IL CINEMA DI GENERE DI UMBERTO LENZI 03 – PARTE 06

Umberto Lenzi e Tomas Milian – Parte 06

La banda del Gobbo (1977) vede alla regia sempre Umberto Lenzi che è pure autore di soggetto e sceneggiatura, alla stesura dei dialoghi però collabora lo stesso Tomas Milian. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabiso, le scenografie sono di Giuseppe Bassan e le musiche di Franco Micalizzi. Tomas Milian ci viene ripresentato come Vincenzo Marazzi, detto il Gobbo, per la seconda e ultima volta, dato che finisce morto in fondo al Tevere. Ma il film è importante soprattutto perché Milian recita una doppia parte e torna con il personaggio del Monnezza. Altri interpreti sono Pino Colizzi (commissario Sarti), Isa Danieli, Guido Leontini, Luciano Catenacci, Solvi Stubing, Sal Borgese, Francesco D’Adda, Fulvio Mingozzi, Nello Pazzafini, Mario Piave e una piccola schiera di caratteristi e figuranti.

Siamo a Roma e Vincenzo Marazzi, detto il Gobbo, di ritorno dalla Corsica, va a trovare suo fratello Sergio, detto Monnezza. Il regista fa sforzi enormi per non inquadrare mai insieme i due personaggi e a volte ricorre pure a controfigure. Monnezza fa il carrozziere, veste una tuta da metalmeccanico e ha il tipico aspetto da trucido con barba e capelli lunghi, il Gobbo invece porta capelli lunghi e lisci ed è del tutto rasato. Vediamo che tra i due c’è un legame profondo, pure se Monnezza è il più espansivo e vorrebbe stare sempre insieme al fratello. Il Gobbo evita le smancerie, lui è uomo rude e tutto d’un pezzo, poi teme che Monnezza lo faccia per pietà e perché lui è nato deforme. Il Gobbo si fa una fidanzata di nome Maria, rimorchiata nel giro delle battone che spacciano per lui orologi falsi. Tutto sommato però il loro rapporto è sincero, pare che in questa pellicola Il Gobbo abbia anche dei sentimenti umani. Il primo obiettivo del delinquente è di organizzare una rapina e lo fa insieme al Sogliola, l’Albanese e a Perrone, che però tramano alle sue spalle. Per mezzo di bombe a gas narcotico derubano un furgone porta valori della Banca di Roma, però il Gobbo è ferito dai suoi compari e si rifugia in una fogna. Le sequenze nella fogna sono molto realistiche e mostrano in primo piano il bandito che si trascina fino al Tevere, tra fango, sporcizia ed enormi ratti neri.

La musica di Antonello Venditti (“Sora Rosa” e “Roma capoccia”) fa da colonna sonora del film e accompagna la sua uscita alla luce del sole. Vincenzo va dalla sua donna e decide di vendicarsi dei traditori, mentre il commissario indaga sulla rapina e interroga Monnezza. Il primo a morire è il Sogliola che il Gobbo chiude nella cella frigorifera dell’azienda dove lavora. Subito dopo il criminale telefona a Perrone e gli dice che fa molto caldo, lui capisce solo quando la polizia lo avvisa che il suo autosalone sta andando a fuoco. L’Albanese cade in un’imboscata tesa da un’impiegata dell’ambasciata albanese che viene ricattata e deve fare da esca. Qui c’è una parte con alcune battute interessanti, quasi da avanspettacolo, che descrivono bene la genuinità di Monnezza, furfantello da quattro soldi che nel tempo libero legge Topolino. Al fratello che gli chiede di portargli un albanese, lui fa conoscere una tale Albanese Osvaldo. “Ho detto un albanese de l’Albania, no de Frascati!” fa il Gobbo. E quando rapiscono Benito Giua per ricattare la moglie albanese: “Abbiamo rapito Benito Giua e mo’ so’ cazzi tua!”.

