ROCCE, GELATINE E BAVE STRISCIANTI

“Chi sa dire quello che accade nel suo essere: esso racchiude in se stesso
i segreti del tempo e dello spazio da milioni di secoli.”
(“La meteora infernale” di John Sherwood)

Ancora una volta una meteora cade sul nostro pianeta ma, in questo caso, non si tratta di un’astronave contenente esseri xenomorfi. La sua struttura è cristallina e reagisce all’acqua nella quale i cristalli crescono a dismisura per poi cadere come delle gigantesche torri brunite. Dai frammenti si formano altri cristalli che crescono, cadono e poi di nuovo ricrescono in continua progressione. Poiché il sale può fermarli viene fatta esplodere una diga che scarica l’acqua in una salina molto fortunosamente vicina al posto dove sono i cristalli, e ancora più fortunosamente, in linea con la loro avanzata. La soluzione salina arresta i monoliti così come salva le persone venute a contatto con i frammenti di meteora e che si stavano lentamente trasformando in pietra. In quel tempo (siamo nel 1958) la Universal stava subendo un periodo di crisi dovuto all’imminente partenza di Arnold e Alland verso la Paramount  ed era sfiduciata dalla recente uscita di “RADIAZIONI BX DISTRUZIONE UOMO” che all’epoca non aveva raggiunto i risultati economici sperati. Tutti i film che la Universal propose verso la metà del ’57 erano pellicole importate e classificate di serie B. Uno degli ultimi film importanti di questo periodo fu “LA METEORA INFERNALE” (“The Monolith Monster” – 1957), un soggetto di Jack Arnold che fu poi da lui sceneggiato assieme a Robert M. Fresco. La regia fu affidata a un allievo e “fan” di Jack Arnold, John Sherwood, il quale diresse bene la storia e lo fece in modo molto “arnoldiano”. Forse anche perché lo stesso regista era spesso presente sul set a dare consigli all’ispirato discepolo e, si dice, supervisionò il montaggio. Gli effetti speciali furono accreditati a Clifford Stine il quale però era in quel momento a capo del dipartimento ottico per cui non era possibile che ne fosse lui il realizzatore. Comunque sia il modello del paesaggio nel quale furono inseriti i cristalli, i quali erano spinti sulla scena dall’esterno per simularne la crescita, è praticamente perfetta. Così come lo è la scena in “slow motion” dell’acqua che incontra le miniere di sale per poi precipitarsi sui cristalli. Il tutto sono delle mirabili miniature perfettamente credibili.

Non bastavano quindi i pericoli dovuti ad alieni umanoidi o vegetali, dopo le carote e i baccelli anche le rocce se la prendono con questo povero pianeta e i suoi abitanti cercando di trasformarli in loro stessi: in esseri di pietra così come dei ridicoli e buffi uomini roccia appaiono nel film “MISSILI SULLA LUNA” (“Missile on the Moon”) di Richard Cunha: comparse ricoperte di evidente cartone mal dipinto e che si muovono trasversalmente alla velocità di un chilometro al giorno in linea retta su una Luna dal bel cielo bianco ricoperto di nuvole dove il suono si propaga perfettamente.

La pellicola fu un remake di una pellicola precedente mai apparsa in Italia, e non ne piangiamo: “Cat Women Of The Moon”. Partendo dal presupposto che un remake non era affatto necessario, il film di Cunha è uno dei più brutti di tutta la storia del cinema di fantascienza. Si pensi che, a un certo punto, uno degli astronauti, appoggiato alla scaletta di discesa del razzo, si muove leggermente… e il razzo con lui!

Il film è stato appositamente realizzato solo per incassare i soldi della prevendita e darsi alla fuga. Gli effetti speciali consistono in documenti autentici di partenze di razzi, V-2 per la maggior parte, e la scena del decollo è quella di “RXM DESTINAZIONE LUNA” di Kurt Neumann.

