypnos è esaustiva e non staremo qui a ripeterla. Nel leggerla avrete un primo assaggio di ciò che è Bissoli. Dicevo, anche personaggio e per capirlo basta leggersi la sua autobiografia contenuta nel volumone. Scritta in maniera naif, bambinesca, scorrevole come un ruscello di acqua primaverile. Bissoli scrive di sé con gusto, senza eccedere mai nel volgare (ma il volgare è bandito dalla sua squisitezza umana e da tutta la sua opera), eppure con una sincerità commovente, quasi religiosa. La vita di Bissoli è degna di un romanzo alla “Dracula”,  o di un romanzo piccolo borghese alla Svevo, con la figura dell’inetto novecentesco sul proscenio. L’inetto di Bissoli è un uomo incapace di trovare l’amore di una donna, di crearsi una famiglia, e di risolvere i suoi eterni problemi lavorativi. L’uomo Bissoli è adolescenziale e saggio al tempo stesso, eternamente giovane e subito vecchio, appunto fuori dal tempo, lontano dalle mode. Bissoli cresce con la paraphernalia del genere nella testa, e vive nella profonda campagna veneta, respirando l’aria di mistero dei fossi, degli anfratti, dei vecchi casolari. L’opera letteraria trae linfa vitale dal medesimo humus da cui Pupi Avati ha forgiato le sue pagine migliori. Il gotico padano di Bissoli però è più evanescente, sfumato, meno calcato o ricalcato, rispetto agli amatissimi “Dracula”(che erano maggiormente legati alla tradizione del gotico cinematografico degli anni sessanta, in particolare quello italiano – europeo). Ben sintetizza Lippi, sempre nell’intro della Hypnos, sulla collocazione nel campo del gotico dello scrittore veneto. Bissoli, per l’aspetto di un fantastico morbido, senza le deformazioni grottesche dello splatter, è accomunabile a certo Buzzati, eppure se ne discosta moltissimo per l’entomologia dei suoi personaggi, di certo non borghesi, con lavori stabili e remunerativi, ma campagnoli, quasi sempre umili o umilissimi. Buzzati era un uomo di mondo, nutrito dai viaggi e da una frequentazione d’elite, Bissoli ha consumato  la sua intera esistenza nei campi attorno alla sua Cerea veneta, nutrendosi di parole letterarie, esperienze vissute e racconti orali (vastissime le sue letture che abbracciano quasi ogni campo dello scibile umano, così come le sue competenze linguistiche, ad esempio l’inglese, anche se poi mai veramente messe in atto).

La collocazione geografica dei suoi paesi stregati è incerta (nomi e personaggi sono sempre anglofoni), anche se è evidente che dietro c’è il Veneto, Cerea, continuamente trasfigurata, riscritta, re-inventata. Tra le numerosissime opere del nostro vorrei brevemente soffermarmi su alcune. Della vita ho già detto: leggetela, se vi piacerà è chiaro che vi piacerà anche la fiction bissoliana, se non vi piacerà, lasciate perdere. Il mondo di Sergio è autoreferenziale e personalissimo, o lo si ama, o no.

In Bissoli la figura femminile è centrale. Un corollario di donne bambine perdute negli anni, che si ritrovano, cresciute, fuori dai bar di paese, o a camminare nelle vie, ormai lontane, indifferenti all’inetto. La donna bambina, dunque, gli amori impossibili tra personaggi già adulti e cenerentole povere, spesso storpie o handicappate. Pulsioni pedofile, raggelate da una sessualità stilizzata, fanciullesca, che si limita alla contemplazione platonica, senza scopofilia.

Le donne, quindi, amori impossibili dietro ai quali i vari doppi bissoliani si struggono e si consumano nell’utopica speranza di trovare l’amore, di “essere una cosa sola”. A questo si aggiunga il folklore paesano fatto di rituali nascosti e fole, un impasto di antropologia funebre che ricorre da racconto a racconto. Anche l’eterno scorrere delle stagione assume una chiara funzione espressiva: l’inverno pesa dolorosamente sull’animo dei personaggi bissoliani, così come l’estate (tanto cara a scrittori ugualmente atmosferici come King, Bradbury, Baldini) diventa infinita, colorata dai campi di mais, dal sole traboccante, dagli insetti. Il ciclo estate/inverno partecipa all’ossessione verso la morte, evento apocalittico che cancella la persona e il suo mondo, i suoi ricordi: in questo Bissoli vede un abisso spaventoso da cui solo la scrittura ci può parzialmente riscattare; scrivere i libri come baluardo, simulacro, di sopravvivenza, immortalità; la scrittura come possibilità di poter catturare di nuovo la vita, darle una nuova veste, farla rivivere, almeno nella memoria di un altro lettore depositario. Scrittura come pratica di imbalsamazione della vita.