Il commissario Sarti (un Pino Colizzi che fa rimpiangere non poco Maurizio Merli) pensa che il Gobbo sta uccidendo i compari per tenersi tutto il bottino della rapina. Ordina una retata negli ambienti della malavita e cerca di arrivare alla soluzione del mistero, poi trova l’auto dell’Albanese e scopre il legame fra lui e Perrone che però nega ogni addebito. Viene arrestato anche Monnezza che si mangia due Nazionali Esportazione, come gli aveva consigliato il fratello, e si becca una febbre da cavallo che gli provoca allucinazioni divine. Cita un film su Gesù Cristo con Claudia Cardinale e scambia un poliziotto per il figlio di Dio. Monnezza viene internato in manicomio perché creduto pazzo e qui c’è un’altra parte comica a base di battutacce in romanesco. Il medico gli fa un esame per capire se è matto oppure no e lui a ogni domanda risponde: “Fregna” e poi aggiunge: “Che ce devo fa’ se da quando me sveglio c’ho la fregna qua?”. E poi l’interrogatorio degenera in turpiloquio con altre associazioni di idee: “Corna” “Dottore” “Vaffanculo” “Stronzo”. Monnezza viene internato con la diagnosi di paranoia e schizofrenia acuta. In manicomio non può mancare Jimmy il Fenomeno, il postino matto che quando scopre da Monnezza che è sciopero ride felice e torna a dormire. Altre battute in romanesco si sprecano, cose come: “Se è a Vetralla vaffanculo a ripijalla, se è a Cinazzo te t’attacchi a ’sto cazzo!”. Intanto il Gobbo completa la vendetta e fa morire d’infarto Perrone sul lettino del dentista. Il Gobbo si sostituisce al medico e si presenta con un trapano da elettricista che minaccia di usare nella bocca di Perrone e il regista ci lascia solo immaginare una terribile scena che prontamente sfuma. Il commissario Sarti fa infiltrare un poliziotto in manicomio e fa evadere Sergio per catturare il fratello. Monnezza però capisce di avere a che fare con uno sbirro e conduce l’infiltrato tra le braccia del Gobbo. Il giorno dopo il commissario trova il poliziotto legato tra i maiali in un porcile. Vincenzo decide di portare Maria a ballare nel night club “Lo scarabocchio” e qui comincia una parte che vuole essere pure di critica antiborghese. Il Gobbo comincia con una serie di rime volgari (“L’avvocato Agnolazzi, quello che c’ha il culo pieno di cazzi…”) e poi raggiunge il culmine dopo aver ballato ed essere stato deriso per la sua deformità. Le battute sono feroci e senza cuore: “Taglia 54 extra gobbo”, “Chiedigli se me la fa toccare” “Chi? La donna o la gobba?”. Lui per un po’ balla in silenzio, poi si ferma e sale sul palco a raccontare una barzelletta sui gobbi e un’altra che parla di una contessa che assume un servo volgare. Alla fine prende il controllo della situazione con il mitra in pugno e fa legare e derubare tutti i presenti dalla sua banda. Lo spettatore qui è portato a  parteggiare per il Gobbo, perché i ricchi borghesi con la loro spocchia se la sono proprio cercata. Il Gobbo cita “Sora Rosa” di Venditti: “C’è una cosa sola vera per chi spera, che forse un giorno chi mangia troppo adesso possa sputà le ossa in mezzo ai santi”. Lui precorre i tempi e manda Maria a comprare il sale inglese per dare la purga  a tutti: “Ve voglio fa’ caca’ le ossa!” grida sparando una raffica di mitra. Per fortuna la scena si immagina soltanto e la leggiamo sul giornale del mattino che è tra le mani del commissario di polizia. Questa parte è un po’ troppo lunga e pesante, si va pure fuori tema, ma la denuncia sociale è l’unica cosa che la giustifica. Dopo una breve filippica contro la pena di morte che recita un poco convincente Pino Colizzi, la polizia torna a fare retate nei sobborghi. Durante una tentata rapina viene arrestato il giovane Calogero Ciacci, nipote di Carmine Ciacci, quello che porta le provviste alla banda del Gobbo. La polizia lo segue e raggiunge il covo della banda, dove ingaggia una spettacolare sparatoria con i malviventi. Alla fine il Gobbo buca le gomme delle auto, mette fuori uso le radio e riesce a fuggire con una volante della polizia. Mentre scappa verso l’autostrada utilizza la radio di servizio e ordina di aprire i posti di blocco perchè il Gobbo è morto e il pericolo è scongiurato. Bella la sequenza che scorre sulle note di “Quanto sei bella Roma quando è sera…” che il Gobbo canticchia tra sé prima di andare incontro a una fine inaspettata.  Sulla strada, all’uscita da un tunnel, Vincenzo azzarda un sorpasso ma un gatto nero gli taglia la strada e l’auto sbanda, cadendo nel Tevere. Nello stesso tempo Monnezza a casa sua ascolta la solita canzone di Venditti e la canticchia, ma spenge la radio proprio quando sta per annunciare la morte del fratello. I due sono in simbiosi anche quando arriva l’ultima notizia per mano di Maria, che ha un pacco e una lettera lasciata dal Gobbo per il fratello. Il pacco contiene i soldi della rapina e il Gobbo scrive di utilizzarli bene durante la sua assenza, magari aprendo un piccolo locale. Lui è partito, deve stare un po’ lontano da Roma, però dice di voler bene al fratello. Il finale lascia spazio a tante possibilità, però lo spettatore si commuove davanti alla tristezza di Monnezza che adesso si sente solo.

