E POI VENNE IL COMPUTER… MA SOLO POI – PARTE 12 – INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO (1977)

All’epoca di realizzazione del film Steven Spielberg, aveva solo 29 anni e una lunga carriera ancora davanti a lui, sia come regista, sia come produttore eppure fu costretto a subire le imposizioni della Columbia e costretto a immettere il film sul mercato senza aver avuto la possibilità di finirlo completamente, mancavano quello che lui stesso definì le rifiniture e soprattutto le scene “all’interno della astronave-madre”. Prima di diventare quindi produttore di sé stesso egli dovette fare buon viso a cattivo gioco ma riuscì egualmente a mettere le scene aggiunte due anni dopo.

In realtà non si trattò solamente di aggiungere qualcosa ma anche di toglierlo. Manca tutta una buffa scena in cui Roy scardina lo steccato di metallo dove la sua curiosa vicina tiene le oche, per servirsene come base per il plastico della sua montagna, alcune scene del litigio sono state tolte e sostituite con altre e, soprattutto, la comunicazione ufficiale del Governo che gli avvistamenti erano dei palloni sonda o fenomeni meteorologici.

Ufficialmente esistono diverse opinioni riguardo al montaggio finale del film: ci sono persone che affermano che molte scene sono state tagliate volutamente, altre che assicurano che questo è il montaggio originale: sta di fatto che è uscita una nuova versione del film. Il DVD è la è la fusione delle due versioni (la versione originale e la versione in uscita speciale “Close Encounters of the Third Kind – The Collector’s Edition” nella quale sono state inserite le scene tagliate).

L’anno successivo il regista chiese, e ottenne, un ulteriore finanziamento di circa un milione e mezzo di dollari, per terminare la realizzazione del film secondo i suoi desideri; la Columbia accettò, imponendogli però di realizzare una scena favolosa dell’interno dell’astronave. Contrario alla cosa, poiché l’interno secondo Spielberg, doveva rimanere un mistero, il giovane regista accontentò la casa di produzione: e il risultato è quello che noi conosciamo come “Incontri Ravvicinati – Special Edition”.

Inizialmente c’era il massimo riserbo sulla trama, più e più volte la stessa fu smentita dai produttori; lo stesso dicasi per i possibili alieni: nessuno li aveva mai visti, quindi si pensava che la troupe di Spielberg creasse strani uomini verdi con lunghissime antenne, altri credevano che utilizzasse bambini vestiti di rosso fuoco, altri si immaginavano chissà cosa.

La scelta della musica come forma di comunicazione ha sicuramente dato il tocco finale: l’idea è venuta da Johnny Williams (compositore della colonna sonora del film che più in là contrasse il nome semplicemente in John): spiegò al regista che il metodo del solfeggio era spesso usato dai compositori mentre esprimevano, tra di loro, commenti musicali, adoperando dei numeri al posto delle note. Il compositore russo Scriabin stava già sperimentando questo tipo di sistema, quindi sfruttare questa nuova forma di comunicazione, applicandola agli alieni, sarebbe senz’altro risultata più efficace della solita telepatia. I toni utilizzati non hanno però un particolare significato, sono dei suoni piacevoli a sentirsi. Non è un jingle, e non è una rima, è solo una composizione di note che aspetta, che prega per una risposta. E anche l’interpretazione manuale delle note è stata volutamente inserita, per rendere maggiormente forte l’idea della musica. I segnali manuali, tra le altre cose, sono un metodo di traduzione di ogni nota nella scala pentatonica inventato da Kodaly. Le nostre cinque note usate (Re, Mi, Do, Do alto, e Sol) sono suoni del passato che gli extraterrestri hanno adoperato per comunicare, ma questi ultimi hanno utilizzato le stesse note per mandare il segnale che il Radiotelescopio ha percepito. La traduzione da suono a impulso è facilmente spiegabile: i suoni sono stati convertiti dagli alieni in un vettore spaziale e, quando ricevuto sulla Terra, questo vettore è stato decodificato. Da qui i famosi numeri: 140 44 30 40 36 10.

