GIOVANNI MONGINI PRESENTA: CLASSICI SENZA TEMPO 05 – LA GUERRA DEI MONDI 1 e 2… E ALTRE ANCORA

Herbert George Wells nacque a Bromley, nel Kent a pochi chilometri da Londra nel 1866. Il padre era un giardiniere, così come lo era stato il nonno, e la madre faceva la cameriera in una delle case dove Joseph Wells svolse le sue mansioni. I due si sposarono e comprarono un piccolo negozio di terraglie che fu gestito dai due con poca fortuna. Quando Herbert George nacque, le condizioni economiche dei due non erano certamente elevate e il giovane Wells accettava con fatica l’anticonformismo paterno, il quale usava la sua bravura nel gioco del cricket per arrotondare con scommesse il magro incasso del negozio e la remissività materna e il suo non voler accettare i cambiamenti scientifici e sociali dell’epoca. Wells era invece nato solo sette anni dopo la prima pubblicazione della rivoluzionaria teoria di Charles Darwin e il mondo stava ancora cercando di comprenderla, se non di confutarla o avversarla, e tutto questo influenzò molto il giovane Wells, il quale evitò un futuro da garzone nel negozio paterno rompendosi involontariamente una gamba e assorbì con avidità tutti i libri che il padre gli portava.

Il secondo evento importante della vita di Herbert George Wells si verificò quando anche Joseph Wells si ruppe una gamba mettendo così fine alla sua lucrosa carriera di giocatore di cricket e costringendo la madre a tornare a servizio nella villa dove aveva lavorato quando aveva conosciuto il marito. Gli studi di Wells furono costellati di soddisfazioni e di tentativi mal riusciti di lavorare come apprendista o commesso prima in una farmacia e poi in un negozio di tessuti. Divenne poi a sua volta un valido addestratore di insegnanti e passò tre anni molto importanti della sua vita come studente di biologia sotto Thomas Henry Huxley, convinto assertore della teoria di Darwin subendo l’influenza di una così grande personalità che il giovane Wells, peraltro, stimava moltissimo.

Huxley non era molto positivista nei confronti dell’evoluzione umana ed era convinto che questo progresso non avrebbe portato a nulla di buono e, tantomeno, a un miglioramento sociale o morale.

Egli scrisse il suo primo articolo scientifico nel 1891 non senza aver però precedentemente elaborato un libro di biologia per il College Universitario di Londra e ben presto capì che la sua strada era quella di riversare le sue conoscenze e, perché no, le sue fantasie in articoli, novelle o racconti che fossero però alla portata di tutti.

Fu nel 1894 che Lewis Hind, direttore del settimanale “Pall Mall Budget” diede a Wells un suggerimento prezioso: usare le sue vaste conoscenze scientifiche per una serie di brevi racconti chiamati “Storie da leggersi da soli” e questo fu l’inizio della carriera di Herbert George Wells come narratore di mondi fantastici, di cui il primo tentativo più famoso fu “La Macchina del Tempo” che gli appassionati di cinema conoscono nella trasposizione intitolata L’Uomo che visse nel Futuro o nel suo mediocre remake di tempi più recenti intitolato proprio The Time Machine diretto dal nipote dello scrittore Simon Wells, senza considerare un inedito del 1978, sempre intitolato The Time Machine per la regia di Henning Schellerup ed altri ancora.

La vita di Herbert George Wells, terminata nel 1946, lo vide anche nelle vesti di sceneggiatore per un film tratto dal suo romanzo “Thing to Come” diretto da William Cameron Manzies del 1936 e intitolato da noi dapprima Vita Futura e rieditato in seguito sempre per il grande schermo in versione più ridotta, ma con l’aggiunta di sequenze di repertorio della Seconda Guerra Mondiale, come Nel 2000 Guerra o Pace? E quindi trasmesso in tv dapprima come Cose che verranno e poi come Una Storia Fantastica.

In questo film una guerra fratricida prima e un orribile pestilenza poi hanno decimato il mondo. Ma la vita ritorna: il progresso per la pace e la prosperità riprendono e dopo aver riunito il mondo sotto un’unica bandiera, ecco che l’uomo parte per la Luna, primo passo per la conquista dell’universo.

La vita di Herbert George Wells fu al centro anche di due film fantastici: il primo è del 1977 e s’intitola L’Uomo venuto dall’Impossibile (Time After Time) per la regia di Nicholas Meyer nel quale troviamo Herbert George Wells, interpretato mirabilmente dal Malcolm McDowell di Arancia Meccanica, scrittore di successo e inventore della macchina del tempo alle prese con  Jack lo Squartatore il quale, per sfuggire alla legge, ruba l’invenzione di Wells e si rifugia nel futuro. Lo scrittore lo insegue e si ritrova così ai nostri giorni alle prese con il suo nemico e con una società ben diversa da quella che lui aveva ottimizzato e nella quale incontra colei che sarà la sua futura moglie. Dopo aver sconfitto il criminale torna nella sua epoca con la giovane donna… alla faccia di qualsiasi paradosso temporale.

Il secondo è una miniserie televisiva che da noi fu però trasmessa in un’unica puntata di 265 minuti e s’intitola The Infinite Worlds of H.G.Wells per la regia di Robert Young III.  Qui abbiamo una donna che, fingendosi giornalista, cerca di intervistare il famoso scrittore ed egli comincia a raccontarle del suo passato e di alcuni avvenimenti fantastici che gli sono accaduti come la storia di uno studioso che aveva sintetizzato un liquido che permetteva al corpo di muoversi a velocità enorme o di un uomo che, colpito da una scarica elettrica, tornava indietro nel tempo cambiando il passato. La donna è in realtà una sorta di agente segreto che vuole sapere dal famoso scrittore quale sia il vero contenuto di un baule che un suo amico, un famoso scienziato, ha lasciato ben chiuso e che ora, dopo la sua morte, viene trovato pieno di misteriosi oggetti a Wells in realtà ben noti come un cristallo che aveva permesso di comunicare con il pianeta Marte. Altre fantastiche avventure del passato ritornano alla mente del grande scrittore…

Il romanzo “La Guerra dei Mondi” nacque nel 1898 e fu l’esempio più famoso dell’incontro, o meglio, dello scontro, tra la Terra e una specie proveniente da altri mondi, ma il romanzo va ancora più in là di una semplice storia di invasione: esso parla dell’uomo come appartenente a una razza in evoluzione e che ora si trova di fronte a un’altra specie ancora più evoluta di lui. Questi esseri, tecnologicamente superiori, rappresentano il progresso che ha superato l’uomo e le sue intenzioni, che lo sta sommergendo, soffocando con la sua arida complessità e superiorità. La riprova ci è data dal fatto che la sconfitta dei marziani proviene da esseri infinitesimali, ma letali, quasi un simbolo del passato dal quale ci si è evoluti sì, ma, al tempo stesso, ci si è allontanati perdendo le origini, le prospettive e le finalità di un giusto equilibrio.

Prima di diventare uno dei più famosi film di fantascienza di tutti i tempi, il romanzo di Herbert George Wells, aveva già nel suo destino il successo davanti a sé, oltre a quello già scontato di opera letteraria. Accadde quando ne venne tratta una trasposizione radiofonica che riscosse un indubbio successo ma che gettò nel panico mezza America.