Il film possiede anche una citazione “arnoldiana” perché, a un certo punto, gli astronauti s’imbattono in un ragno gigante che altri non è che il modello usato per le riprese ravvicinate di “TARANTOLA”. Il povero aracnide finisce bruciato ma, novella fenice, risorse dalle ceneri e, debitamente ridipinto, andò a fare pubblicità al film  probabilmente vergognandosene moltissimo. Le scene in esterni furono girate nelle stesse zone scelte per “RXM DESTINAZIONE LUNA” e la grotta dove dentro vive il popolo lunare è veramente una grotta. La difficoltà stava nel fatto che doveva essere simulato un crollo nella caverna e un masso gigantesco finiva per bloccare temporaneamente i nostri eroi. Non era possibile ricostruire in studio la grotta perché non c’erano soldi a sufficienza e le rocce di polistirolo se ne volavano via, per cui decisero di andare nel più vicino drugstore a prendere della creta e della plastilina. Il proprietario vide così arrivare un gruppetto di scalmanati che acquistò, a credito, il materiale che serviva. Questo fu debitamente messo in conto alla produzione ma mai pagato.

Comunque i nostri tornarono sul luogo per realizzare con l’aiuto di sabbia, creta e plastilina la scena in cui un grosso masso doveva bloccare la caverna. Gli attori erano dentro al fresco a leggere il giornale in attesa che si fosse pronti a girare ma, a causa del caldo, la creta doveva essere continuamente tenuta umida e la troppa acqua scioglieva il lavoro fatto per cui la troupe s’ingegnò a inserire nel maledetto “blob” lattine, giornali e quant’altro potesse servire a tenere il finto masso più denso.

Ma che ti succede nel frattempo?

Che cala la notte e la temperatura scende precipitosamente come è tipico in quelle zone per cui il masso s’indurisce come una vera pietra con gli attori dentro che strillavano per uscire. Non rimase altra soluzione che andare a prendere un piccone dal sempre più sconcertato proprietario del drugstore e liberare gl’infelici dopo cinque ore d’allucinante prigionia! Poi come fu risolto il problema?

Con il polistirolo… nei brevi istanti in cui il vento non se lo portava via e, quando succedeva, i tecnici rincorrevano il finto pietrone e lo rimettevano a posto… fino alla prossima folata!

Un altro giochetto della produzione fu quello di dire che le fanciulle lunari erano le vincitrici di un concorso di bellezza… le avete viste?

Beh, se guardate il film date loro un’occhiata e scoprirete non solo da dove sono state prese ma anche che sono state reclutate tutte quelle che c’erano, ma proprio tutte, anche le… meno avvenenti!

Generalmente quando si ha la possibilità di avere tutti gli attori a disposizione, come in questo caso, conviene girare il film scena per scena ma non in questa occasione naturalmente!

S’incominciò girando l’inizio e poi la fine, tutte le altre scene furono create sul momento quando si trovava un luogo adatto per girare una sequenza che veniva inventata in quello stesso istante. Non esisteva sceneggiatura o storyboard!

Il nostro pianeta non ha ricevuto solo minacce… dure come una roccia ma anche viscide come… una marmellata! E’ il caso di una creatura proveniente dall’interno di un’ennesima meteora, una gelatina fagocitante aliena, divenuta famosa in Italia per essere stata reclutata quale sigla d’apertura di una famosa trasmissione televisiva.

Stiamo parlando di “FLUIDO MORTALE” (“The Blob”) e del suo remake “IL FLUIDO CHE UCCIDE” (“The Blob”), il primo famoso anche per la partecipazione di un ancor giovane Steve(n) McQueen il quale fin d’allora si prodigava in bizze sul set come quella di mettere delle lattine di birra in testa a un cane e giocarci a tiro a segno, fino a che non sbagliò la mira e uccise la povera bestia. Pessimi erano anche i suoi rapporti con la co-protagonista Areta Corseau e il regista Irvin Shorty Yeaworth Jr.