“La ragazza del paese stregato”, tra le prime opere del nostro, targata 1975, anche se in Bissoli la datazione è molto fluida, in quanto le riscritture sono continue nel tempo, ha già chiaro quanto detto finora. E’ la morte a dar via alle danze, come da buon gotico, la morte di una zia lontana a cui segue un viaggio con il cugino verso il paese stregato popolato da un’umanità senza tempo, pietrificata in un wonderful ottocentesco da “Città dei mostri” cormaniana. Segue, senza troppi preamboli, l’incontro con la donna-ragazza Mirta e subito il peso ostile del paese si fa sentire chiudendosi su di loro, insinuando dolorosi tabù e premonizioni. L’ostilità verso gli innamorati è un tema ritornante in Bissoli, che concepisce il sentimento dell’amore in maniera utopica, da adolescente, come la possibilità, poi vana, di creare un mondo a parte, dove gli altri e il mondo esterno sono banditi. La Vielledel racconto citato diviene per la coppia, una sorta di Inshmounth lovecraftiana coi suoi coacervi di bruttezza lombrosiana. Bissoli procede con la sua scrittura di elio, senza trucchi, semplice, spogliata di artifici retorici o effetti. L’accumulo dell’atmosfera, l’accumulo in generale di pensieri, idee, spunti, crea il libro, per il resto affidato a una struttura poco aristotelica, concepita al di là dei corsi di scrittura creativa coi suoi bei canovacci, personaggi delineati, spiegati fino alla noia. In Bissoli non vi è la separazione tra un primo atto, un secondo, un terzo. Le opere o sono brevissime o di media lunghezza, difficilmente indicizzabili sotto novella, racconto o romanzo. Bissoli è un autarchico nel vero senso della parola, un autodidatta, uno che non segue modelli accademici. I suoi sentieri narrativi nascono dalla pancia di una letteratura di genere molto citata, ma per nulla letta, nemmeno dagli specialisti. Bissoli, giova ricordarlo, nasce come lettore compulsivo dei “Dracula”, romanzacci da stazione sfogliati per lo più dai cummenda degli anni sessanta, attirati dalle donnine nude in copertina e da una certa aria pre-pornografica. Bissoli invece li ha amati più di quanto li abbiano amati coloro che li hanno scritti. Lui si è cibato di quelle atmosfere, dei castelli, delle maledizioni, delle donne fatali, dei deformi e li ha sposati coi suoi argini, fossi e casolari veneti. Li ha sposati coi suoi limiti e le sue paure. Li ha resi veri.

Ciò che lo muove è l’atmosfera, resa da una scrittura descrittiva, lontana dai plot pieni di avvenimenti incalzanti (esempio i “Segretissimo” Mondatori…)…“A un incrocio la fiammella di un lume a olio tremola davanti all’effigie incupita di un santo, chiuso in una nicchia. Il vento fa oscillare i tralci secchi di un glicine davanti alla grata di ferro, producendo rumori come di passi”. Di periodi come questo è piena l’opera. Un altro capolavoro assoluto bissoliano è Ketty e il problema (contenuto nella meravigliosa raccolta Psycho women). Ketty di cui si innamora l’ennesimo doppio di Sergio, uno che passa le sue giornate tra i campi in lunghe passeggiate solitarie o al circolo dei Poeti, tra bicchieri di vino, partite a carte e discussioni sulle donne o l’aldilà. Ketty non è la donna bambina cortese, ma è come se lo fosse. Ha 42 anni, anche se di cervello è un poco fulminata. Ketty con profonde ferite nell’anima… Ketty e il suo problema inquietante. Senza svelare nulla diremo che la storia d’amore si consuma nell’arco mortifero di un inverno, quando abbiamo detto che l’uomo bissoliano si sente ancora più solo, indifeso nel suo bisogno di perdersi dentro un abbraccio femminile. E questo è Ketty: un viaggio nel pianeta uomo-donna e sull’impossibilità ultima del loro incontro. A nessuno è dato di sfuggire al proprio destino individuale, di sfuggire alla morte, al pensiero di essa. Ogni cosa sembra già condannata, ogni cosa porta dentro di sé il pensiero della sua fine.

Anche un altro lavoro, “Sole di mezzanotte” reca traccia di questa medesima sfiducia, anche se, nella chiusa sorprendente, si trasforma, ribaltando l’ennesimo amore tradito, in una ricerca spirituale, ascetica, dove la prosa si apre al mondo, alla sofferenza degli altri, che ci impone di non chiudere gli occhi, di non girarci da un’altra parte.

Racconti gotici”, l’opera massima di Sergio Bissoli, racchiude come un prisma, tutte le componenti del suo lavoro e le decanta in piccolissime prove, micro racconti geniali e originalissimi, dove il fantastico nasce dall’improvvisazione, da piccole intuizioni o spunti reali. Perché, anche nei momenti più irreali, le storie posano sempre sulla campagna attorno a Cerea, paese natale di Sergio, e hanno quasi sempre il medesimo incipit con lui che gira a piedi o in bicicletta tra i campi e incappa, o sente o vede qualcosa che lo proietta dentro il gotico padano.

Si sarà capito, spero, che la grandezza di questo autore sta nell’essere lontanissimo dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Bissoli non è materia per un lettore nevrotico iper tecnologico, bisognoso di computer e i-phone a ogni pagina. Nemmeno è materia per un lettore frettoloso, bisognoso di continui escamotage. Bissoli non segue le convenzioni, le strategie narrative, i colpi di scena da corso di scrittura alla Holden. La sua opera vive su un bisogno urgente e sincero e lo asseconda, pur col rischio (sperimentale) di sbagliare, di non essere pubblicato, di essere relegato nel fosso appestato degli auto pubblicati. In Bissoli rivive il meglio di quello che la nostra letteratura di genere è stata e non mi riferisco ai Buzzati, agli Sclavi e agli Ammaniti.

Penso a Max Dave, Frank Graegorius,  Morton Sydney, Red Schenider, Laura Toscano, Margherita Guy.

Penso che Sergio Bissoli sia il migliore scrittore vivente di letteratura fantastica che abbiamo oggi in Italia.

Penso che la lettura di un suo lavoro abbia l’incedere narcolettico di un Jean Rollin.

Per me è molto, forse tutto.

Per gli amanti di Tarantino, prego, accomodarsi all’uscita.

Davide Rosso