Dopo il grande successo popolare di Roma a mano armata (1976), Umberto Lenzi torna a dirigere uno dei migliori Tomas Milian del periodo romano, quello del doppio ruolo di Vincenzo e Sergio Marazzi, il Gobbo e Monnezza, dei quali ha anche scritto tutte le battute. Tecnicamente meno valido del precedente, ben musicato da Franco Micalizzi, questo film ha ancora il vantaggio di non essere incentrato sulla figura del commissario, ma su quella dei malviventi. La polizia, infatti, è poco presente: entra in scena dopo un quarto d’ora, un poliziotto finisce legato fra i maiali, e soprattutto nel finale, non riesce a prendere il Gobbo, che muore invece per colpa del destino (un gatto nero che gli taglia la strada). Sebbene il finale sembri comico La banda del Gobbo è una delle pellicole più tristi del genere. Nel finale, sulle note di “Quanto sei bella Roma” di Antonello Venditti, la morte di Vincenzo segna il passaggio delle consegne a Sergio che da ora in poi diventerà personaggio unico nel genere. Il fratello spenge la radio nel momento in cui in cui stanno parlando della morte del fratello e quindi lo crede ancora vivo. Un finale che lasciava aperta ogni possibile continuazione (“C’ha sette vite come i gatti…”), ma che poi è stata fatta in direzione di Monnezza. Punti vitali della pellicola: la preparazione del primo colpo e tutta la sequenza nel night club. Monnezza è un ladruncolo che lavora pulito e non vuole avere niente a che fare con le armi, la sua morale è l’opposto di quella del Gobbo. Il Gobbo è un personaggio interessante, ma ancor più geniale appare la figura del Monnezza, che avevamo già incontrato ne Il trucido e lo sbirro ma che in questo film sviluppa tutte le sue potenzialità. Tomas Milian ha campo libero e perfeziona l’idea di Sacchetti e Lenzi scrivendosi tutte le battute. Monnezza diventerà un’icona del cinema di genere e soprattutto del poliziottesco, questo borgataro coatto sboccato e volgare, che dice una parolaccia ogni frase, che si arrabbia e grida di continuo, che fa le rime trucide in romanesco, colpisce la fantasia del pubblico e decreta il successo del film. Tomas Milian ha una parte importante pure a livello di conduzione della regia e direzione di certe scene che il regista non avrebbe voluto inserire. Basti pensare a quella della discoteca, dove il Gobbo ubriaco fa prendere una purga a base di sale inglese ai ricconi che defecano per terra (ma la scena si immagina soltanto), dopo aver raccontato una barzelletta sconcia. Per Lenzi questa parte rallentava il ritmo dell’azione (lui era un regista serio di polizieschi, mica un regista comico) ed era fuori luogo. Non aveva tutti i torti, però Milian la impose come parte irrinunciabile della pellicola.