Le riprese del deserto sono state in dubbio fino all’ultimo: doveva esserci una piccola tormenta al momento dell’arrivo della squadra di Lacombe-Truffaut, ma aspettare una vera tormenta in un vero deserto era alquanto sconveniente e costoso, Spielberg aveva bisogno di un luogo crudo, violento, talmente arido da far dimenticare all’uomo la natura della sua stessa esistenza; aveva pensato a un altipiano del Brasile, ma stanco di viaggiare per scegliere i set, si attestò sul Messico. La troupe girò le sequenze in una vasta area isolata nel nord della regione; era stata ricostruita una palizzata in legno all’interno della quale erano stati sistemati dei grandi ventilatori, a monte dei quali stava una “polveriera”, ovvero una macchina contenente un grande quantitativo di sabbia, rilasciata progressivamente.

Inizialmente si era pensato al ritrovamento di un sottomarino militare nel deserto, ma l’idea degli aerei sembrava migliore e poi, il sottomarino, poteva benissimo essere usato per un eventuale sequel. E poi un qualcosa di simile fu trovato nell’Indiana: un bellissimo modellino alto quasi due metri di una nave mercantile adagiata su di un fianco.

Passiamo un attimo alla scena in cui il piccolo Barry, Jillian e Neary assistono al passaggio di un qualcosa sulla strada: sono tante luci, rosse, giallastre e blu, ricordano i giocattoli di quando eravamo bambini; sono piccole luci, semplici, ma di grandissimo effetto ottico! Le lucette altro non erano che effetti speciali, costruiti nel laboratorio di Mobile, in Alabama. A questo proposito è bene chiarire che non tutte le lucette che si vedono nel film sono semplici effetti ottici, i dischi volanti che si vedono fluttuare vicino all’astronave, nella scena finale, sono dei graziosi modellini, soprannominati “Saucer D” (Disco D), costruiti in plastica con piccole lampadine montate sulla parte superiore. L’idea era quella di rendere i piccoli dischi assimilabili all’astronave madre, dovevano essere sempre ricondotti a lei, così bisognava studiare una forma molto simile: quella del disco era la forma più classica e sfruttata, ma poteva essere un’ottima partenza per l’elaborazione di un modellino completamente diverso. Si pensò poi a svilupparne la forma, facendolo assomigliare a una padella da cucina, con tanto di coperchio; la parte inferiore era composta da una fascia di finestre giallastre, dietro le quali si sistemarono due tubi al neon, guardandolo da lontano sembrava quasi che ridesse, prevedendo il successo. La parte superiore (il coperchio della pentola) fu completamente costellata da lampadine giallo-rosse, quasi a delineare degli occhi immaginari; tutti i modellini sono stati dipinti a mano, ponendo una grande attenzione ai minimi dettagli. Spielberg non aveva certo bisogno di creare dei modellini perfettamente colorati, dal momento che nel film non si sarebbero inquadrati per molto tempo, ma il SUO film sarebbe dovuto essere un capolavoro e niente andava lasciato al caso. Ci sono voluti molti giorni per effettuare le riprese, considerando che si doveva applicare la tecnica delle sovraesposizioni multiple. Inoltre al momento del passaggio di Neary e delle auto della Polizia attraverso il confine dell’Ohio, si vedono chiaramente i modelli: sono delle strutture piramidali a testa in giù, con una specie di lampada d’emergenza in cima; per donare l’effetto di luce satinata eterea (glowing) era convenzione dell’équipe di Trumbull di riprendere le scene con i modellini illuminati con uno sfondo di nuvola d’olio vaporizzata. Come è noto l’olio è molto denso e non ha delle proprietà riflettenti come quelle dell’acqua, quindi vaporizzandolo non avrebbe generato un riflesso, anzi avrebbe attenuato l’effetto luminoso delle lampadine creando quella particolare atmosfera eterea. Lo scenario del Crescendo Summit, ovvero quel frammento di strada in cui le auto della polizia inseguono le luci, è stato interamente riprodotto in miniatura, sembra quasi impossibile, data la minuziosa cura dei particolari. Ma alberi, pietre, cartelloni e cespuglietti sono stati incollati uno per uno, rigorosamente a mano! Naturalmente la strada era stata riprodotta anche sul set a dimensioni naturali.

