FABIO ZANELLO

Appassionato di cinema praticamente da quando è nato, Fabio Zanello è uno dei migliori saggisti ed esperti di cinema in circolazione. Le sue monografie sono sicuramente fra le più interessanti e importanti del settore e riescono sempre a dare una visione completa e totale di ogni argomento trattato, perché Fabio, oltre a essere un grande studioso, è anche un metodico ricercatore e non si ferma davanti a nessun ostacolo per riuscire a fornire in ogni suo saggio tutti i dettagli possibili e immaginabili. Ma soprattutto, in tutto quello che fa, ci mette sempre una grande passione, che riesce a trasmettere e condividere con chiunque decida di “sintonizzarsi sulle sue frequenze”. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo per voi.

COMINCIAMO CON UNA DOMANDA DI RITO. CHI È FABIO ZANELLO?

Un uomo che convive con due passioni talvolta contrapposte anzichè amalgamate: quella dell’insegnamento di lettere e quella per il cinema. Si contrappongono, perchè entrambe richiedono disciplina e dedizione, a volte la prima lotta per sopravanzare la seconda. La mia cinefilia è stata abbastanza precoce, colpa di un padre fotografo che mi portava fin dalla tenera età a vedere le riedizioni dei classici al cinema prima dei restauri in 4 k di oggi. Ho una personalità in cui coesistono due missioni: quella di docente alle medie e di divulgazione del cinema. Che io usi la scrittura, i social oppure organizzi un cineforum, la critica e il dibattito su un film è per me sempre condivisione, mai sterile esercizio di erudizione o autocompiacimento. Mi piace trovare anche una connessione mentale e sentimentale con i miei sostenitori e lettori sulla rete, ho un grande rispetto per loro. Onestamente non mi interessano le bizze da divismo hollywoodiano di certi miei colleghi che tengono la distanza da chi li apprezza o peggio ancora lo trattano con altezzosità o boria patologica, se non c’è una comunanza di gusti cinematografici. E questo è davvero un dramma: la critica come genere letterario deve anche ristabilire un rapporto con il suo pubblico. Il divismo lasciamolo agli attori per favore.

COME HAI COMINCIATO A SCRIVERE DI CINEMA E COME E’ NATA QUESTA TUA PASSIONE PER LA SETTIMA ARTE?

E’ la logica conseguenza dettata dall’alchimia fra le migliaia di visioni, le lezioni universitarie e i seminari di cinema dei docenti Rondolino, Prono e Tomasi e di molteplici letture non solo ascrivibili alle pubblicazioni di settore. Penso che il critico debba essere onnivoro sia come spettatore che come lettore. Dopo tutto è anche lui un giornalista, che sia iscritto o no all’albo. Divorare miliardi di film non è dunque sufficiente. Sono convinto che la critica in generale sia un genere letterario. Chiaramente quando la visione diventa un rituale quotidiano e   cominci a leggere tante pubblicazioni di cinema, questo sortisce su di te un effetto domino, così decidi di metterti alla prova. Ho cominciato come tanti con l’autoproduzione, sai le fanzine, che ho cominciato ad inviare a quelli che contano. Una volta capitò in mano ad una nota critica che mi riportò alla realtà con grande schiettezza: “Lo spirito della tua rivista è fanzinaro, dovresti approfondire meglio il linguaggio filmico, se vuoi analizzare puntualmente i film”. Ho fatto tesoro di quel suggerimento e quando un copia della fanzine fu pedissequamente copiata da ignoti e lasciata nell’atrio del cinema torinese Charlie Chaplin, la rabbia lasciò il posto allo stupore. Ho pensato: se ti hanno copiato gli articoli, vuol dire che devi perseverare”. Ho fatto mia così una frase di Gianni Brera: “Non scrivere mai quello che il lettore si aspetterebbe. Scrivi quello che pensi. Non preoccuparti di piacere a tutti. Se non altro, perchè non si può”.