Il film fu girato con una spesa di 420.000 dollari a Valley Forge, in Pennsylvania, e ne fu pure girato un seguito “Beware The Blob” di Larry  Hagman (Sì, proprio il J.R. di Dallas!). L’anno era il 1958 e la fagocitante gelatina ritorna più crudele e spettacolare nel 1989 ma senza alcun dubbio il film perde il confronto con il suo predecessore e ci è sembrato inutile cambiare la sua provenienza da spaziale a terrestre come causa di esperimenti proibiti. In tutti e due i casi le fagocitanti gelatine sono state realizzate utilizzando dei palloni ad acqua, dei sacchetti di plastica al silicone semiliquido e, soprattutto per il remake, con borse di seta e nylon cucite come se fossero le fodere dei cuscini e riempite di acqua e metecole il quale altro non sarebbe che un addensante alimentare usato spesso nella industria cinematografica per creare sostanze vischiose (un esempio ci è dato dal fiume di melma di “GHOSTBUSTER II” e la bava di “ALIEN”).

Sconfitte entrambe con il freddo e in tutti e due i casi pronte a ritornare, ecco arrivare un’altra minaccia. Perché le gelatine possono anche apparire in forma umana dato che una volta erano degli uomini che le radiazioni atomiche hanno trasformato in fluidi verdastri affamati. Stiamo parlando di “UOMINI H” (“Bijyo to Ekitai-Ningen”) di Ishiro (o Inoshiro) Honda, il famoso regista giapponese a cui si deve l’ormai storico Godzilla e tutta la sua progenie.

La mortale assimilazione di questi “blob” del Sol Levante avviene in modo molto più discriminato rispetto alle colleghe americane perché il corpo se lo risucchiano ma i vestiti no. Le scene sono state girate al rallentatore utilizzando dei pupazzi ricoperti di gelatina alla menta e crediamo sia curioso accennare al fatto che una sequenza è stata tagliata addirittura all’atto del montaggio della versione giapponese. Si tratta della scena in cui una procace ballerina in bikini viene colpita dalla sostanza mortale. In origine si vedeva la caduta del pezzo superiore del costume ma, con immensa rabbia degli spettatori, la vereconda censura giapponese ha eliminato la scena; ancora una volta il fuoco ha ragione di queste creature che si presentano anche con immagini spettrali (e verdastre) che ricordano vagamente la loro provenienza umana.

Abbiamo finito le gelatine e passiamo ora ai molluschi tanto per terminare la serie delle varietà di minacce che infestano il nostro pianeta e glissando su dinosauri, granchi, mantidi, formiche, vespe, api, ragni e tanti altri ancora. Per cui doverosamente citiamo “IL MOSTRO CHE SFIDO’ IL MONDO” (“The Monster that challenged the World”) di Arnold Laven dove dei giganteschi lumaconi tentano a loro volta di dominare il pianeta, ma niente da fare: il pianeta è mio e me lo rovino come mi pare! Eppure questo film, pur appartenendo, in parte ingiustamente, a una categoria minore, ha diritto di essere rivalutato almeno per due ragioni di cui la prima è l’accorta regia dovuta ad Arnold Laven, nato il 22 febbraio 1922 a Chicago e famoso per aver fondato una casa di produzione, la Levy-Gardner-Laven, di cui ricordiamo la serie televisiva “La Grande Vallata”, e per la realizzazione del lumacone mostruoso, costruito in grandezza naturale, mosso da circuiti e da pompe idrauliche con effetti veramente notevoli. Vogliamo anche ricordare la scena in cui una giovane ragazza va a fare un bagno serale in un lago, ignorando ovviamente che nello stesso si nascondono le voraci creature, e viene trascinata nel fondo dal mostro in una sequenza che ricorda molto il successivo “Lo Squalo” di spielberghiana memoria.

Giovanni Mongini