La scena dell’adorazione degli adepti è stata girata quindi a Bombay, in India; per una scena di pochi minuti sono stati impiegati due giorni di riprese e settimane di allestimenti: bisognava trovare un luogo suggestivo, all’aperto, abbastanza vasto da poter ospitare centinaia di persone. Il villaggio di Hal, a circa un paio d’ore da Bombay, fu l’ideale. Furono ingaggiati gli abitanti del paesino, erano veramente entusiasti di poter partecipare alla realizzazione di un film, dovevano essere solo 500, vestiti di giallo, ma al momento delle riprese, erano oltre tremila! Il capo degli adoratori fu scelto a Bombay, era un cantante, o almeno così lui si definiva, ed era abbastanza intonato, sarebbe stato una fantastica guida per gli altri; ma la sua memoria non era certo quella di un ragazzino e, per cantare solo cinque note, ci vollero oltre otto ore: non riusciva a dire la giusta sequenza e tutti gli altri, con lui, cantavano la versione sbagliata. Dopo un pomeriggio perso a cercare di indirizzarli sulle note giuste, Spielberg si rassegnò e qualche mese più tardi corresse il problema doppiando tutte le voci in uno studio di Hollywood.

Oltre l’astronave, uno degli ambienti più suggestivi è la Devil’s Tower, monumento nazionale del Wyoming, situato proprio nel mezzo di una sterminata pianura arida. Piuttosto difficilina da raggiungere dal momento che in macchina, ci vogliono un paio d’ore. Durante il primo sopralluogo, la troupe trovò un panorama bellissimo: la montagna si ergeva maestosa nel cielo e le poche nuvole che la circondavano erano assai rarefatte, di un bellissimo bianco. Lo stesso non si poteva dire per i giorni successivi, non si potevano però rimandare le riprese per troppi giorni e Spielberg impiegò dei fondali dipinti di piccole nuvole da inserire successivamente; il tutto venne filmato in dieci giorni esatti. Tornati in Alabama, per diverse settimane furono tutti impiegati nella realizzazione dei plastici delle abitazioni di Neary e della sperduta fattoria di Jillian e di suo figlio Barry, mentre Trumbull studiava il panorama per coglierne l’essenza. Per un lavoro così complesso, la Devil’s Tower fu fotografata da ogni angolazione possibile, furono presi dei campioni di terra per creare un colore molto simile. Pure gli elicotteri che si vedono sorvolare la Devil’s Tower spargendo gas nervino non sono proprio quello che sembrano: uno di questi è un piccolo gioiello di plastica, per la precisione è un Phantom Huey, lungo meno di un metro con un motore molto piccolo inserito al suo interno.