Correva l’anno 1938 e questa versione radiofonica del romanzo di Herbert George Wells intitolata ovviamente “The War of the Worlds”, fu un radiodramma prodotto e diretto da Orson Welles che era anche tra gli interpreti. L’adattamento radiofonico era firmato da Howard Koch e la musica era di Bernard Herrmann. Si trattava della radiocronaca disperata sull’invasione dei marziani i quali giungono sulla Terra a bordo di navi spaziali camuffate da meteore. Essi cominciano a distruggere con i loro raggi della morte tutto ciò che incontrano. Gli eventi sono narrati, come abbiamo detto, in radiocronaca cioè come se il tutto stesse avvenendo in quell’esatto momento. La trasmissione fu creduta autentica da molti ascoltatori, ma faceva parte di una serie di drammi, tra i quali, per esempio, c’era anche “Frankenstein” e che costituivano una serie intitolata: “Orson Welles’ the Mercury Theatre on the Air”. Per il panico ci fu anche un suicidio e da questo avvenimento venne poi ricavato, nel 1975, il film televisivo The Night that Panicked America trasmesso poi anche in Italia con il titolo La Notte in cui l’America ebbe Paura.

Molti cosiddetti esperti o critici sono convinti che quando si parla di film come la versione del 1953, così conosciuta alla massa del pubblico, non debba essere necessario dire nemmeno due parole sulla trama. Si parte dal presupposto che tutti lo conoscano e che tutti lo abbiano visto, ma se io ora non lo facessi verrei meno a un principio al quale ho sempre tenuto molto: prendere il lettore per mano e spiegargli anche le cose che potrebbe conoscere con semplicità e con la maggior chiarezza possibile lasciandolo poi libero di giudicare con la sua stessa testa E questo compito primario è importantissimo per un semplice divulgatore quale io cerco di essere lasciando agli altri, senza dubbio più portati di me, di scrivere pagine e pagine di critiche, riferimenti, agganci e voli filosofici che per mia stessa natura non mi appartengono. Io spero sempre, spesso inutilmente, che i critici  non siano mai “criptici” e sappiamo parlare, spiegare, far capire al pubblico ciò che vanno esponendo o scrivendo e non si rivolgano mai solo ed esclusivamente a quei dieci colleghi che li stanno ascoltando e che corrono incontro felici a mani tese verso il collega relazionante congratulandosi con lui anche se, magari, non hanno capito nulla a loro volta di quanto andava dicendo. Che ci crediate a no a questo io ho assistito e non una volta sola…

In più, dopo aver constatato con incredulità che mia moglie era una delle poche persone su questo pianeta che non aveva mai visto Via col Vento, ho dedotto che non bisogna mai dare nulla per scontato ed ecco la ragione per cui vi trasmetto, qui di seguito, due righe di trama… Ah, naturalmente ho poi fatto vedere il sopracitato film a mia moglie con accanto un baccello da ultracorpi e a questo punto credo che l’invasione e la conseguente assimilazione sia stata totale per tutto il pianeta con buona pace di Clark Gable e company…

Una gigantesca meteora cade sulla Terra e da essa escono delle navi marziane dotate di raggi disintegranti che seminano la morte e la distruzione. La costante pioggia di queste finte meteore, gli attacchi ai quali i terrestri cercano inutilmente di rispondere, fa capire agli uomini che è in atto un’invasione in piena regola. I colpi dei cannoni e dei proiettili s’infrangono contro l’ombrello elettronico di protezione delle navi marziane. Si cerca allora di distruggere gli alieni con un lancio di una bomba atomica, ma è tutto inutile. Una èquipe di scienziati, guidata dal Dottor Clayton Forrester (Gene Barry), cerca di trovare un altro sistema per debellare le creature, ma la folla inferocita e spaventata distrugge tutta la strumentazione che essi stavano per portar via durante l’evacuazione della città. Ora non ci sono più speranze. Mentre i marziani stanno radendo al suolo Los Angeles, Clayton cerca la sua Sylvia (Ann Robinson) in mezzo al fuoco e le macerie e infine la trova dentro a una chiesa assieme ad altri fedeli in attesa della fine… poi avviene il miracolo: i germi della nostra atmosfera sono  fatali per i marziani che muoiono a bordo delle loro spaventose macchine.

Il film si regge soprattutto sugli effetti speciali, assolutamente straordinari e la storia della loro realizzazione è quanto mai interessante.

Fu grazie al successo commerciale de La Cosa da un altro Mondo che i responsabili della Paramount decisero di realizzare La Guerra dei Mondi, dall’omonimo romanzo di H.G. Wells (“The War of the Worlds”, 1898) di cui avevano acquistato i diritti 26 anni prima (Tr. it. “La Guerra dei Mondi”, in “H.G.Wells, Avventure di Fantascienza”, Mursia, Milano 1966).

Il film costò circa un miliardo di lire italiane, prezzo estremamente alto a quell’epoca e la sua realizzazione fu molto sofferta e laboriosa. Occorsero, infatti, più di sei mesi solamente per elaborare gli effetti speciali, più altri due per le sovrapposizioni e i trucchi visivi. La lavorazione effettiva con gli attori, svoltasi parte a Hollywood e parte in Arizona, fu la più breve: quaranta giorni.

Uno dei primi problemi che si dovettero affrontare fu la realizzazione dei marziani. Wells li aveva immaginati come dei polipi che si muovevano su tentacoli, ma una soluzione del genere, tecnicamente difficile allora, non fu presa in considerazione. Dovete sempre tener conto che siamo nel 1952 e la possibilità di poter realizzare effetti speciali utilizzando il computer era ancora lontana: il primo tentativo di quella che diventerà poi una fortunata e forse fin troppo abusata collaborazione tra computer ed effetti speciali avverrà solo trent’anni dopo e cioè nel 1982 con Star Trek II: L’Ira di Khan di Nicholas Meyer.

E anche un tentativo in stop-motion di Ray Harryhausen non convinse la produzione per cui si preferì realizzare una specie di crostaceo con un occhio gigante composto da tre lenti distinte, una testa e un cervello di dimensioni enormi, un corpo sottile e due lunghe braccia con tre dita a ventosa. Dallo schizzo si passò alla realizzazione pratica: il truccatore Charles Gemora cominciò a «fabbricare» il marziano usando della gomma e della carta particolare (fu anche creato un solo braccio pulsante, quello della scena finale: una pompa rendeva possibile l’effetto), venne dipinto in rosso aragosta e dentro la tuta fu sistemato lo stesso Gemora che, basso di statura, era adatto allo scopo.

Fu girato molto materiale sul marziano che non venne poi inserito nel film: George Pal, il produttore, preferì, in pieno accordo con il regista Byron Haskin, di farlo vedere il meno possibile, basandosi sull’ottima regola che è molto meglio intravedere (magari quasi al buio) che mostrare chiaramente.

Un grosso problema, come abbiamo detto, fu costituito dalle macchine marziane: Wells le aveva immaginate come dei giganteschi tripodi e, all’inizio, fu questa la strada battuta. Vennero creati dei modellini che si sorreggevano su tre raggi pulsanti di elettricità statica. Una scarica di circa un milioni di volt scendeva dai dischi, quasi a formare delle gambe incandescenti: almeno era questo l’effetto cercato, realizzato mediante fasci di fili elettrici che cadevano dall’alto.

Il risultato, è il caso di dirlo, era «elettrizzante», ma il progetto fu abbandonato per ragioni di sicurezza. Così vennero realizzate quelle astronavi a forma di «manta» divenute poi famosissime. Erano fatte di rame e lunghe circa un metro. Per farle muovere si usarono quindici fili molto sottili, collegati a un carrello sospeso sulla scena e mosso elettricamente.

Il film ebbe diverse riedizioni cinematografiche e, in Italia, furono tre. Quando poi si trattò di trasmettere il film su supporto televisivo, in VHS e poi in DVD, le immagini furono schiarite con il risultato di mostrare fin troppo palesemente i robusti fili d’acciaio che sorreggevano i modellini i quali avevano un certo peso per i complessi meccanismi di illuminazione e di movimento che dovevano contenere.

Il famoso «raggio della morte» era realizzato con dei fili elettrici tesi fra il punto di partenza (la macchina) e il punto di arrivo (la vittima); una resistenza dava corrente ai fili che diventavano incandescenti, si girava il fotogramma e si stendevano altri fili, e così via di seguito: l’insieme della scena dava l’effetto del raggio disintegrante.

