LEZIONI DI… GIALLO

Quello che vi presentiamo con grande orgoglio è un articolo che non potete assolutamente perdervi e che per certi versi è un’anteprima assoluta, almeno per il nostro paese: si tratta infatti dell’introduzione alla riedizione della GUIDA AL CINEMA GIALLO E THRILLING ALL’ITALIANA di Tentori e Bruschini in uscita presto per le Edizioni Profondo Rosso e scritto da Luigi Cozzi, che ci ha dato il permesso di pubblicarlo integralmente, come regalo per il nostro settimo compleanno.

Un regalo veramente prezioso, visto che ci permette di fregiarci della sua firma su queste pagine, cosa che riteniamo un grande onore.

Parlavamo di anteprima per l’Italia, perché, come ci ha raccontato lo stesso Cozzi, “era in origine un mio articolo apparso su un quotidiano del Brasile, dove l’anno scorso m’hanno fatto fare all’università alcune lezioni sul giallo. Il pezzo è stato scritto nel 2013 per il maggior quotidiano del Brasile del Sud, in occasione del seminario tenuto da me all’Università di Porto Alegre, il capoluogo di quella regione che è la più ricca e progredita del Brasile, dove ci sono tanti ammiratori di Dario Argento e dei gialli italiani anni Settanta. E’ anche la regione brasiliana dove vive il maggior numero di italiani”.

E a questo punto non indugiamo oltre e godiamoci questo graditissimo regalo!

Davide Longoni

 

“Giallo” è una parola italiana che indica un colore ben preciso, quello denominato “yellow” in inglese, e in Italia da quasi cento anni questo termine viene usato anche per indicare quelle opere, sia di tipo letterario che cinematografico, nelle quali i protagonisti (siano essi poliziotti o persone comuni) svolgono delle indagini per scoprire chi sia stato a compiere alcuni delitti: questo particolare significato attribuito alla parola “giallo”  è entrato nel costume italiano a partire dal 1929, quando la maggiore casa editrice di quell’epoca (e anche di oggi, la Mondadori) ha iniziato a distribuire settimanalmente nelle edicole gli allora nuovi romanzi polizieschi di autori quali Edgar Wallace e Agatha Christie usando come segno caratteristico per distinguerli immediatamente il colore giallo usato come sfondo per ogni copertina. La gente ha cominciato così a chiedere all’edicolante dapprima “Voglio il nuovo libro giallo”, poi più semplicemente “Compro il giallo” e infine questo stesso termine, “Giallo”, è entrato nell’uso comune della nostra lingua quale sinonimo ufficiale per indicare qualsiasi opera, sia al cinema che in letteratura, nella quale ci sia qualcuno che svolge un’indagine o indaga per smascherare un assassino.

Siccome però i libri “gialli” pubblicati ogni settimana per decenni (ancora oggi sono in vendita nelle edicole italiane) da Mondadori e poi dai suoi  tantissimi imitatori sono quasi tutti opera di scrittori anglosassoni o francesi (Simenon con le storie sul commissario Maigret), il nostro pubblico si è convinto che quel tipo di vicende, sia in letteratura  che anche al cinema, non potessero essere scritte o realizzate mai da autori italiani: per esempio a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso l’editore Mondadori ha provato a pubblicare alcuni romanzi “gialli”, anche molto belli, scritti da autori italiani ma l’insuccesso totale l’ha costretto a sospendere il tentativo: eppure uno di quegli scrittori era addirittura Sergio Donati, che in seguito avrebbe sceneggiato i famosi spaghetti-western di Sergio Leone con Clint Eastwood!