La Mother Ship è senza dubbio la forma d’arte cinematografica meglio riuscita degli ultimi vent’anni, l’esterno è certamente affascinante, ma l’interno è qualcosa di mai visto. Si fa presto a dire modellino! Quello era un modellone, con tanto di particolari anche all’interno. Le telecamere erano posizionate a 360 gradi intorno all’astronave, in modo da poterla riprendere in ogni istante e in ogni suo movimento. Era costato così tanto alla Columbia produrre quei modelli che fu ingaggiato un intero staff di sicurezza, dotato di tesserini di riconoscimento con tanto di foto autenticata: altro personale, munito di regolare tessera, non poteva entrare. Il lettore delle tessere riconosceva il solo formato di quelle in dotazione alla sicurezza. Certo, non si trattava solo della salvaguardia dei modelli e delle apparecchiature, c’era anche il timore che qualcuno si intrufolasse per fotografare i set; nonostante tutte queste precauzioni, un giorno sparì un intero set di telecamere: non c’era nessun evidente segno di effrazione, non mancava niente, solo le telecamere (Nikos e Pentaxes). Questo curioso episodio fu soprannominato Close Encounters of the Worst Kind (Incontri Ravvicinati del Peggior Tipo). A dire la verità l’astronave si vede nelle ultime scene del film, ma gioca un ruolo veramente importante: molte sono le navi aliene che la televisione ci ha mostrato in questi anni, ma mai nessuna è riuscita a infondere un senso di mastodontica pace. Furono disegnati tre modelli di astronavi, tutti e tre diversi, ma solo l’ultimo modello fu quello più accreditato (e poi realizzato). Data la sua versatile forma era facile far credere che fosse qualcosa di non terrestre: altamente rifinita e super illuminata. Quindi venne messa in atto la costruzione della miniatura, che richiese una lavorazione di oltre sei settimane a cui partecipò lo stesso Spielberg, intagliando i piccoli spazi della sezione esterna. Fondamentalmente la costruzione non è altro che una calotta di plexiglass attorniata da tubi di alluminio e neon per darle luce; altri neon e lampade furono applicati all’interno della calotta assieme a svariate fibre ottiche, in modo da far illuminare la nave dall’interno verso l’esterno. Sulla sua superficie sono stati applicati un mucchio di svariati oggetti di varie forme e dimensioni, per inventare un miglior impatto ottico: la maggior parte di questi oggetti era costituito da parti plastiche di modellini in scatola (quelli che compriamo comunemente nei negozi di modellismo), in particolare furono incollate le campanelle del “Calypso”, la nave di Jacques Cousteau, le ruote dei carri armati della seconda guerra mondiale, i missili degli aerei giapponesi e così via. Pesava oltre 180 chilogrammi e ci vollero circa 160.000 volts di elettricità per illuminarla tutta! L’astronave è costituita di tre sezioni differenti, montate una sopra l’altra: c’è la sezione inferiore, come un emisfero tondeggiante, la seziona mediana, costituita da un disco schiacciato, e la sezione superiore, rappresentante un puntaspilli stilizzato. Come status è un po’ grossolano, ma scendendo in particolari si potrà notare la particolare raffinatezza della stessa. Per cominciare, misuriamola: il suo diametro è di circa un metro e venti centimetri, per un’altezza complessiva di appena settanta centimetri, gli “spilloni” aggiunti hanno conferito altri trenta centimetri in altezza e sessanta in larghezza. Per creare il magnifico effetto delle luci colorate sul fondo dell’astronave è stato necessario un lavoro d’équipe molto particolare: si poteva benissimo intagliare la sezione inferiore e inserire al suo interno un neon multicolore, ma la resa sarebbe stata scarsa e non avrebbe sortito l’originalità desiderata. Dennis Muren e Robert Swarthe per la Future General crearono una complessa e sofisticata maschera per la realizzazione: disegnarono sulla carta la bozza di quello che doveva essere il fondale, con migliaia di puntini di diverse forme; dovevano avere una grandezza media, non troppo grande, né troppo piccola. È un po’ difficile creare un puntino di giusta dimensione, dal momento che il puntino stesso era più piccolo di un segno di pennarello! Swarthe allora intagliò dodici sezioni triangolari (messe tutte in fila avrebbero costituito su carta il fondo dell’astronave) e su ognuna di esse disegnò molteplici puntolini; queste sezioni vennero poi riprese su di uno sfondo nero con diverse esposizioni (dalle due alle cinque!) in modo da smussarne i contorni, mentre parallelamente una luce soffusa illuminava le sezioni da dietro, facendo in modo che il colore filtrato attraverso i puntini assumesse un tono chiaro, quasi magico. Una volta riprese tutte le sezioni, si è passati alla sovrapposizione delle immagini, si è cioè proiettata l’immagine dei puntolini illuminati sul fondo dell’astronave; l’effetto delle luci che sembrano diminuire e aumentare d’intensità è dato dalle molteplici esposizioni cui sono state sottoposte le sezioni stesse. È stata davvero un’impresa lunga, dal momento che sono stati affittati altri cameramen per poter filmare le dodici sezioni di continuo: esse infatti dovevano essere filmate in successione, una dopo l’altra, in posizioni diverse.  