La città di Los Angeles, destinata a essere distrutta nella parte finale, fu praticamente ricostruita in studio; i modelli erano piuttosto grandi rispetto ai soliti: il municipio, per esempio, era alto quasi due metri. Le sequenze dell’esodo costarono «il noleggio» di un migliaio di comparse al giorno, ma la fortuna aiutò il produttore e il regista il giorno in cui, sulla superstrada di Hollywood, si verificò un ingorgo pauroso che fu coscienziosamente ripreso per poi inserirlo nel film come causato da una fuga precipitosa.

Los Angeles completamente deserta fu ottenuta isolando un quartiere ed effettuando le riprese alle cinque del mattino, sporcando le strade come se vi fosse avvenuto un esodo scomposto per poi ripulirle a scena conclusa. Furono necessari vari fotomontaggi, diverse scene, cioè, sovrapposte l’una all’altra, per esempio: città, attori e macchine marziane sullo sfondo di un cielo cremisi, in realtà dipinto su vetro e posto davanti all’obiettivo con altissima precisione e fu anche  necessario ritoccare a mano 5000 fotogrammi di pellicola per dipingere il secondo raggio, quello verde intermittente che esce dai «poli» delle macchine.

Gli uomini e i mezzi che si disintegravano in un caleidoscopio di colori furono anch’essi realizzati dipingendo a mano i fotogrammi. Vennero utilizzate le truppe del comando militare di Phoenix, nell’Arizona, che simularono delle manovre militari vere e proprie. Le scene della prima battaglia furono realizzate «per gradi», riprendendo cioè prima le truppe, poi le macchine marziane, poi inserendo i proiettili, poi i raggi e via di questo passo.

La bomba atomica fu «creata» da un esperto di esplosivi, un arzillo vecchietto allora ottantenne, che sistemò alcune polveri da sparo di diverso colore sopra il coperchio di un piccolo cilindro sigillato di gas esplodente. A un comando elettrico manovrato a distanza, il cilindro saltava in aria creando il fungo policromo che poi venne portato sullo schermo; furono fortunati: ottennero il risultato voluto al secondo tentativo!

Per simulare la cupola protettiva marziana ne venne costruita una di plastica trasparente grande circa un metro e mezzo che fu poi sovrapposta alla macchina marziana.

I disegni dei pianeti, nelle sequenze iniziali, sono opera di Chesley Bonestell, dipinti direttamente su vetro; i tecnici poi vi sovrapposero rivoli di lava o effetti di fumo, però ancora oggi viviamo con un quesito che ci consuma: perché non è stato citato il pianeta Venere?.

Un altro problema fu la colonna sonora; dopo tre mesi di duro lavoro il tecnico del suono, Gene Garvin, ottenne la voce dei marziani incidendo il rumore prodotto da un pezzo di ghiaccio sfregato contro il microfono per poi sovrapporvi l’urlo acuto di una donna inciso al contrario. Il rumore delle macchine marziane era fornito da un registratore calibrato in modo da ottenere una vibrazione oscillante; il raggio della morte era ottenuto suonando a caso le corde di tre chitarre e il suono prodotto veniva amplificato e fatto riverberare.

Come si vede, è comprensibile che i mesi di lavorazione occorsi per realizzare questo colosso siano stati massacranti e tutto questo, non lo si dimentichi mai, senza neppure sapere cosa fosse un computer.

Il risultato è valso però l’impresa e, ancora oggi in Italia, il film giunto, come abbiamo detto, alla sua terza edizione cinematografica e dopo svariati passaggi televisivi, continua a essere considerato un classico che dopo più di 50 anni riesce ad attirare spettatori di ogni età.

Per tutti gli appassionati de La Guerra dei Mondi il 1977 ha segnato l’uscita settembrina di un nuovo LP, contenente la storia del film narrata nientepopodimeno che da Richard Burton, con gli inconfondibili sottofondi delle astronavi madri. Anche la rock star David Essex fa la sua piccola apparizione vocale nell’album. In alcuni negozi americani si può ancora trovare questo disco, ma solo nella  vetrina di qualche collezionista. Una chicca da non perdere! (E che io possiedo… ehm… ehm).

Due parole, ora sugli interpreti del film: Gene Barry, il protagonista, morto nel 2009, fu la seconda scelta del produttore George Pal che avrebbe preferito poter avere a disposizione proprio l’interprete de La Cosa da un altro Mondo che fu, come abbiamo detto, un ottimo successo commerciale, ma Kenneth Tobey (1919 – 2002) aveva in quel momento altri impegni e fu “costretto” a ripiegare su Gene Barry, classe 1921 e, dobbiamo dirlo, non fu poi una scelta infelice. L’attore verrà poi impiegato quale interprete del film I 27 Giorni del Pianeta Sigma di William Asher, una delle pellicole più makkartistiche che la storia del cinema possa ricordare e che era tratto dal romanzo di John Mantley “Il Ventisettesimo Giorno”, pubblicato da Mondadori sulla collana “Urania”.

La protagonista femminile era Ann Robinson il cui destino non fu certo altrettanto interessante. Nata nel 1935, dobbiamo attendere fino 1985 per rivederla in un film da noi pure inedito, ed intitolato Attack of the B-Movie Monster di Wayne Berwick, assieme ad altre glorie di quegli anni come Kenneth Tobey, John Agar, Robert Clarke, Robert Cornwithe, Gloria Talbott, Les Tremayne i quali interpretavano i ruoli che li avevano resi più famosi all’epoca e anche dopo. Tanto per fare un esempio Kenneth Tobey e Robert Cornwithe erano rispettivamente  il Patrick Hendry e il Dottor Carrington de La Cosa da un altro Mondo, Les Tremayne il Generale Mann de La Guerra dei Mondi e Ann Robinson non poteva che essere la Sylvia Van Buren sempre de La Guerra dei Mondi. Ma questo personaggio rimase attaccato all’attrice come la carta moschicida perché lo dovette ripetere altre volte: in una piccola parte di un film del 1986 intitolato Midnight Movie Massacre, un altro inedito cinematografico di Mark Stock conosciuto in DVD come Attack from Mars, dove è di nuovo Sylvia Van Buren. Si tratta di una pellicola demenziale che si  svolge in un drive-in americano nel 1956 e sullo schermo stanno passando le immagini di un film di fantascienza nel quale dei poliziotti spaziali stanno dando una caccia spietata a un criminale galattico. All’improvviso un alieno giunto a bordo di un disco volante comincia a uccidere gli spettatori… Ma non finisce qui perché l’attrice, dopo essersi dedicata alla televisione ed essere apparsa in tre episodi di Rocky Jones Space Ranger ritorna nei panni del suo personaggio proprio nel serial televisivo, claudicante sequel del film di Byron Haskin ed intitolato, ovviamente, La Guerra dei Mondi.

Siamo nel 1988: 35 anni dopo l’invasione marziana, gli alieni, creduti sconfitti, erano in realtà caduti in una sorta di letargo dal quale si sono casualmente risvegliati. Ora, mentre cercano di prendere possesso delle loro armi, possiedono la facoltà di penetrare nei corpi terrestri e di soggiogarli. Un gruppo di scienziati e di soldati cerca di fermare la loro subdola invasione. Protagonista è il figlio adottivo di Forrester e Sylvia (Jared Martin): mentre il padre è morto, Sylvia è ricoverata in un ospedale psichiatrico e appare in qualche episodio della serie per aiutare il figlio nella caccia ai marziani. Si tratta di 43 episodi di mediocre levatura, specialmente quando Adrian Paul, ben più famoso in seguito per essere stato il protagonista della serie televisiva di Highlander, entra nella seconda stagione la quale ricorda molto più da vicino un fumettone senza capo né coda con i protagonisti nascosti nelle fognature mentre i marziani cercano di tutto per sterminarli senza riuscirvi. Tutto finisce poi in un’alleanza tra alieni e terrestri. La prima serie è uscita anche in Italia in VHS.