(Curiosamente, però, sempre a partire da quello stesso periodo numerosi editori più piccoli hanno cominciato a pubblicare moltissimi romanzi gialli scritti da italiani, ricorrendo però all’espediente di stampare sulla copertina non i veri nomi degli autori bensì degli pseudonimi americani: e questi volumi, paradossalmente, vendevano decisamente bene…)

A rompere all’improvviso questa avversione da parte del pubblico al giallo fatto dagli italiani provvede però il grande successo ottenuto nel 1959 da un film, Un maledetto imbroglio, tratto da un singolare libro di un letterato illustre, Carlo Emilio Gadda, il quale con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1947-57) aveva usato lo schema narrativo del romanzo d’indagine poliziesca  per scrivere un testo audace e sperimentale (oggi ritenuto dai critici un gioiello letterario) utilizzando una lingua che non era l’italiano corretto e colto dei giornalisti e degli autori ma lo slang, il dialetto più illetterato e  “basso” di Roma, lo stesso che si parlava da parte della gente comune  nella vita di tutti i giorni.

Nel 1959, per l’appunto, uno dei più grandi artisti del cinema italiano, Pietro Germi, che nel 1962 sarebbe persino arrivato al premio Oscar (l’Academy Award) negli Stati Uniti in America con il suo lavoro successivo (Divorzio all’italiana interpretato da Marcello Mastroianni), porta sullo schermo il romanzo di Gadda realizzando Un maledetto imbroglio, che piace moltissimo a tutti in Italia perché è un film “giallo” bellissimo, vibrante  e struggente nel quale il regista stesso interpreta in un modo magistrale il personaggio principale del commissario Ingravallo, un uomo solitario e molto sensibile che indaga a fondo per scoprire chi abbia ucciso una ricca signora della classe media romana.

Un maledetto imbroglio incassa tantissimo nei cinema italiani e qualche sua imitazione comincia quindi a vedersi sugli schermi e persino nelle librerie, dove all’improvviso il pubblico non sembra essere più totalmente ostile se un romanzo giallo risulta essere opera di uno scrittore italiano, tanto che presto esplode addirittura il caso di un autore nazionale, Giorgio Scerbanenco, all’opera con scarso successo sin dalla metà degli anni Trenta, che all’improvviso, cambiando registro e sfornando non più gialli d’imitazione ma opere originali, dure, violente e realistiche ambientate tutte in Italia, conquista il pubblico e acquista una grande fama.

Pressochè contemporaneamente, nel campo del cinema, un nuovo regista, Mario Bava, che negli Stati Uniti (ma non in Italia) ha ottenuto un vasto successo popolare grazie al suo primo film (un horror intitolato La maschera del demonio, 1960), ottiene da due distribuzioni americane l’incarico di girare a Roma La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964), due thriller per quel periodo particolarmente estremi, ma nei quali grazie al suo indubbio talento visionario oggi riconosciuto in tutto il mondo questo autore riesce a codificare in immagini per la prima volta alcune di quelle caratteristiche che saranno riprese, ampliate e perfezionate dieci anni dopo dai film di Dario Argento: l’ambientazione metropolitana molto insolita evidente soprattutto in La ragazza che sapeva troppo, per esempio con l’uso “diverso” della grande scalinata di piazza di Spagna resa minacciosa e inquietante dall’uso accorto dell’illuminazione oppure con il ricorso alla conformazione architettonica molto inquietante esistente in luoghi romani poco noti quali quelli di piazza Mincio al centro dell’unica piccola sezione in stile liberty di Roma, il Quartiere Coppedè… oppure con la rappresentazione estremamente compiaciuta dei feroci delitti commessi da un maniaco (rappresentato sempre vestito tutto di nero con l’ impermeabile e i guanti neri) nell’altro film già citato e diretto da Bava, Sei donne per l’assassino, pellicola esemplare quest’ultima perché è costituita in pratica soltanto da sei lunghissime sequenze che mettono in scena unicamente l’esecuzione di altrettanti delitti commessi  ai danni di belle ragazze disinibite.