Le animazioni delle luci sincronizzate ai suoni sono state aggiunte in seguito, in studio. Per quanto riguarda i pinnacoli posti all’estremità superiore dell’astronave (la stessa fu rovesciata per girare alcune scene) erano tubi in vetro e plastica incollati con un particolare collante a base di resina, in quanto il pannello sottostante era completamente in legno. I tecnici l’avevano soprannominata “City of Lights” (Città della Luce) ed era effettivamente divisa a strati con nomi di quartieri di New York: si trovavano così (dalle torri in giù) Broadway, Manhattan, Bronx, Time Square, The El, Harlem e Dust Bin per finire; l’interno, come Greg Jein lo definì era un vero nido di vermi, tanti erano i cavi che vi erano stipati! Curiosando sulle torri, si può notare che in cima ad alcune di loro vi sono degli oggetti particolari come un piccolo crocefisso, una moneta (di quelle dei giochi dei bimbi), addirittura un paio di soldatini; la nave aliena sarebbe stata fotografata e ripresa da una distanza considerevole e di certo questi piccoli oggetti non sarebbero mai apparsi. Come non si sarebbe mai sentito il rumore delle Tacos. Spieghiamo subito: lavorare pesantemente stanca, se poi il tempo è brutto è ancora peggio, sul set dell’astronave quella mattina c’erano Greg Jein, Peter Anderson e Dave Jones, annoiati, con il lavoro che andava per le lunghe, le sezioni di nave da assemblare. Ordinarono delle patatine Taco (quelle messicane, buonissime) e, per movimentare la cosa, cominciarono a darsi battaglia a colpi di patatine e, parecchie di queste, finirono dentro l’astronave: era impossibile tirarle fuori a causa dei cavi intrecciati all’interno e, per giorni, mentre si provava la rotazione della nave, si sentiva uno strano “crik crok”… Quelle patatine sono passate alla storia come le prime patatine intergalattiche! Spielberg trasse l’idea della forma da una raffineria: per la verità all’inizio la forma immaginata dal regista era quella di un pezzo di torta piatto su di un lato, senza alcuna luce, ma durante un sopralluogo in India, di sera, passando davanti ad una vecchia raffineria illuminata, Spielberg (è il caso di dire) s’illuminò! Ecco la perfezione! E per placare i commenti dei perfezionisti, il regista fornì una descrizione tecnica dell’astronave: ovvero, come poteva una nave spaziale di forma insolita (tra un disco volante ed una raffineria ce ne passa…) entrare nell’atmosfera terrestre senza riportare alcun danno? La cosa era spiegata egregiamente: attorno alla nave esisteva un campo di gravità negativa che permetteva a tutti gli oggetti, a contatto con essa, di rimanere sospesi e imprigionati nel campo. In tre mesi fu approntato un grandissimo set (chiamato il Big Set) per girare le scene dell’atterraggio della nave spaziale, doveva sembrare un hangar gigantesco, a sua volta modificato per ospitare un rendez-vous galattico. Sul soffitto del Big Set c’era un intricatissimo intreccio di fili elettrici e lampade, riflettori e lunghissimi tubi, il tutto per poter rendere l’effetto dell’atterraggio il più naturale possibile. L’effetto ottico delle sfumature delle luci dell’hangar è stato creato direttamente sul set, ingrassando i vetri delle luci con particolari gel densi e opachi che attutiscono il violento filtrare delle lampade. Parallelamente, intorno al set fu montata una grande impalcatura, per sorreggere un’unità mobile di ripresa: questa sarebbe servita per filmare lo stupore della gente della base all’avvistamento dell’astronave. L’impalcatura è stata abilmente collocata ai tre lati della base, incastonata a sua volta ai piedi della Devil’s Tower, location altamente azzeccata per nascondere enormi piantoni di metallo, considerata la sua vastità: quasi 800 piedi. Certo, anche lì i problemi non mancarono: era piena estate, faceva molto caldo e c’era un altissimo tasso di umidità; lavorare di giorno per montare le apparecchiature non era certo molto gradevole, ma la frescura della sera e la convinzione di ottenere un risultato più che ottimo rincuorava tutti. La parte dei boccaporti della nave spaziale, quella da dove escono gli alieni, fu costruita a terra, nel villaggio di Mobile, in Alabama: fu prodotta in scala, a grandezza naturale, per dare modo agli attori di potersi muovere liberamente.