Tornando alla nostra Sylv… pardon Ann Robinson, viene da stupirsi se si è stufata di concedere interviste sul suo personaggio e sulla Guerra dei Mondi ? Solo adesso si è ripresa da questa sorta di maledizione ma ci voleva il nome di Spielberg per ottenere questa specie di miracolo.

Les Tremayne, il Generale Mann, classe 1913, è stato interprete di altre pellicole del genere quali Francis all’Accademia, It Grows on Trees, La Meteora Infernale, The Monster of Pedras Blancas, The Slime People, Marte distruggerà la Terra, Creature of Destruction, The Phantom Tollbooth e Fangs.

Di George Pal si è già parlato a lungo ma resta da dire che gli eredi di Herbert George Wells furono così soddisfatti della trasposizione cinematografica del film che lo invitarono a selezionare un altro romanzo a sua scelta da portare sullo schermo ed egli scelse e poi diresse “The Time Machine” e cioè L’Uomo che Visse nel Futuro del 1960, una delle pellicole migliori del periodo… e anche dopo.

Byron Haskin, il regista, era nato a Portland, nell’Oregon, il 22 aprile del 1899. Dopo aver compiuto gli studi universitari in California divenne cartoonist del St. Francisco Daily News, poi fotografo di scena, operatore, aiuto regista. Nel 1923 divenne direttore della fotografia. Nel 1927 e nel 1928 diresse due film per poi tornare a fare l’operatore. Debuttò ufficialmente come regista nel 1947. È morto a Montecito, California il 16 aprile 1984. Sua è una colorata e vivace trasposizione filmica del romanzo di Stevenson “L’Isola del Tesoro” e quel “Furia Bianca” che narra la strenua e impossibile lotta del protagonista Charlton Heston con un esercito di formiche devastatrici… e questo fu il secondo film nel quale si trovò a fianco di George Pal in veste di produttore, poi la collaborazione continuò con l’interessante La Conquista dello Spazio, quindi i due si separano e, nel 1959, Haskin diresse una mediocre versione del romanzo di Jules Verne Dalla Terra alla Luna. L’altro suo piccolo capolavoro è S.O.S. Naufragio nello Spazio: la storia parte da un’astronave terrestre in orbita attorno al pianeta Marte. I due astronauti (Paul Mantee e Adam West) sono costretti a modificare l’orbita per evitare un meteorite e devono quindi sganciarsi con le loro capsule. L’atterraggio per uno dei due è mortale mentre il sopravvissuto si adatta a vivere nell’esile atmosfera del pianeta bruciando delle pietre che generano ossigeno con il calore. Dopo parecchi giorni di permanenza egli avvista delle strane astronavi aliene che scaricano su Marte degli uomini che vengono mandati a prelevare minerali e che sono tenuti sotto controllo da altre creature. L’astronauta incontra uno di questi schiavi mentre sta fuggendo e lo aiuta a nascondersi, ma i suoi padroni lo possono localizzare per mezzo di due anelli che gli stringono i polsi. Per sfuggire agli stranieri il cosmonauta e il suo nuovo compagno, da lui chiamato Venerdì (Victor Lundin), percorrono nel sottosuolo i canali di Marte fino ad avvicinarsi al Polo e, quando credono di essere stati raggiunti dagli stranieri, si accorgono che invece si tratta di una nave terrestre la quale sta venendo a prenderli.

Chi, all’epoca, pensava di andare a vedere un film che fosse un’orgia di astronavi e di mostri spaziali, deve essere rimasto terribilmente deluso e forse per questo, commercialmente parlando, il film non fu un grosso successo. Tratto da un soggetto di Ib Melchior che si era liberamente ispirato al “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, il film non concede alti voli di fantasia, ma resta su un piano di piacevolissima, possibile realtà, almeno per alcune situazioni e conoscenze dell’epoca. La fotografia di Winton C. Hoch e le scenografie di Hal Pereira e Arthur Lonergan fanno della Valle della Morte, in California, un paesaggio marziano credibile con l’aggiunta dei vari colori del cielo, non realistici come oggi sappiamo, ma certamente suggestivi.

Meno riuscite sono le astronavi aliene che altro non sono che quelle ridipinte in argento de La Guerra dei Mondi e private del loro mortale tentacolo a forma di testa di cobra.

I loro movimenti sono estremamente scattanti, ma non riescono a essere minacciose forse anche perché si trattava di sagome di cartone dipinte. Byron Haskin, nel girare questo film si è ispirato qualche volta alla famosa pellicola di Pal come quando l’astronauta superstite e Venerdì si allontanano assieme nel tramonto marziano e si odono parole della Bibbia simili a quelle pronunciate dal reverendo “Zio Matteo” mentre andava incontro ai marziani.

Della storia abbiamo quindi già detto: resta da aggiungere che il soggetto di Ib Melchior e  John C. Higgins, fu supervisionato dallo scienziato tedesco Werner Von Braun, il che aggiunse un tocco di veridicità alla vicenda.

Nel 1967 Haskin e Pal tornano nuovamente insieme nei soliti ruoli di regista e produttore con La Forza Invisibile, storia di un superuomo assassino tratta dal romanzo di Frank M. Robinson “The Power”.

Non molti sanno che esiste un’altra versione cinematografica molto più libera del romanzo di Herbert George Wells: si tratta di una pellicola polacca datata 1982 ed intitolata Woina Swiatow – Nastepne Stulecie e che al “Festival della Fantascienza di Trieste” le fu attribuito il titolo de La Guerra dei Mondi – Il Prossimo Secolo. La regia era di Piotr Szulkin e questa ne era la trama: i marziani giungono sulla Terra e l’avvenimento suscita gioia negli esseri umani perché la loro tecnologia, la loro scienza, farà progredire anche l’uomo. C’è un piccolo problema: il sangue umano costituisce per i marziani un piatto degno del miglior buongustaio, una raffinatezza afrodisiaca per cui, per accontentare l’ospite, bisogna ricorrere ai donatori volontari. Un giornalista si ribella a questa situazione, a maggior ragione quando questa donazione diventerà obbligatoria. Quando i marziani se ne andranno gli verrà data la colpa di questo avvenimento e sarà condannato a morte in diretta TV. Il film fece la gioia della critica ma secondo il mio modesto parere era di una noia mortale.

In ultimo non possiamo passare sotto silenzio un delizioso romanzo pubblicato sulla collana “Urania” della Mondadori e che vede l’incontro con le creature e i personaggi inventati da Herbert George Wells e un’altra icona letteraria: il grande Sherlock Holmes, uno dei più acclamati personaggi della letteratura di ogni tempo e nato dalla arguta penna di Sir Arthur Conan Doyle, famoso nel campo della fantascienza per l’insistente e perpetuo saccheggio che viene fatto di uno dei suoi romanzi più famosi, “Mondo Perduto” (The Lost World), storia di un acrocoro africano rimasto isolato dal tempo e nel quale vivono ancora uomini primitivi e mostri preistorici e che dal 1925 in poi divenne il soggetto, più o meno manipolato, di una nutrita serie di film, serial TV e film televisivi e che fu inoltre il principale ispiratore dello scrittore Michael Crichton e del suo “Jurassic Park” portato poi sullo schermo da Steven Spielberg e giunto, fino a questo momento, al suo terzo episodio mentre si sta in attesa fremente già da qualche tempo di una quarta storia sui mai dimenticati mostri preistorici.

