KING KONG E IL GILLMAN, LE CREATURE DALLA NOTTE DEI TEMPI

“Questa bestia esiste perché è più forte di quello che voi chiamate Evoluzione.
Vi è in essa una forza vitale, un demonio,
che l’ha conservata per milioni di secoli…
Non si arrenderà mai ad esseri deboli come voi e me…”

(“La Vendetta del Mostro” di Jack Arnold)

Quando, nel 1933, “KING KONG” di Ernest B.Schoedsack arrivò sugli schermi di tutto il mondo, il pubblico, alla vista del gigantesco scimmione, proruppe in commenti di terrore e gridò in sala quando il mostro afferrava la ragazza e se la portava via nella giungla.

Era nato un mito che trascendeva il genere perché, ancora oggi, se guardate qualche enciclopedia di cinema, troverete la pellicola prodotta da Merian C. Cooper classificata come “drammatico” per un vezzo ancora non del tutto sopito dei nostri illustri critici i quali non ammettono che certi film possano appartenere al genere. Provate a controllare pellicole come “L’UOMO VENUTO DAL CREMLINO”, “ARANCIA MECCANICA”,  “1984” e troverete la prova di quanto andiamo dicendo.

La limitatezza con la quale i critici nostrani classificano la science-fiction sta esattamente alla pari con la conoscenza che essi hanno del genere e cioè praticamente nulla. Una volta la snobbavano classificando come filmetti di serie “Z” tutta la produzione del genere, oggi come semplici operazioni commerciali oppure non annoverandoli nel genere.

Ignorare come la fantascienza si muove, agisce, parla, scrive, narra in tutte le sue innumerevoli sfumature vuol dire voler ignorare una grossa produzione cinematografica la quale ha saputo dare, se non dei capolavori in assoluto, delle opere di ampio respiro capaci di aprire l’ottuso e limitato concetto umano del mondo che lo circonda.

E così fu “KING KONG”.

Visto con gli occhi di oggi l’animazione a “passo uno” che ne fa Willis O’Brien può sembrare ingenua, a tratti ridicola, ma fu sicuramente un lavoro da certosino semplificato oggi dall’uso del computer che rende reale ciò che non esiste. Il Rhedosauro de “IL RISVEGLIO DEL DINOSAURO” di Eugene Louriè è un piccolo pupazzo animato che si muove in mezzo a dei modellini e dei “Front Proiection” ed è ben misera cosa di fronte ai rutilanti animali preistorici di “JURASSIC PARK”, ma non sarebbero esistiti questi se non fosse esistito quello e tutti i suoi cugini vicini e lontani: plesiosauri, stegosauri, ragni, tirannosauri, mantidi, scorpioni, polipi, formiche e tanti, tanti altri ancora.

Dal 1933 al 1976 passano “solo” quarantatré anni ma nel cinema possono rappresentare un’eternità e così è avvenuto… ma in peggio.

Il vero ideatore del film fu Merian C. Cooper il quale martellò la RKO per ottenere il finanziamento affinché fosse possibile realizzare la pellicola. I dirigenti si convinsero solo quando poterono visionare un rullo di prova che era poi la scena in cui lo scimmione scaraventa gli uomini in un burrone e dal quale fu in seguito tagliata la sequenza finale di un ragno gigantesco che afferra i caduti e se li mangia. Il film, ormai è noto a tutti, è famoso anche per la prima scena hard eseguita da pupazzi animati in quanto il buon vecchio Kong tiene in mano la fanciulla della quale si è invaghito (Fay Wray) e le toglie i vestiti sbucciandola come fosse un’arancia.

Giudicata troppo audace la sequenza fu tagliata e solo recentemente è stata rimessa, nella versione (americana) in VHS e DVD.

Un anno dopo, i tempi non cambiano mai, si cercò di bissare il successo della pellicola girando “IL FIGLIO DI KING KONG” (“Son of Kong”), che si rivelò più una commediola per ragazzi su un piccolo (per modo di dire) gorilla albino, figlio dello scimmione morto abbattuto dall’aviazione sull’Empire State Building, che aiuta il protagonista a cercare sull’Isola del Teschio un tesoro nascosto. Il simpatico bertuccione sacrifica la sua vita per salvare i nostri eroi e tutto finisce in gloria.