Questi due film girati da Mario Bava a Roma su esplicita richiesta da parte del mercato cinematografico americano non hanno però successo in Italia e nessuno li nota, tranne un giovane vice-critico cinematografico che aspira a fare il regista, Dario Argento, il quale poco dopo l’inizio della seconda metà degli anni Sessanta sta cominciando a lavorare anche come sceneggiatore per Sergio Leone. Dario Argento vede più volte sia La ragazza che sapeva troppo che Sei donne per l’assassino e riflette molto sulla nuova forma di rappresentazione estremizzata nonché italianizzata del thriller americano inventata da Bava, né più né meno di come già da molto lo stesso Argento meditava sulle ragioni dell’imprevisto successo riscosso nel nostro Paese dal bellissimo film giallo-poliziesco di Pietro Germi Un maledetto imbroglio.

Il primo film scritto e diretto da Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo, rappresenta infatti la fusione delle caratteristiche innovative principali contenute sia in Un maledetto imbroglio che in La ragazza che sapeva troppo e Sei donne per l’assassino. Ed è proprio con questa prima pellicola di Argento (girata nel tardo 1969 ma distribuita nel febbraio del 1970) che nasce ufficialmente il cinema giallo-thrilling moderno all’italiana, quello che immediatamente ottiene un enorme successo di pubblico affermandosi perfino negli Stati Uniti e in tutto il resto del mondo, generando fino al febbraio del 1975 (quando esce Profondo Rosso) almeno 100 altre pellicole tra imitazioni e variazioni, spesso a loro volta artisticamente riuscite e commercialmente fortunate.

Ma è riduttivo scrivere che dietro a Dario Argento, a L’uccello dalle piume di cristallo e alla sua formula innovativa e vincente carica di sesso, violenza e delitti atroci commessi a Roma da un serial killer ci siano soltanto le ispirazioni (ad esempio la figura del commissario) e i suggerimenti ambientali e stilistici raccolti dalle precedenti opere di Pietro Germi (Un maledetto imbroglio) e Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo; Sei donne per l’assassino). No, se si vuole veramente comprendere le ragioni del successo mondiale pressoché istantaneo ottenuto nel 1970 da L’uccello dalle piume di cristallo bisogna riconoscere che con quel film il suo autore va ben oltre le opere “gialle” pur notevoli che l’hanno preceduto: Dario Argento infatti non ha ancora trent’anni quando nel 1968 scrive il copione di L’uccello dalle piume di cristallo (il film sarà poi girato nella tarda estate del 1969), e non a caso quelli sono i mesi della grande rivolta giovanile in Francia e in Italia. Dario Argento è mosso quindi da una grande voglia di rompere con tutti gli schemi abituali e con tutti i luoghi comuni più banali e ripetitivi del cinema commerciale. Sono questi gli anni, non scordiamocelo, nei quali il cinema americano più istituzionale perde colpi su colpi e penetrazione in tutto il mondo, perché Hollywood non riesce a stare più al passo con i mutati gusti del pubblico giovanile.

Ma Dario Argento è giovane come lo sono ormai la maggior parte degli spettatori nelle sale, e così gli viene conseguentemente naturale l’attuazione di quella rivoluzione artistica che in pochissimo tempo (meno di cinque anni in Italia: dal 1970 al 1975) lo trasformerà in una vera star nazionale nonché nel maestro del nuovo cinema ipertecnologico, quel cinema di nuovo tipo che di lì a breve vedrà sbocciare a Hollywood il talento di un altro giovane rivoluzionario d’eccezione, Steven Spielberg.