Ma torniamo al nostro solenne incontro: esso avvenne nel romanzo dal titolo “La Guerra dei Mondi di Sherlock Holmes” e fu opera di Wade Wellman e Manly Wade Wellman, padre e figlio. In realtà si trattava di una serie di racconti iniziati a scrivere nel 1969 e assemblati poi in un romanzo nel quale appare anche un altro famoso personaggio creato a Conan Doyle proprio in “Mondo Perduto”: l’arguto, presuntuoso, mastodontico e turbolento Professor Challenger.  L’invasione possiede a questo punto la sua data esatta: il 1902, anno in cui Marte era particolarmente vicino alla Terra. I due autori fecero riferimento non solo alle vicende narrate da Wells nel suo romanzo nel quale sia Sherlock Holmes che il Professor Challenger si integrano perfettamente, ma prendono come antefatto un altro racconto di Wells, “L’Uovo di Cristallo”. In questo divertente romanzo i due autori, o meglio il Dottor Watson, ci narrano la funzione di importante spettatore che ebbe il famoso detective, uno spettatore non solo esterno alla vicenda, sia chiaro, ma parte integrante e importante di alcuni episodi di questa angosciante guerra con esseri di un altro pianeta.
La copertina di Karel Thole ci mostra il numero in questione (per la precisione l’885 e vi consigliamo di cercare di recuperarlo) con il disegno delle famose macchine marziane dell’accoppiata Pal- Haskin , ma il testo segue invece le vicende del romanzo originale.

Ed ora, miei cari amici lettori, facciamo un balzo indietro nel tempo e immergiamoci completamente nella suggestione di questo vecchio e amato film. S’a dì d’andà? O andiamo vai!

«Verso la metà del Ventesimo Secolo nessuno avrebbe creduto che l’attività umana potesse essere osservata così attentamente e con tanta penetrazione da intelligenze superiori a quella dell’uomo. Eppure, attraverso gli infiniti spazi celesti, sul pianeta Marte, esseri dall’intelletto vasto e spietato, esaminavano la nostra Terra con occhi vogliosi tracciando, con fredda determinazione, i loro piani contro di noi. Marte dista dal Sole 225 milioni di chilometri e, da secoli, si trova agli ultimi stadi del raffreddamento, tanto che di notte la temperatura scende molto al di sotto dello zero anche al suo equatore. Gli abitanti di questo pianeta morente guardavano attraverso lo spazio, con istrumenti di eccezionale precisione, cercando un altro mondo in cui poter emigrare. Essi non potevano andare su Plutone, il più periferico di tutti i pianeti, perché è tanto freddo che la sua atmosfera poggia, congelata, sulla sua superficie.

Non potevano andare su Nettuno o su Urano, mondi gemelli in una notte eterna e perpetuamente fredda, entrambi circondati da un’atmosfera irrespirabile di gas metano e vapori di ammoniaca. I marziani consideravano Saturno: un mondo attraente, con i suoi molti satelliti e i magnifici anelli di polvere cosmica, ma la sua temperatura si avvicina ai 150° sotto zero e la superficie è rivestita da una crosta di ghiaccio spessa circa 24.000 chilometri. Il mondo più prossimo era Giove, con le sue montagne titaniche di lava e ghiaccio, sormontate da lingue fiammeggianti di idrogeno in combustione, dove la pressione atmosferica è enorme: centinaia di chilometri per centimetro quadrato. No, i marziani non potevano andare su Giove e tantomeno su Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Qui non vi è aria e, al suo equatore, la temperatura è quella del piombo fuso.

Di tutti i mondi che i marziani potevano osservare, solo la nostra Terra era la più temperata e possedeva un’atmosfera nebulosa, indice di fertilità. Gli uomini non sospettavano quale tremendo destino li aspettasse e non si rendevano conto che, dalle profondità dello spazio, qualcuno, li sorvegliava con tanto bramoso interesse.»

L’inizio dell’invasione è data dall’atterraggio del primo bolide; quella che all’inizio viene creduta da tutti una meteora, si rivela, invece, un terribile contenitore di morte. Tre uomini che cercano approccio con i marziani vengono disintegrati da una specie di «metallica testa di cobra» che sporge da un’apertura praticata sul falso meteorite.

Divenuto palese il pericolo, la zona viene circondata dai militari che attendono l’uscita dei marziani mentre, dalle altri parti del mondo, si segnala la caduta di altri bolidi e cessano, progressivamente, tutte le comunicazioni dalle zone dove sono atterrati.

Il professor Clayton Forrester, (Gene Barry) che si trova casualmente in vacanza da quelle parti, segue gli sviluppi della vicenda assieme a una giovane conosciuta in quei luoghi, Sylvia Van Buren  (Ann Robinson) e a suo zio, il reverendo Matthew – Matteo – Collins (Lewis Martin), pastore della comunità. Il professore  è tra i primi scienziati a osservare le navi a forma di «manta» sovrastate da una cupola da cui sporge il mortale braccio metallico ed è il primo, quindi, a formulare ipotesi attendibili al generale Mann (Les Tremayne)  che sta seguendo le operazioni.

Mann: «Secondo voi è una macchina volante?»

Forrester: «No, no. E’ mantenuta sollevata da terra da raggi. E’ probabilmente una forma di flusso magnetico simile a gambe invisibili, è sorprendente! Riescono a tenere i poli opposti in equilibrio e sollevare la macchina.»

All’ordine del colonnello Ralph Effner (Vernon Rich) di tenersi pronti ad aprire il fuoco, il reverendo Collins osserva:

«Non abbiamo fatto nessun tentativo concreto di parlare con loro.»

Preso dal suo misticismo il pastore si dirige verso la macchina marziana, declamando versi della Bibbia e tenendo in mano una piccola croce. E’ una scena ben girata, patetica, che oggi forse farà anche sorridere, ma che ha comunque una sua motivazione nella psicologia del personaggio. La scena si svolge in alternanza tra il reverendo che avanza e Sylvia, Forrester e gli altri che l’osservano da un bunker.

Effner: «Chi è quello là, ma che cosa si è messo in testa?»

Sylvia si affaccia alla feritoia gridando il nome di suo zio.

Effner: «Ormai è troppo lontano!»

Sylvia (urlando): «Fermatelo!»

Inquadratura su Collins che avanza.

Collins: «Camminando attraverso l’oscura valle della morte io non temo il male…»

La scena si sposta su Sylvia che urla, Forrester la trattiene.

Forrester: «L’hanno visto!»

Il Reverendo Collins continua ad avanzare…

Collins: «Tu hai unto la mia testa con l’olio, la mia coppa trabocca…»

Forse in quel momento mentre, minacciosa, una macchina scende su di lui, si rende conto della inutilità del suo gesto, alza ancora di più la sua croce declamando:

Collins: «E io dimorerò nella casa del Signore, in eterno…»

Il raggio mortale lo disintegra, l’urlo disperato di Sylvia è coperto dall’ordine di aprire il fuoco; i primi proiettili piovono sulle macchine marziane, ma sembrano infrangersi davanti a delle cupole che i bagliori degli scoppi rendono visibili.

E’ Forrester il primo a rilevare il fenomeno.

Forrester: «I proiettili sono inefficaci! Si sono circondati da una copertura elettromagnetica, una cupola protettiva!»

Dopo aver subito il primo attacco passivamente, le macchine marziane passano al contrattacco, rispondendo con il loro mortale raggio rosso e un raggio verde che esce dai «poli» dei loro mezzi: uomini e armi si disintegrano in una formidabile sequenza di colori.

Mann (urlando per farsi sentire in quell’inferno): «Con quei raggi hanno distrutto le altre città.»

Forrester: «Essi neutralizzano i mesoni, cioè il legame atomico che tiene unita la materia. Attraversando le loro linee di forza magnetica ogni oggetto cessa di esistere. Date retta a me generale, questo tipo di difesa non serve contro mezzi simili. Vi consiglio di informare Washington, subito!»

I superstiti della grande disfatta si ritirano: tra essi sono anche Sylvia e Forrester che fuggono a bordo di un piccolo aereo. L’apparecchio precipita poco distante dalle macchine marziane; i due si rifugiano in un fossato mentre gli alieni distruggono i resti del velivolo.