VUOI PARLARCI DELLE TUE PRODUZIONI SAGGISTICHE PRECEDENTI, IN PARTICOLAR MODO DI QUELLE A CUI SEI PIU’ LEGATO?

Ho sempre considerato il mio primo vero libro la monografia su “C’era una volta il West” di Sergio Leone, ossia la mia tesi di laurea, che in realtà è stata pubblicata qualche anno dopo, nel 2003. Oltretutto per molto tempo è stato l’unico libro dedicato ad uno dei capolavori del regista. I libri su Tomas Milian, scritto in collaborazione con Giorgio Navarro, più quello su Tobe Hooper per Falsopiano, mi hanno permesso di rompere il ghiaccio, in quanto mi hanno rivelato agli addetti ai lavori, anche se hanno avuto delle genesi totalmente diverse. Voglio dire che, se la monografia su Milian è nata da una committenza dell’editore Igor Molino Padovan, quella su Tobe Hooper è stato un progetto più agognato e personale, lungamente inseguito, una tesi di laurea mancata, un’ossessione che ho voluto condividere con altri sostenitori dell’autore texano. Sono molto legato anche ai lavori su Enzo G. Castellari per Profondo Rosso, concepito mesi prima del revival quentintarantiniano di Bastardi senza gloria, anche per l’amicizia duratura con questo cineasta, su un idolo come Don Siegel, su Nicolas Winding Refn, su Richard Lester e su Claudio Caligari, piemontese come me peraltro.

Senza citare necessariamente altre monografie potrei dirti che anche certe prefazioni mi hanno soddisfatto e non poco, visto che sono il peggior critico di me stesso. Mi riferisco a quella scritta per l’amico Stefano Loparco per la sua biografia dedicata a Klaus Kinski per il Foglio Letterario oppure a quella inclusa nel booklet del cofanetto dedicato alla saga di Rocky, pubblicato dalla Cinemuseum.

RECENTEMENTE HAI PUBBLICATO PER LE EDIZIONI PROFONDO ROSSO IL VOLUME “IL CINEMA DI SERGIO SOLLIMA”. CE NE VUOI PARLARE?

Devo dirti che questa era una di quelle idee che sono rimaste nel cassetto per troppo tempo, ho aspettato che maturasse per bene e di poter rivendicare un primato anche in questo senso.

COME MAI QUESTA SCELTA E COSA TI LEGA A QUESTO REGISTA?

Prima di tutto un rapporto umano in quanto ho conosciuto Sergio Sollima a Udine in una rassegna dedicata all’Eurowestern. Così siamo rimasti in contatto per anni, mentre il progetto del libro dunque prendeva sempre più forma dopo le nostre memorabili chiacchierate. Sfortunatamente assorbito da altri lavori e committenze, sono riuscito a concretizzarlo, quando lui è passato a miglior  vita, impegnandomi a fondo per andare oltre lo stereotipo del western e del Sandokan televisivo, che ha avuto sicuramente un peso consistente sulla mia generazione e formazione. Credo che un altro fattore decisivo sia dovuto al fatto che Emilio Salgari ha vissuto gli ultimi anni della sua vita nella mia Torino e per noi “indigeni” è indubbiamente motivo di grande orgoglio.

Ho fatto anche questo ragionamento: non mi interessava dissezionare solo i lungometraggi per il cinema ma anche gli altri lavori televisivi, domandandomi “ma è esistita per lui una vita dopo l’epocale Sandokan?”

CHE DEFINIZIONE DARESTI IN POCHE PAROLE DI SERGIO SOLLIMA?

Un intellettuale della vecchia guardia in bilico fra critica cinematografica, impegno politico e sceneggiatura imprestato ai generi cinematografici, dopochè ha scelto di passare dietro la cinecamera, dove si è dimostrato un professional con picchi autoriali.

QUAL E’ IL TUO FILM PREFERITO E QUALE INVECE QUELLO CHE RITIENI IL PEGGIORE DI SOLLIMA?