Gli extraterrestri non sono deformi creature, sono umanoidi, dotati di un’intelligenza più evoluta della nostra, appaiono ben disposti verso i terrestri e sono probabilmente qui per aiutare la razza umana a progredire, a superare le idiosincrasie, le guerre e i problemi di sottosviluppo. Non dovevano sembrare entità invertebrate, brutte da vedere, dovevano rappresentare qualcosa di buono, se vogliamo. Oltre i classici alieni, Spielberg sentiva il bisogno di integrare un alieno particolare, diverso dagli altri, e l’unico modo per realizzarlo era quello di utilizzare un pupazzo animato con lunghissime e sottilissime braccia. Era stato contattato Jim Henson, il creatore dei favolosi Muppets, ma nessuno del suo staff era interessato alla cosa; fu così che arrivò Bob Baker, con mille e una idea da realizzare: la prima realizzata fu quella utilizzata. Seguendo le indicazioni di Douglas Trumbull, l’alieno doveva assomigliare a un embrione stilizzato, con lunghissimi arti, trasparente, in modo da poter osservare al suo interno il sangue che scorreva nelle vene e il cuore che pulsava, si dovevano vedere i sottilissimi muscoli che si contraevano a ogni piccolo gesto. L’alieno di Baker era proprio così: costituito da un esoscheletro simile al nostro, con una cassa toracica alta e ridotta entro la quale si intravedono degli organi e gli arti, lunghi e sottili, erano ricoperti così come il lungo collo e la faccia, di una pellicola trasparente. Bob Baker ne face sorgere tre, tre prototipi e la cosa che lo entusiasmò di più fu che nessuno poteva indossarli. Nessuno. Quindi ci si poteva sbizzarrire con gli effetti digitalizzati, con i radiocomandi, ma per utilizzarli si doveva tralasciare l’idea della trasparenza, in quanto tutte le apparecchiature avrebbero imbruttito il modello. Baker non trovava alcuna scappatoia e Spielberg contattò Carlo Rambaldi che progettò l’alieno poi utilizzato: l’umanoide era alto, con le solite braccia e gambe lunghe, con una testa grande, che ricorda vagamente la testa del piccolo E.T. Rambaldi pensò bene di progettare il suo alieno in modo da farlo realmente extraterrestre. Chiunque affronti un viaggio così lungo e si presenti a un’altra razza comunicando con sistemi mille volte più avanzati, doveva anche avere un aspetto particolare: comunicando telepaticamente o quantomeno influenzando altre forme di vita con il pensiero, gli alieni dovevano per forza avere un’intelligenza incredibile, quindi la materia grigia era maggiore e anche le dimensioni del cranio dovevano esserlo; in più il loro aspetto fisico era giustificato dal fatto che avevano imparato a nutrirsi in maniera differente, probabilmente assimilavano il cibo in modo diverso e il loro senso dell’udito e dell’olfatto era talmente sviluppato che padiglioni auricolari e narici erano ridotti ai minimi termini.