Nel frattempo il generale Mann è riuscito a raggiungere Los Angeles e da lì si mette in contatto con Washington, comunicando la tragica situazione.

Mann (parlando al telefono): «Le nostre perdite sono il 60% degli uomini e il 90% del materiale… i reattori sono andati ma non son tornati… ho visto i bombardieri sganciare tutte le bombe, sono stati abbattuti e le bombe non hanno fatto nulla, nulla è efficace contro di loro, sono protetti da una specie di ombrello elettronico. Il dottor Forrester ritiene che usino l’energia atomica senza la schermatura a noi necessaria: è da lì che traggono la potenza dei loro raggi…»

E’ giunta la notte e Forrester e Sylvia sono ancora nascosti dentro al fossato; svegliata la ragazza che si era addormentata per la stanchezza e la tensione, i due raggiungono una fattoria abbandonata e lì, prima di riprendere il viaggio, si preparano qualcosa da mangiare. Improvvisamente quell’attimo di pace viene sconvolto: un bolide cade proprio a ridosso della casa.  Mentre Forrester sta cercando di aprirsi un varco, qualcosa discende da una delle macchine aliene che hanno circondato la meteora caduta ed è Sylvia a scorgere per prima l’oggetto, composto da tre lenti di diverso colore, che sta esplorando i resti della casa.

Forrester (a bassa voce): «E’ un occhio elettronico, come una macchina da televisione… Ci sta cercando.»

Lo scienziato lancia un pezzetto di terriccio e subito la macchina si gira verso il rumore.

Sylvia: «Non lo sanno se c’è qualcuno…»

Forrester: «Saranno curiosi su di noi come noi lo siamo di loro…»

Sylvia: «Chissà… forse vogliono prenderci vivi.»

Lo strano oggetto chiude le sue lenti e viene trascinato di nuovo a bordo della macchina; Forrester riprende il suo lavoro, ma una sinistra ombra è alle loro spalle: una lunga, sottile mano rossa con tre dita a ventosa si poggia sulla spalla di Sylvia che rimane paralizzata dalla paura. Forrester la tira a sé e, con la torcia elettrica, illumina lo strano essere dal grosso cranio e dai tre occhi di diverso colore, separati da altrettante membrane. L’alieno cerca di ripararsi dalla luce, Forrester gli lancia un’accetta e la creatura fugge lanciando un urlo agghiacciante.

Forrester riesce ad aprirsi un varco e porta con sé due preziosi reperti: la telecamera marziana che, in una seconda discesa, aveva sorpreso Sylvia e che Forrester aveva abbattuto a colpi d’ascia, e il sangue dell’essere, caduto sulla sciarpa della ragazza. Appena in tempo! Fatti pochi metri un raggio disintegra i resti della fattoria.

«I marziani avevano preparato il loro attacco alla Terra con sorprendente perfezione. Mentre aumentava il numero dei missili provenienti dalle profondità dello spazio, con le loro macchine, terribili per capacità di distruzione, un’ondata di terrore pervase il mondo da un capo all’altro. In ogni paese le autorità riunitesi cercavano disperatamente di coordinare le loro difese con quelle delle altre nazioni. Il governo indiano, fuggito da Nuova Delhi, si riunì in un vagone ferroviario, mentre la popolazione si dirigeva verso l’Himalaya, in cerca di un’illusoria sicurezza. Gli eserciti turchi e finlandesi, cinesi e boliviani lavorarono e combatterono furiosamente, ma tutti gli sforzi, contro la tremenda potenza degli invasori, finirono nella più tragica e spaventosa disfatta. Mentre i marziani bruciavano campi e foreste e intere città crollavano davanti a loro, le popolazioni fuggivano terrorizzate. In breve, la folla dei fuggiaschi divenne torrente, poi marea.

Disordinato, senza una meta, l’esodo avveniva fra scene paurose di panico; era l’inizio del crollo della nostra civiltà, il massacro del genere umano.

Un grande silenzio piombò sopra quasi mezza Europa, dove tutte le comunicazioni erano interrotte, quando le ultime telefoto da Parigi raggiunsero il governo francese, rifugiatosi a Strasburgo. Venne l’idea di usare velivoli a reazione come messaggeri. Privati dall’armamento e muniti di serbatoi supplementari, i velivoli mantennero i collegamenti con i Paesi Scandinavi, il Nord Africa, gli Stati Uniti e l’Inghilterra; era chiaro che i marziani avevano valutato l’importanza strategica delle isole britanniche. Il popolo inglese fece fronte agli invasori coraggiosamente, ma tutto fu inutile. Mentre i marziani dilagavano verso Londra, il Gabinetto inglese sedeva in permanenza cercando di coordinare tutte le notizie che potevano essere raccolte, trasmettendole alle Nazioni Unite, a New York; da qui venivano passate a Washington, unico punto strategico non ancora attaccato…»

E a Washington viene presa la tragica decisione di usare la bomba atomica sulle macchine alla periferia di Los Angeles.

Intanto Clayton e Sylvia riescono finalmente a raggiungere l’Università e lì fanno esaminare i reperti.

Il risultato è sconcertante; una scienziata, la dottoressa Duprey (Ann Codee), esamina il sangue al microscopio e, sbigottita, dichiara:

«Non ho mai visto cellule sanguigne tanto anemiche come queste. Sì, saranno dei prodigi mentali, ma in confronto a noi, fisicamente, devono essere molto primitivi!»

La lente rivela, invece, l’ottica marziana; anch’essa è straordinaria, come dichiarano gli stessi scienziati parlando di «uno spostamento nel loro spettro: il loro assorbimento di colori è diverso dal nostro.»

Si avvicina il momento del lancio della bomba atomica; un aereo speciale, denominato «ala volante», si dirige verso la periferia di Los Angeles. A poca distanza dal luogo dell’impatto viene allestita una base di emergenza, come dichiara un giornalista (Paul Frees) che registra ciò che sta avvenendo:

«L’obiettivo della bomba atomica è il nido di macchine marziane fra le colline di Corona dove, l’altra sera, hanno atterrato parecchi altri missili. Un aeroplano localizzerà l’obiettivo per il lancio da 10.000 metri: questa bomba è dieci volte più potente di tutte quelle finora usate e rappresenta l’ultimo perfezionamento in fatto di fissione nucleare. Nessun’altra bomba del genere è esplosa finora e noi ci troveremo a poca distanza. Ma vi sono nella valle osservatori chiusi in un rifugio, molto più vicini di noi.

Il mondo intero è in ansia perché da questo avvenimento dipende la sorte della nostra civiltà. E’ qui che si decide se vivremo o se moriremo. Ci sono centinaia di migliaia di persone nei rifugi tra le colline che aspettano, aspettano di sapere se possono tornare a casa o no. In ogni parte del mondo gli abitanti sono stati cacciati dalle loro case, le comunicazioni telefoniche sono state mantenute con Washington, ma la radio non funziona, neanche per il collegamento con l’aeroplano che si avvicina. Poiché la radio è fuori uso… le registrazioni che sto facendo serviranno per la storia futura… se vi sarà.»

Le ultime speranze dell’uomo sono quindi tutte riposte in questo lancio. Dice uno scienziato, il professor Bilderbeck (Sandro Giglio):

«Se la bomba atomica fallisse, i marziani potranno conquistare la Terra in sei giorni.»

L’esplosione avviene regolarmente ma, altrettanto regolarmente, le macchine marziane ne escono indenni.

Mann non si arrende; dichiarando che continuerà a combattere, esorta gli scienziati a trovare un rimedio.

Los Angeles viene evacuata, anche gli scienziati stanno preparando i loro strumenti, mentre Forrester si attarda a prendere dei reperti, Sylvia e gli altri si allontanano con un autobus della scuola.