Nel 1949 ancora Schoedsack, come le due volte precedenti, si dedica a uno scimmione voluminoso ma non gigantesco nel film “IL RE DELL’AFRICA” (“Mighty Joe Young”): da qui il remake del 1998 con il titolo “IL GRANDE JOE” (“Mighty Joe Young”), dove anche qui l’uso del computer la fa da padrone. Se pensate che gli anni trascorressero senza che il mito de “La Bella e la Bestia” non fosse riesumato con l’aiuto delle moderne tecniche, vi sbagliate di grosso, ve lo avevamo già anticipato. Ecco arrivare il 1976 ed ecco ritornare “KING KONG” (“King Kong”), questa volta con la regia di John Guillermin e l’aiuto di Carlo Rambaldi il quale realizzò i realistici modelli e pure un gigantesco King Kong animato alto più di dodici metri ricoperto con crine di cavallo e pelli d’orso. Le altre scene, quante non si sa perché la diatriba non finirà mai, sono state girate da Rick Baker il quale indossava un costume scimmiesco.

Ci crediate o no si rese necessario un seguito e ciò avvenne nel 1986 con “KING KONG 2” (“King Kong lives”) sempre di John Guillermin. In questa pellicola, finalmente Kong incontra la sua anima gemella costituita da una gigantesca quadrumane con la quale si accoppia. Riuscirà a vedere la nascita del piccolo prima di morire, crediamo definitivamente (ma non scordiamoci il remake di Peter Jackson del 2005, ndr).

Che King Kong sia un’icona è dimostrato dal fatto che fu ospite di più di un film dove fu protagonista un’altra inarrivabile star: Godzilla, scritturato dalla Toho Film giapponese con a capo il regista Ishiro Honda per fare da contraltare al celebre drago bipede. Con loro ricordiamo “IL TRIONFO DI KING KONG” (“King Kong tai Gojira”), con un combattimento all’ultimo sangue che vede il gigantesco gorilla allontanarsi nei flutti marini dopo, pare, aver abbattuto il buon vecchio “Zilla” ma, nella versione giapponese, risuona l’urlo del drago dalle profondità del mare come voler dire: “ritornerò”… e sarebbe tornato, eccome…

Comunque sia, tranne che nel primo film e un poco nel remake, il suo perduto amore per la bionda di turno non è stato poi molto ulteriormente approfondito.

La disperata ricerca che il buon vecchio quadrumane fa attraverso le strade di New York alla caccia della donna amata è evidenziata nel primo film a tal punto che una volta presa in mano una fanciulla e accortosi di non aver catturato quella giusta, la butta via e continua la ricerca. (Altra scena che fu tagliata assieme a quella dove sgranocchia una povera vittima). Un amore senza speranza il cui primo ostacolo, oltre le dimensioni, è dato dai protagonisti maschili (Bruce Cabot nel primo e Jeff Bridges nel secondo) i quali vogliono la ragazza tutta per loro. Il suo amore sconfinato ha avuto un emulo in una creatura le cui dimensioni sono quasi quelle umane, come lui apparentemente asessuato e proveniente non da un’isola sconosciuta in mezzo a un mare ignoto, ma dalle profondità di una laguna nascosta nel Rio delle Amazzoni (nella realtà la vicina Florida).

Si tratta del “Gillman” o “Uomo Pesce” conosciuto da noi come “IL MOSTRO DELLA LAGUNA NERA” (“Creature from the Black Lagoon” – 1954), protagonista di ben tre pellicole di cui le prime due per la regia di Jack Arnold e la terza girata da John Sherwood. Il suo amore disperato è ovviamente per la ragazza del protagonista che egli rapisce per portarla nel suo nascondiglio e quindi porla su una gigantesca pietra molto simile a un’ara sacrificale. Gli altri due titoli sono: “LA VENDETTA DEL MOSTRO” (“Revenge of the Creature” – 1955) e “IL TERRORE SUL MONDO” (“The Creature walks among us” – 1956).

Ovviamente non riesce nel suo intento ma sarebbe felice di sapere che, nel 1980, in piena rivoluzione tecnologica e di costumi, creature a lui molto simili assalgono le donne e le violentano come dei mandrilli.

Tutto questo accade nel film di Barbara Peeters “MONSTER – ESSERI IGNOTI DAI PROFONDI ABISSI” (“Monster from the Deep”), una produzione di Roger Corman, e sarebbe anche felice di sapere che una delle fanciulle violentate resta debitamente incinta. Il film termina con l’urlo di terrore della puerpera…

Il nostro uomo pesce, invece, si accontenta di rapire la sua vittima e portarla in giro per antri e caverne, di sfiorarle un piede mentre nuota o di muoversi nell’acqua con il ventre rivolto verso quello della ragazza, quasi a mimare un amplesso che non avverrà mai…

Giovanni Mongini