Era esattamente quello che serviva, quindi Rambaldi cominciò subito il suo lavoro: scolpì la forma dell’alieno in creta e ne ricavò due stampi, il primo stampo venne ricoperto di una speciale pellicola di poliuretano, che diede un aspetto molto realistico alla pelle, favorendone il cambiamento di colore a seconda della pressione applicatagli. Lo stampo con la pelle venne poi fissato sopra un’armatura di alluminio, cui vennero fissate moltitudini di cavi e di fibre ottiche, in modo da poterlo comandare a distanza. La prerogativa di Rambaldi fu quella di utilizzare un sistema meccanico al posto di uno elettronico, in modo che tutti i movimenti potessero essere guidati tramite lo spostamento di diverse leve, collegate al corpo tramite dei cavi di alimentazione che uscivano dai piedi della creatura. Naturalmente una persona non bastava a manovrare tutte le leve simultaneamente, quindi ne furono impiegate ben otto; le prove di sincrono andarono avanti per oltre una settimana prima di riuscire a coordinare perfettamente tutti i movimenti. Per evitare qualsiasi tipo di disturbo da parte esterna, la ripresa dell’alieno (nella scena finale), è stata supportata con l’aiuto di fumogeni, pompati dietro la creatura grazie a un sistema idraulico: l’alieno comunque doveva mantenere la sua integrità come forma pacifica e il sapiente gioco di luci ne accrebbe la credibilità. Tom Burman, del Burman’s Studio, sviluppò alcuni schizzi di alieni da usare come maschere per gli altri alieni del film: avevano una testa tonda e molto grande, sproporzionata rispetto al corpo, con lunghe dita; una volta focalizzato il concetto, bisognava metterlo in atto. Si costruirono vari modelli in cera, in modo da vestire tutte le taglie dei bambini-comparse-aliene; poi venne costruita la sagoma in plastica, indi lucidata con del poliuretano e, infine, dipinta. Tutte le maschere create da Burman erano inizialmente sprovviste di bocche, ma data la scarsità di ossigeno presente all’interno della maschera, si decise che era meglio intagliare un’apertura (una bocca) per far respirare i bambini; inoltre alcune maschere erano state appositamente disegnate per ospitare al loro interno un meccanismo capace di far muovere gli occhi in alto e in basso: naturalmente queste maschere, dato il loro maggiore peso, erano indossabili solo da dei maschietti (reclutati sul posto), evitando accuratamente di riprenderli per intero. I movimenti, che dovevano sembrare estremamente naturali, venivano comandati tramite un radiocontrollo simile a quello degli aeroplani; non era certo facile articolare lo sguardo, ma dopo molte prove si arrivò a un risultato soddisfacente. Si credeva che le ragazzine avessero una minore resistenza fisica rispetto ai maschietti, ma esse smentirono in pieno, dimostrandosi molto più energiche e vitali, mantenendo sempre un elevato tenore, nonostante la miseria che veniva loro retribuita (circa 25 dollari al giorno per otto giorni di lavorazione). Tuttavia Spielberg, a lavoro ultimato, non fu soddisfatto delle maschere create da Burman, erano volgari, grezze e molto ostili nell’aspetto; Julia Phillips minacciò Burman di denunciarlo, chiedendogli venti milioni di dollari di danni per il ritardo nella realizzazione del film, ma Burman non si arrese, si mise nuovamente al lavoro, ingentilendo quelle maschere inanimate e ridisegnando quelle animate; fu un vero e proprio lavoraccio, senza contare la corsa contro il tempo, ma finalmente, dopo mille cambiamenti, il prodotto finale era pronto! I movimenti delle mani costituirono uno dei problemi più grandi, non era possibile coordinare i movimenti di tutte le dita simultaneamente, nemmeno i più bravi animatori riuscirono nell’impresa, finché giunse Show Craft: creò una mano prensile, capace di contrarre le dita, afferrare oggetti e piegarsi su se stessa, grazie all’utilizzo di microcircuiti inseriti al suo interno: naturalmente l’articolazione dei movimenti sarebbe stata lunga, bisognava provare e riprovare i movimenti per rendere il gesto lineare e fluido. Il costo proibitivo (seimila dollari al paio) però fece desistere tutti dall’acquisto. Tutto aveva un limite! Finalmente la grande idea arrivò: il metil-metacrilato, sostanza usata in odontoiatria, era l’ideale: quando si secca, diviene arida, porosa e l’effetto era strabiliante. Subito venne creata una mano di gomma con lunghissime dita, completamente impregnata di questa sostanza; ma ancora una volta la soluzione non andava bene: la finta mano, dovendo essere infilata, non permetteva una grande motilità delle dita e comunque vestiva troppo larga. L’unica possibilità rimasta era quella di un guanto in gomma: un guanto interamente realizzato in gomma che aderiva perfettamente alla mano, permettendo qualsiasi movimento di oscillazione, ma per il resto, completamente inanimata. Le dita furono ridisegnate, mettendo in evidenza le loro estremità. I colori utilizzati per le maschere dovevano essere identici a quelli utilizzati per i costumi, in modo che in prospettiva, non si potesse capire se gli alieni erano nudi oppure vestiti, per questo ci vollero quasi quattro mesi per scegliere il costume adatto; alla fine si scelsero delle tute stretch. Spielberg pensò inoltre che gli alieni dovevano essere asessuati, non bisognava mostrare alcun segno di distinzione, dovevano assomigliarsi tutti e fu fatta una vasta selezione tra oltre cento bambine per soddisfare le aspettative del regista. Gli effetti ottici, sviluppati da Trumbull, rimarranno nella storia della cinematografia per l’originalità e la complessa semplicità con la quale sono stati prodotti e sviluppati. Applicando varie tecniche di ripresa (e creandone di nuovi) la troupe di Trumbull diede vita al più fantasmagorico spettacolo di luci fino a quel momento. La scena delle nuvole che svelano l’astronave è stata sviluppata per oltre un anno, in modo da farla sembrare la più realistica possibile e dobbiamo dire che Trumbull ci riuscì egregiamente sviluppando una nuova tecnica; non si potevano certo utilizzare animazioni a cartoon e nemmeno dipingere singolarmente tutti i fotogrammi, così Trumbull pensò di avvalersi di una soluzione quantomai innovativa utilizzando un particolare componente chimico liquido da far scivolare dentro una grande vasca di vetro, simile a un grosso acquario. Bob Shepherd e Scott Squires, addetti agli effetti, ricercarono il componente chimico, doveva sembrare crema densa, non troppo liquido, estremamente malleabile, non tossico, estremamente economico, disponibile in grandi quantità e soprattutto doveva essere facile da utilizzare: l’unico componente così a buon mercato era l’acqua! Shepherd e Squires studiarono la migliore combinazione possibile, riuscendo in breve a ottenere un ottimo effetto ottico. Sul fondo della vasca era sistemata dell’acqua salata, mentre sopra fu fatta scivolare dell’acqua molto fresca, una volta fatta acclimatare l’acqua fredda venne versata una polvere di tempera biancastra attraverso una valvola che provvedeva poi all’autoriempimento della vasca stessa; non ero certo facile creare questi due strati di acqua: la vasca aveva una capienza di sei metri cubi e mezzo e la giusta dose di ogni tipo di acqua era fondamentale per la buona riuscita dell’effetto. Il sale utilizzato era di tipo comunissimo, lasciato filtrare per oltre un giorno al fine di eliminare ogni possibile impurità, perché qualsiasi tipo di inquinamento sarebbe stato visibile e avrebbe impedito la buona riuscita dell’operazione nuvola; una volta completato il mix di acqua e sale sul fondo, una lastra di sottilissima plastica trasparente è stata fatta galleggiare sopra il primo strato, consentendo l’inserimento dell’acqua fredda, in modo da evitare che il repentino mescolamento non causasse danni. La lastra di plastica fu poi fatta scivolare via velocemente, permettendo all’acqua fredda di mischiarsi con quella salata, consentendo alle fastidiose bollicine di soffocare, mentre un particolare sistema di illuminazione permise una equa disposizione della luce. Il sistema di propulsione idraulica utilizzata per spingere la polvere di tempera dentro la vasca era stato appena messo a punto, era costituito da un piccolo braccio meccanico immerso nel liquido, alla sua estremità stava un tubicino sottilissimo in materiale plastico dotato di una valvola anti ritorno (non permetteva al liquido o alla polvere di tornare indietro e bloccare il passaggio) in modo da favorire l’espulsione della polvere progressivamente, naturalmente il tutto era comandato a distanza da un operatore.