Forrester tenta di fuggire con un piccolo camion che viene poi assalito da una banda di sciacalli umani, i quali, dopo aver tirato giù a forza lo scienziato, s’impossessano del mezzo e degli strumenti; rimasto appiedato, Forrester scopre con sgomento che anche l’autobus della scuola, quello su cui era Sylvia, è stato assalito.

Scende la notte su Los Angeles.

Ormai da parecchio tempo lo scienziato si aggira per le strade deserte quando avverte il sibilo dei raggi delle macchine marziane; egli sa, da una precedente confidenza della ragazza, che potrebbe trovarla «sulla porta di una chiesa», l’ultimo rifugio concesso agli scampati. Al terzo tentativo, con le macchine ormai vicine, Forrester la trova. I due giovani si abbracciano mentre tutto sta crollando intorno a loro, ma proprio in quel momento accade qualcosa: una delle macchine marziane s’inclina e si abbatte al suolo.

Forrester si avvicina con gli altri superstiti, mentre da un portello del mezzo marziano esce una mano, la caratteristica lunga mano con tre dita a ventosa che, pulsando, striscia verso l’esterno: un ultimo sussulto, poi cessa di muoversi e di palpitare. Lo scienziato ne tasta il polso constatandone la morte, si guarda intorno sconcertato mentre una seconda macchina si sfascia al suolo.

«Avevamo tutti implorato un miracolo», dichiara mentre si guarda intorno e gli risponde un coro di campane.

La spiegazione ci viene data dalle ultime parole del film:

«I marziani non erano riusciti a resistere ai batteri che infestano la nostra atmosfera; appena ebbero respirato la nostra aria i germi che per noi ormai non sono più nocivi iniziarono la loro opera mortale. La fine avvenne rapidamente. Quando tutti i mezzi escogitati dagli uomini erano falliti, i marziani vennero distrutti dagli esseri più microscopici che Iddio, nella sua infinita saggezza, aveva messo su questa Terra…»

«Nei primi anni del XXI secolo nessuno avrebbe creduto che il nostro mondo fosse osservato da intelligenze più evolute della nostra che, mentre gli uomini erano impegnati nella vita di tutti i giorni, qualcuno li studiasse e analizzasse con la stessa precisione con la quale l’uomo scruta al microscopio le creature effimere che brulicano e si moltiplicano in una goccia d’acqua. Con infinito compiacimento l’uomo percorreva il globo in lungo e in largo fiducioso del proprio dominio su questo mondo. Eppure, attraverso la volta dello spazio, intelletti vasti e freddi e ostili guardavano al nostro pianeta con occhi invidiosi e lentamente e indisturbati ordivano i loro piani contro di noi…»

La pellicola di Spielberg inizia in questa maniera, un modo molto simile a quello del suo predecessore: manca la carrellata sui pianeti inserita da George Pal sui disegni di Bonestell per la ovvia ragione che gli alieni invasori non provengono dal pianeta Marte, ormai dichiarato disabitato da forme intelligenti, ma da qualche punto del lontano spazio.

Sempre in confronto al film di Haskin e seguendo la pellicola nel suo svolgersi, possiamo notare alcune cose importanti: prima di tutto veniamo a conoscenza che in epoche remote gli alieni avevano seppellito nelle profondità del terreno le loro armi di distruzione e, giunto il momento di usarle, sono stati proiettati sulla Terra attraverso lampi di luce fin dentro di esse in modo di sbucare dal terreno per portare morte e distruzione sulla superficie.

Il sistema, sotto alcuni versi ingegnoso, non tiene conto che se quelle armi giacciono sepolte da milioni di anni dovrebbero essere quantomeno vecchiotte se non obsolete per una razza intelligente e in evoluzione. Si potrebbe obbiettare che magari i nostri alieni hanno un processo evolutivo molto più lento del nostro, se non addirittura nullo o che il tempo scorra diversamente per loro per cui milioni dei nostri anni potrebbero essere poche settimane per loro o, più semplicemente, hanno giudicato che le armi sepolte erano più che sufficienti per sterminarci. Comunque sia il primo tripode che esce dal sottosuolo ci regala alcuni momenti di devastazione e disintegrazione di uomini e mezzi, ben pochi per la verità, mentre la figura della macchina aliena ricorda molto da vicino quella descritta dallo stesso Wells e proprio per questo motivo riesce a farci dimenticare, anche se solo momentaneamente, le suggestive “mante” del suo predecessore. E poi comunque tutto il film di Spielberg segue più da vicino la trama del romanzo di Wells cominciando dal protagonista (Tom Cruise), un uomo qualunque che cerca di sottrarre i suoi figli alla furia aliena. La più grande differenza tra le due pellicole sta proprio nell’avarizia con cui Spielberg ci mostra le scene di distruzione ignorando totalmente gli episodi di battaglia con i mezzi terrestri ben presenti nel film del 1953, salvo che in un piccolo frammento di reportage televisivo e in un secondo momento quando ci mostra alcuni mezzi di offesa nostrani che si dirigono verso una collina sparando all’impazzata contro qualcosa che sta dietro la collina stessa ma che noi non vediamo se non quando fuoriesce minacciosa dal crinale a battaglia ormai conclusa. Si racconta che i proiettili esplodono prima di toccare le macchine marziane perché esse sono protette da un ombrello elettronico, ma non si vede quasi nulla di tutto questo: ci viene raccontato così come ci viene raccontato che gli alieni stanno distruggendo il pianeta e nemmeno la scena del rovesciamento del battello carico di fuggitivi da parte degli alieni colpisce più di tanto (Dobbiamo però dire che suo cugino, Independence Day, molte di queste sequenze ce le aveva mostrate: bomba atomica e ombrello elettronico compresi…).

Va detto però che questa è stata una scelta voluta dal regista fin dall’inizio: mostrarci ciò che stava accadendo solo attraverso gli occhi e le esperienze del protagonista, una scelta rispettabile. Possiamo solo dire allora di essere stati più fortunati la prima volta nell’edizione del 1953 in quanto seguendo ciò che accadeva al protagonista di quella versione abbiamo visto molto di più…

Invece, al contrario del film di Haskin, Spielberg ci mostra alcuni lati della storia ben presenti nel romanzo di Wells: le macchine tripodi danno la caccia ad alcuni terrestri e li mettono in una sorta di cesto che portano con loro per poi nutrirsi del loro sangue e anche la sequenza in cui il protagonista vede una macchina marziana succhiare il sangue da una delle vittime parte da alcune righe del libro originale e perfino il personaggio interpretato da Tim Robbins che casualmente Tom Cruise e sua figlia incontrano, ricorda molto da vicino il curato impazzito del libro di Wells. La critica sembra aver dimenticato tutto questo parlando del film o, molto più facilmente, non ha mai letto il romanzo originale e lo cita solo per sentito dire per cui non sa che persino l’erba rossa presente nel film appartiene in origine all’opera di Herbert George Wells.

E a proposito di alieni: ecco un’altra delusione costituita dal loro aspetto, talmente simile a quello di altri colleghi, primi fra tutti quelli del già citato film di Emmerich, da risultare quasi fastidioso, anche se si deve notare che il testone dell’extraterrestre spielberghiano è sospettosamente simile nella sua forma alle macchine marziane del film di Haskin, lo si vede bene nella scena finale dell’alieno morente che emette una sorta di ruggito rabbioso

Ora passiamo al finale, a quel finale incredibile, almeno secondo la critica che, ancora una volta, ignora non tanto il film del 1953 o la trasmissione di Wells che motivano la sconfitta marziana nello stesso e identico modo, ma proprio il romanzo stesso che fu ovviamente il primo a parlarne.