Ne scelgo due, poichè preferisco avere anche una riserva. Per il grande schermo sia Revolver perchè è assai vicino al polar francese per estetica e contenuti sia Un diavolo nel cervello, totalmente agli antipodi rispetto alle altre produzioni thriller italiane dei Settanta, mentre in TV il suo Uomo contro uomo ha prefigurato la serialità televisiva di Gomorra, filmata non a caso dal figlio Stefano, come è noto. Il peggiore invece a mio avviso non esiste, piuttosto userei l’aggettivo minore, per definire altri lavori per la RAI come Passi d’amore, che mi sembra lontano anni luce dalle corde di questo regista.

SCENDENDO NEL DETTAGLIO, QUAL È STATA LA PARTE PIÙ DIFFICILE NELLA RICERCA DEL MATERIALE?

I materiali più difficili da reperire sono stati quelli relativi al saggio di Sollima “Cinema in U.S.A.” delle Edizioni A.V.E. che, dopo la prima uscita del 1947, non è stato più praticamente ristampato e visionare gli altri lavori televisivi del soggetto in questione. L’unico cruccio è quello di non aver potuto vedere Il figlio di Sandokan, perchè giace nei magazzini RAI dal 1998.

IL VOLUME CONTIENE ANCHE GLI INTERVENTI DI ALTRI AUTORI: DI CHI SI TRATTA E COME E’ STATO SUDDIVISO IL LAVORO?

Sì, ritroviamo la struttura collettanea di altri miei lavori e stavolta hanno aderito al progetto collaboratori consolidati come Aurora Auteri, Chiara Ricci, Giuseppe Cozzolino, Antonio Pettierre, Luca Servini, Mario Gerosa, Valentino Saccà e giovani di belle speranze come Francesco Carini.

UNA GRANDE CHICCA DEL LIBRO E’ SICURAMENTE L’INTERVISTA A KABIR BEDI, IL MITICO SANDOKAN DELL’IMMAGINARIO TELEVISIVO ITALIANO. VUOI RACCONTARCI COME E’ ANDATA E COSA TI E’ RIMASTO PIU’ IMPRESSO DI QUESTO INCONTRO?

Tutto è cominciato quando ho inviato una mail al suo agente. La sua risposta da Mumbai è arrivata dopo un mese e mezzo. Mi era successo un fatto analogo durante la lavorazione della monografia su Don Siegel, quando l’attore Andrew Robinson mi ha risposto, quando stavamo per andare in stampa. Tornando a Kabir Bedi, oggi anche stimato produttore, lui ha confermato quello che tutti sospettavamo: cortesia, disponibilità e pazienza. Per preparare l’intervista ho recuperato alcuni dei film che lo avevano reso noto in patria come Manzilein Aur Bhi Hain (1974) e Kachhe Dhaage (1973), oggi autentici classici di Bollywood ed effettivamente molto interessanti. Anche per sfatare  la leggenda di un  Kabir Bedi attore alle prime armi e diventato star all’improvviso, prima di Sandokan aveva recitato infatti in una decina di produzioni cinematografiche. Oltretutto Davide, pensa che ho avuto la fortuna di vedere Kabir di persona all’anteprima torinese di A/R Andata + Ritorno di Marco Ponti, un film girato qua in Piemonte nel 2004: un uomo davvero statuario e principesco.

VISTO CHE ULTIMAMENTE CAPITA SEMPRE PIU’ SPESSO DI LEGGERE MOLTI AUTORI, SIA EMERGENTI SIA AFFERMATI, ANCHE IN FORMATO DIGITALE, SECONDO TE QUALE SARA’ IL FUTURO DELL’EDITORIA? VEDREMO PIAN PIANO SCOMPARIRE IL CARTACEO A FAVORE DEGLI E-BOOK O PENSI CHE QUESTE DUE REALTA’ POSSANO CONVIVERE ANCORA PER LUNGO TEMPO?