Si potevano generare nuvole in ogni angolo della vasca, in tre dimensioni, della grandezza e della consistenza desiderata: i tecnici sperimentarono il sistema variando spesso la temperatura dell’acqua, in questo modo si potevano ottenere diversi tipi di nuvole, adattandole alla situazione richiesta; furono provati anche altri componenti, ma senza successo: alcune componenti colorate si scioglievano a contatto con l’acqua salata, altri si adagiavano troppo velocemente sul fondo, altri ancora creavano l’effetto olio, ovvero galleggiavano sulla superficie. Trumbull era quindi sicuro che la soluzione a base di acqua, sale e polvere di tempera era la migliore. Talvolta Squires e alcuni tecnici della sua unità dovevano rimpinguare la nuvola con piccole iniezioni di liquido: si aggiravano intorno alla vasca con una specie di siringone da animali, pieno di polvere di tempera, pronti a iniettare la soluzione nei punti in cui la nuvola stessa difettava di volume; la fatica maggiore, finite le riprese giornaliere, era quella di svuotare la vasca, pulirla perfettamente in ogni angolo, risciacquarla e ricominciare tutto da capo, ponendo molteplici attenzioni al riempimento e al dosaggio dei componenti. Alla fine delle riprese il lavoro era straordinario, veramente perfetto! Fotografato in ogni sua mossa il liquido assunse la forma di una nuvola dopo innumerevoli ritocchi fatti direttamente sul fotogramma.

Spielberg non era mai contento, cambiava idea ogni cinque minuti, doveva trovare qualcosa di veramente speciale per il suo film. Cosa farebbe un alieno vedendo un umano? Lo toccherebbe? Sarebbe curioso! Anche noi lo saremmo! Chilometri di pellicola, poi mai montata, furono girati secondo le idee di Spielberg: un alieno si avvicina a Truffaut, lo scruta, lo tocca, un altro alieno si avvicina al Dr. Hynek, lo tocca, gli sfila la pipa dalla bocca, la osserva. Gli occhi degli esseri si muovono, scrutano tutto l’ambiente che li circonda. E come poteva essere il punto di vista?

Giovanni Mongini