Ma non possiamo comprendere davvero le origini della profonda rivoluzione portata con L’uccello dalle piume di cristallo nel cinema “giallo” da Dario Argento se non ricordiamo anche la sua lunga frequentazione con un maestro del cinema, Sergio Leone. Per più di un anno, infatti, a partire all’incirca dalla seconda metà del 1967, Dario Argento, insieme a un altro giovane autore italiano promettente come lui (Bernardo Bertolucci, in seguito vincitore del premio Oscar con L’ultimo imperatore), ha trascorso ogni giorno molte ore nella grande villa posseduta nel quartiere romano dell’Eur da Sergio Leone (regista di fama mondiale grazie al successo planetario dei suoi western Per un pugno di dollari e Il buono, il brutto, il cattivo) per strutturare e scrivere insieme a lui la vicenda del suo nuovo film, quello che alla fine del 1968 diventerà il suo capolavoro conclusivo, C’era una volta il West con Henry Fonda e Claudia Cardinale. E il rapporto con Leone è profondo: per Dario Argento non è solo un maestro, ma un vero idolo, il regista perfetto che lui vuole assolutamente riuscire ad imitare in tutto e per tutto, tanto che anche quando io inizierò a frequentare personalmente Dario, a partire dall’inizio del 1970, il giovane regista romano mi parlerà in continuazione della sua bellissima e lunga esperienza non solo di lavoro ma pure quasi di vita assieme a Sergio Leone, al punto che, quando interrogherò Dario sul senso di certi gesti particolari e inconsueti da lui compiuti durante le riprese di 4 mosche di velluto grigio nel 1971 (dove io debutterò come suo aiuto-regista dopo aver scritto con lui  il film), Argento mi spiegherà, un po’ a disagio: “Be’, faccio così essenzialmente che l’ho visto fare a Sergio Leone sul set”.

Ma Dario Argento non ha preso soltanto qualche gesto e alcuni modi di fare o di dire da Sergio Leone: no, in comune tra Dario Argento e Sergio Leone c’è molto, ma proprio molto di più. Argento in quel suo periodo giovanile era come una spugna straordinaria in grado di assorbire e personalizzare qualsiasi cosa, e pertanto da Sergio Leone ha appreso la tecnica di cominciare a lavorare su un film senza avere mai nessun punto fermo e senza darsi nessun limite come genere. Mi ha riferito che Leone gli diceva sempre: “Pensa ai film che ti sono piaciuti di più, alle scene che hai visto e che vorresti aver scritto tu. Bene, rivedi quei film, riguarda quelle scene, e se ancora ti piacciono, se ancora ti emozionano, bene, vedi se puoi trovare un modo di ripeterle, anche in un modo diverso, per infilarle nella storia che stiamo cercando di scrivere noi. Se si adattano bene a quello che facciano, se funzionano anche nella nostra vicenda, ottimo… teniamole e costruiamoci il resto intorno. Altrimenti lasciale andare e cerchiamo qualcos’altro”. 

Per questo, Dario ricorda che il lavoro di scrittura del copione di C’era una volta il West si è svolto a lungo, in una prima fase, per lui e Bertolucci semplicemente cercando film amati da rivedere o libri già apprezzati da rileggere o da far scoprire all’altro, in cerca di spunti e di momenti interessanti che si potessero inserire in una vicenda western quale doveva essere ovviamente (dato il titolo che c’era già…) quella di C’era una volta il West, il film che Sergio Leone li aveva chiamati a scrivere. E tra i tanti film e libri che Argento e Bertolucci hanno preso in considerazione durante la loro “preparazione” alla scrittura di C’era una volta il West, non sono mancati ovviamente i romanzi gialli… e infatti, anche se forse non l’avete notato, quel magnifico film di Sergio Leone è proprio strutturato come un giallo. Alla base dell’intera vicenda di C’era una volta il West c’è infatti un grande mistero da risolvere: perché i “cattivi” offrono grandi quantità di denaro prima e poi sono addirittura disposti a compiere una strage, pur di impadronirsi di una piccola e squallida fattoria sperduta ereditata dall’insignificante personaggio interpretato da Claudia Cardinale?

La trama di questo film, un grande western epico, si snoda infatti non secondo gli stilemi di quel ben preciso genere cinematografico bensì adottando invece la tecnica propria dei film giallo: è una trama piena di enigmi, dove ai misteri si succedono le sorprese, mentre le situazioni e persino gli stessi personaggi si capovolgono di continuo, proprio come succede di regola nella letteratura e nel cinema thrilling più tipico. Insomma, C’era una volta il West è costruito come un giallo, ma è un film western. E un bellissimo film western, per la verità.