Ecco la conclusione del film di Spielberg:

«Quando gli invasori arrivarono e cominciarono a respirare e a nutrirsi, quegli organismi infinitesimali che Dio, nella sua saggezza aveva messo sulla Terra, iniziarono a contaminarli, annientarli, distruggerli dopo che tutte le armi e gli stratagemmi umani avevano fallito. Mediante il sacrificio di miliardi di vittime l’uomo ha acquisito la sua immunità, il suo diritto alla sopravvivenza tra le infinite creature di questo pianeta e quel diritto è suo contro ogni sfida perché gli uomini non vivono e non muoiono invano.»

Discorso opinabile e abbastanza stupido specie nelle sue ultime righe ma indubbiamente rispetta il romanzo. Siamo tutti d’accordo che una razza tanto evoluta deve pure essere composta da altrettanti pirloni, se prima non hanno “assaggiato” ed esaminato l’aria della Terra, però chi ci dice che fossero ferratissimi nelle armi e perfettamente ignoranti nella chimica?… Vabbè, ci ho provato.

Per finire questa serie di ragionamenti vorremmo ricordare di come più volte Spielberg abbia omaggiato il film di Haskin. Lo fa all’inizio quando la prima macchina marziana esce dal terreno a ridosso di Van Buren Street e noi sappiamo che Sylvia Van Buren è il personaggio interpretato da Ann Robinson; lo fa quando la macchina osservatrice a forma di serpente esamina le macerie del sotterraneo usando lo stesso suono della sua vecchia antenata di cinquant’anni prima; e lo fa, soprattutto, regalando un cameo a Gene Barry e Ann Robinson nel ruolo dei genitori della ex moglie di Tom Cruise: li si vede in una foto in casa della donna e poi nella scena finale per un attimo, quando appaiono nell’atrio della loro casa dove si è rifugiata la figlia.

L’uscita del film era stata programmata per il 29 giugno 2005, ovviamente negli Stati Uniti, dopo 75 giorni di riprese e solo otto mesi affinché la onnipresente Industrial Light a Magic potesse curare qualcosa come cinquecento scene che comprendevano gli effetti speciali ed è poi stata spostata ufficialmente al 4 luglio, il che affianca idealmente la pellicola al precedente e mastodontico Independence Day di deludente memoria. Ma Steven Spielberg aveva programmato il piano di lavorazione in modo che le prime riprese riguardassero le battaglie contro gli alieni e la conseguente distruzione delle città terrestri (una sola e per pochi minuti): in questo modo, mentre il regista continuava a girare, i tecnici degli effetti speciali potevano cominciare il loro lavoro così, quando Spielberg ebbe finito le riprese la ILM era già a metà del suo compito. Un compito valido senza alcun dubbio che come sempre il computer ha reso ottimale, ma tutta questa velocità, questa fretta, nel film si vede.

La riprova di questo ci è data dal fatto che il regista ha girato il film grazie a un “buco temporale” che si era creato nel suo lavoro in quanto i piani di pre-produzione della sua prossima pellicola si erano allungati.

La città di Bayonne, nel New Jersey, è stata completamente svuotata: gli abitanti sono stati invitati a sgomberare gli edifici dietro un lucroso compenso per fare posto alla invasione aliena.

Oltre a Tom Cruise, desideroso di tornare a lavorare con Spielberg e che ha ottenuto un compenso di venti milioni di dollari più il venti per cento degli incassi della pellicola, il cast comprende Tim Robbins che abbiamo già visto in Mission to Mars, Miranda (Il Signore degli Anelli) Otto e Dakota Fanning, la straordinaria piccola attrice bambina della miniserie Taken che qui però vive una parte fatta tutta di strilli e paranoie psicologiche.

L’uscita del film ha messo in crisi la Pendragon Pictures, una piccola casa di produzione che aveva iniziato a sua volta a girare una Guerra dei Mondi fedele al romanzo di Wells ma con molto meno badget rispetto a quello del film di Spielberg che si aggira sui 130 milioni di dollari e senza attori famosi.

Il titolo del film è H.G.Well’s The War of the Worlds per la regia di Timothy Hines con Antony Piana, Jack Clay, Darlene Sellers e John Kaufmann. Non sappiamo se verrà importato in Italia me esiste in DVD in versione originale: ve lo consigliamo…

La storia si svolge nello stesso periodo del romanzo di Wells e le macchine marziane si vedono pochissimo, ma la vicenda è ben più drammatica anche se molto meno spettacolare delle due pellicole precedenti.

In conclusione potremmo dire che Steven Spielberg ha girato il film con la mano sinistra ottenendo comunque un prodotto abbastanza decoroso. C’è da dire che Tom Cruise non vince il confronto con Gene Barry. Il ruolo dell’attore in questo remake è quello di un lavoratore su una gru al porto: è divorziato e cerca di mettere al sicuro la sua famiglia costituita dalla figlia di cui abbiamo già parlato e da un primogenito contestatore e piuttosto imbecille.

Ma non finisce qui, come diceva il buon Corrado, perché nel 2005 ecco arrivare in DVD e in versione italiana War of the Worlds – L’invasione (H.G.Wells’ War of the Worlds) di David Michael Latt, economica trasposizione sempre dal romanzo di Wells e qui abbiamo il dottor George Herbert (un nome, una garanzia)  che è in procinto di partire per Washington con la sua famiglia ma riceve una chiamata urgente di lavoro ed è costretto a trattenersi in paese per un’ulteriore notte. Quella stessa notte misteriosi oggetti cadono dal cielo e da essi fuoriescono giganteschi macchinari di origine aliena che cominciano a seminare il panico tra i cittadini. Gli stessi invasori sembrano essere atterrati in più zone del globo. George Herbert tenta allora di raggiungere Washington dove nel frattempo si sono diretti la moglie e il figlio. Incontra uno che ha perso i suoi compagni, poi vede il fratello morirgli tra le braccia, quindi fa un pezzo di strada con un prete che, traumatizzato dagli avvenimenti, sente vacillare la fede e un militare che si atteggia a capo del futuro nuovo ordine sociale. Infine, dopo essersi rifugiato in un ambulatorio medico abbandonato inietta a un tentacolo dei marziani la rabbia e finalmente arriva a Washington, ridotta in cenere dove apprende che gli invasori, contaminati dal virus della rabbia sono morti e ritrova la moglie e il figlio.

Il fatto straordinario è che di questo film esiste un sequel, purtroppo attualmente inedito, dove i terrestri restituiscono la visita ai marziani con i dovuti interessi. Si tratta di War of the Worlds 2 – The Next Wave di C. Thomas Howell (2008). Questa la storia: sono passati due anni dall’invasione marziana sul nostro pianeta, ma gli invasori non hanno per nulla abbandonato i loro piani di conquista e appaiono in una cittadina usando armi molto più potenti di prima e in grado pure di volare. George Herbert, superstite dalla prima invasione e involontario salvatore della Terra in quanto aveva inoculato agli alieni il virus della rabbia, si è rifugiato nella sua casa con suo figlio e sente uno strano suono provenire dalla radio e comprende in seguito che le macchine sono comandate direttamente dal pianeta. L’invasione con le potenti macchine si avventa su Parigi distruggendola e ai terrestri non resta che inviare una nave spaziale su Marte per combattere gli invasori sul loro pianeta usando un virus mortale. Tutto sembra risolto tranne che per una cosa: quello strano rumore per radio c’è ancora…

Poi, nel 2012, facciamo la conoscenza con War of the Worlds – The True Story di Timothy Hines, un film inedito girato con stile documentaristico nel quale l’autore, giornalista e ultimo superstite della guerra dei mondi, Bertie Wells, viene intervistato e racconta della guerra tra la Terra e Marte che c’è stata nel 1900, di come i marziani con le loro macchine siano arrivati sulla Terra e della sua storia personale nell’affannosa ricerca della moglie in mezzo alla distruzione avvenuta per mano degli invasori alieni.

Direi che è tutto, per ora. Qui lo storico finisce e il critico subentra… la cosa non mi riguarda.

Giovanni Mongini