Due sono le componenti base del film: la violenza nelle scene in cui il Gobbo pratica le sue vendette e la comicità grassa e volgare delle battute di Monnezza. Si tratta di un film chiave del genere poliziottesco, soprattutto innovativo per il modo in cui affronta la materia. Fa un po’ rabbia leggere Pino Farinotti quando dice che secondo lui è soltanto “una pellicola imperniata sulle gesta di un banditello di borgata detto il Gobbo”. La pellicola segna la fine della collaborazione tra Umberto Lenzi e Tomas Milian. Forse il cubano aveva voluto strafare e si era avvalso troppo della sua popolarità per controllare regia e montaggio, pare che per un accordo con la produzione fosse lui ad avere l’ultima parola su tutto. Lenzi era un regista affermato e non poteva tollerare simili ingerenze, soprattutto perché non approvava le brusche sterzate verso il trucido che la pellicola aveva subito durante la lavorazione. Lenzi avrebbe voluto tagliare in fase di montaggio le scene dove Tomas Milian si era lasciato andare a una recitazione ai limiti del turpiloquio, ma la produzione glielo vietò. In ogni caso il film fu un successo incredibile e incassò oltre un miliardo e mezzo, secondo noi proprio per merito della recitazione sopra le righe che Lenzi voleva eliminare. Tomas Milian ebbe il coraggio di costruirsi su misura un personaggio da trucido, si scrisse le battute, impose certe sequenze, e alla fine i fatti gli dettero ragione. Milian spinse il suo personaggio verso una volgarità estrema e inventò pure certe battute in romanesco con la rima che ripeterà spesso nei film successivi e che incontrarono il gusto del pubblico. Fu una scommessa vinta perché il regista non credeva che certe situazioni potessero funzionare, le vedeva cose gratuite e fuori luogo. Peccato solo che Milian si troverà ingabbiato nel cliché del coattone trucido e si vedrà proporre soltanto parti da recitare ai limiti del turpiloquio. L’evoluzione del Monnezza infatti porterà alla variante poliziottesca del maresciallo Nico Giraldi che impegnerà Milian per ben undici film non tutti di buon livello.

Per capire la genesi di Monnezza, del Gobbo e di Nico Giraldi è interessante riportare una dichiarazione di Tomas Milian che abbiamo letto su “Er cubbano de Roma” di Navarro e Zanello: “Io non frequentavo attori stranieri in Italia. Gli americani per me andavano bene in America. Qui, non so perché, mi sembravano fuori posto. Oltretutto dovendo fare l’attore in Italia volevo frequentare gli italiani. Quelli veri, del popolo. E quando diventavo loro amico, io ero un ragazzo come loro e viceversa, senza distinzioni di classe. Così cominciai a imparare il romanesco, e mi piacque molto anche la mentalità romana. Assorbivo le parolacce, che però per me non volevano dire niente, erano un suono che sapevo avrebbe fatto ridere il mio interlocutore e me appresso a lui. Tutto questo mi è poi servito molto nella mia terza fase cinematografica”.

A proposito della paternità dei personaggi del Gobbo e del Monnezza abbiamo avvicinato Umberto Lenzi per fare chiarezza sulla questione. “Ho sempre riconosciuto, in tutte le interviste, che il personaggio di Monnezza lo ha inventato Sacchetti. E che il mio apporto è stato quello che svolge ogni regista traducendo in immagini un personaggio esistente solo sulla carta. Per quanto riguarda il Gobbo, basta leggere bene i titoli di testa del film che dicono testualmente: soggetto di Umberto Lenzi, sceneggiatura di Dardano Sacchetti. Il personaggio del Gobbo era nel soggetto da me scritto, ispirato a un personaggio reale, conosciuto nella mia adolescenza a Massa Marittima. Significherà qualcosa, penso, che nel sequel La banda del Gobbo, l’autore del soggetto e della sceneggiatura sia il solo Umberto Lenzi. Basta vedere i titoli di testa del film e magari pure il programma di Sky “Italia 70 – Il cinema a mano armata” che sulla figura del Gobbo ribadisce quanto sopra”.

Per il personaggio del Monnezza c’è da dire che Milian, per alcuni atteggiamenti gestuali e verbali (poi ripresi anche nella serie dell’ispettore Giraldi), si è ispirato alla sua controfigura Quinto Gambi. Sacchetti ha inventato la maschera del Monnezza, tradotta in immagini da un regista valido come Umberto Lenzi e perfezionata dalla grande abilità recitativa di Tomas Milian. Per quel che riguarda Il Gobbo, invece, viene prima il soggetto di Lenzi che modella il personaggio sulla figura di un macellaio di Massa Marittima e dopo c’è il lavoro di sceneggiatura in collaborazione con Dardano Sacchetti.

(3/6 – fine)

Gordiano Lupi