In altre parole, si potrebbe dire che Dario Argento (con la collaborazione di Bernardo Bertolucci) ha portato il giallo nel cinema di Sergio Leone. Ma a essere sinceri si dovrebbe dire che in realtà tra questi due grandi autori di diverse generazioni (e generi cinematografici) è avvenuto come un interscambio: Argento ha dato la struttura del giallo a Leone, mentre Leone ha dato a Dario, che lo considerava il suo maestro, forse ancora di più: la violenza, per esempio, ma anche la ricerca per l’inquadratura difficile, l’immagine insolita, la macchina da presa intesa come protagonista e poi, altro insegnamento non trascurabile, l’utilizzo particolare della musica. Straordinarie e fondamentali sono infatti le melodie create da Ennio Morricone per Sergio Leone, suo amico carissimo fin dai tempi dell’infanzia, ma altrettanto particolari, funzionali e suggestive sono le musiche composte dallo stesso Morricone per il film d’esordio di Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo, musiche che sono ancora oggi così moderne ed efficaci che Quentin Tarantino le ha riprese (o “citate”, se preferite…) anche per un suo recente film thrilling.

Ecco, il giallo all’italiana inventato nel 1970 da Dario Argento con L’uccello dalle piume di cristallo nasce, ovviamente, dallo straordinario talento personale e originale di questo giovane regista, ma anche e soprattutto dalla sua interpretazione di tutte queste componenti o fonti d’ispirazione che fin qui ho citato: Pietro Germi (Un maledetto imbroglio), Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo; Sei donne per l’assassino) e l’intero cinema di Sergio Leone.

Sì, Sergio Leone soprattutto. E Dario Argento, del resto, questo non l’ha mai negato, visto che in più di una occasione ha dichiarato: “Con L’uccello dalle piume di cristallo ho voluto fare un film giallo, ma non come quelli vecchi o classici, all’inglese con il morto che viene ucciso fuori scena e di cui si intravede solo il cadavere… no, non così, ma come forse invece un film giallo l’avrebbe girato Sergio, se avesse dovuto farlo lui al posto mio”.

Queste parole, in effetti, contengono tutta l’essenza (e la storia) del giallo all’italiana che impazza sugli schermi soprattutto tra il 1970 e il 1975, ovvero tra l’uscita di L’uccello dalle piume di cristallo e quella di Profondo Rosso. In mezzo, ovviamente, visto che il pubblico accorre in massa a vedere queste pellicole, ci sono tanti altri film italiani molto simili o comunque di imitazione, alcuni dei quali rivelano anche registi pregevoli o comunque interessanti (Sergio Martino, Pupi Avati, Lucio Fulci): nel complesso, una stagione d’oro per il cinema italiano, sia artistica che commerciale, in quanto queste pellicole piacciono molto pure all’estero e vengono vendute bene e ripetutamente in tutto il mondo.

Poi, a partire all’incirca dal 1976-77, la violenza e il sesso nei gialli all’italiana raggiungono il massimo e, soprattutto, arrivano al punto oltre il quale non si può più andare, un po’ come anni prima già era successo per il genere degli spaghetti-western inventati da Sergio Leone. Per spingersi oltre, infatti, per offrire sempre più sangue e budella al pubblico, occorre abbandonare il giallo e cambiare addirittura di genere: si entra in un altro filone, quello dell’orrore.

E, di nuovo, sarà sempre Dario Argento a indicare per primo a tutti la nuova strada da percorrere al fine di oltrepassare ogni limite precedente: lo farà all’inizio del 1977, quando con l’uscita nei cinema di Suspiria nasce il moderno cinema horror italiano.

Ma questa dell’horror è un’altra storia, anche se gran parte degli autori sono gli stessi…

Luigi Cozzi