Più che convivenza fra le due realtà, parlerei piuttosto di una lotta del cartaceo per non farsi sopraffare dal digitale. Lo so che i quotidiani vendono di meno, perchè ormai tanto la gente legge le notizie sulla rete. Solo che vorrei ricordare a tutti che internet è piena di fake news. Personalmente adoro il cartaceo, rigirarmi un libro fra le mani, maneggiare la carta, sentirne il profumo e il peso. Il cartaceo coinvolge tutti i sensi, mentre l’e-book solo la vista ed eventualmente l’udito e chiamatemi pure passatista! L’e-book ti fa calare le diottrie, passi un sacco di tempo davanti al pc. Ho anche rifiutato di collaborare ad un e-book e lo dico senza rimpianti.

IN QUESTI ANNI DI ATTIVITÀ HAI SPESSO AVUTO UNA PREDILEZIONE PER IL GENERE FANTASTICO. CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA TEMATICA?

Più che per me, oggettivamente il fantastico come l’horror è spesso una metafora per delineare ed esplicitare certi mutamenti sociali, politici e storici. Pensa per esempio a come il capolavoro Strange Days di Kathryn Bigelow, con la droga audiovisiva dello SQUID, abbia prefigurato l’attenzione morbosa e voyeuristica verso la vita altrui, che permea oggi sia Facebook che Youtube. Oppure a come Philip K. Dick in “Real Life”, uno dei racconti che compongono l’antologia Electric Dreams, affronta il tema del doppio tramite la realtà virtuale. O come certi capisaldi del new horror dei Settanta di registi come Romero, Hooper, Craven e Carpenter siano diventati con il tempo dei documenti storici sull’America di quei tempi con una forza cosi dirompente, che certi documentaristi si sognano. Insomma non basta creare mondi alieni, omicidi efferati o tecnologia futuristica per stimolare la riflessione del pubblico, ci vuole anche questo. Tutto dipende dall’acume di registi e sceneggiatori.

QUALI SONO I TUOI SCRITTORI PREFERITI?

Jean-Patrick Manchette, Milan Kundera, Dino Buzzati, Edward Bunker, Stephen King più banalmente, Eraldo Baldini, Joseph Wambaugh, il mio concittadino Enrico Pandiani, H.G. Wells, Carolina Invernizio, Barbara Baraldi, Brett Easton Ellis, Giuseppe Berto, Jack London e Shirley Jackson.

E PER QUANTO RIGUARDA I FILM, IN GENERALE, CHE PIU’ TI PIACCIONO, CHE CI DICI?

Rischio di diventare davvero prolisso, sull’argomento “film della vita” potrei scriverci un saggio e forse un giorno lo farò. Posso dirti di essere davvero un onnivoro, tanto da alternare i generi al cinema d’autore e quindi opterei per un compromesso: elencarti i registi che mi hanno sedotto e che continuano a sedurmi con la loro filmografia, anche dopo reiterate visioni. Orson Welles, Sergio Leone, Jan Švankmajer, Robert Altman, Valerio Zurlini, William Wyler, Alejandro Jodorowsky, Don Siegel, John Woo, Johnnie To, Mario Bava, Paul Verhoeven, Delmer Daves, Elio Petri, Romano Scavolini, Werner Herzog, Brian De Palma, Lech Majewski e William Friedkin sono quelli che affiorano nella memoria per primi.

ULTIMA DOMANDA, POI TI LASCIAMO AL TUO LAVORO. QUALI PROGETTI HAI PER IL FUTURO E QUAL È IL TUO SOGNO (O I SOGNI) CHE HAI LASCIATO NEL CASSETTO?

Per il 2020 ho in cantiere tre nuovi saggi di cinema, già contrattualizzati e per scaramanzia citerò solo quello sui fratelli Coen. Ma per il futuro ho in serbo anche un noir, di cui ho già pronto un canovaccio, visto che amo molto anche questo genere sia come lettore che come spettatore.

BENE, CON COSI’ TANTA CARNE AL FUOCO, NON CI RESTA CHE ATTENDERE!

Davide Longoni