UN CANNIBALE DI NOME DEODATO: IL CINEMA THRILLER – HORROR DI UN REGISTA AMERICANO 16

Appendice I

Il Peplum di Deodato: da Ursus ai Barbarians

Il filone storico-mitologico, sorto nel 1949, toccò nei primi anni Sessanta il successo mondiale mescolando culturismo, lusso e sensualità con avvincenti serie eroiche. Il cinema hollywoodiano promosse soprattutto l’aspetto spettacolare e kolossal del genere, ma anche il cinema italiano contribuì con un vero e proprio apporto stilistico. Il successo di Fabiola (1949) di Alessandro Blasetti dette il via a una produzione incessante che ebbe successo di pubblico pur senza mostrare l’incredibile impatto dei mezzi scenici di Hollywood. In breve tutto il genere peplum si caratterizza  per lo svolgersi di avventure a tema fisso, con varianti tratte dalla mitologia o dalla storia antica, unite a elementi puramente fantastici. Il peplum italiano di Riccardo Freda, Mario Camerini, Pietro Francisci, Guido Brignone, Vittorio Cottafavi, Carlo Campogalliani, Mario Bava e Sergio Leone mette in evidenza l’esistenza di certi elementi comuni, quasi topici. Anche Ruggero Deodato non farà eccezione a questi schemi. Sentimenti e idee liberali come la Libertà, la Fratellanza e la Uguaglianza fra gli uomini vengono espressi non in modo aulico o retorico, bensì popolare. L’eroe della storia va a incarnare le aspirazioni e le ragioni degli oppressi, mente stereotipi morali e sessuali vengono ambientati in luoghi e periodi storici molto lontani da noi (Atlantide, Troia, Impero romano, Egitto dei faraoni e di Cleopatra, Israele della Bibbia o Perù). La forte sensualità delle maggiorate e dei “muscle-men” distingue il peplum italiano rispetto alla spettacolarità dei kolossal alla “Ben Hur” degli studi di Hollywood.

Le favole mitologiche del peplum in Cinemascope sono delle metafore della libertà personale e collettiva collocate in epoche antiche, spesso in età pre-cristiana, in un’atmosfera mitica di colori dominata dal rosso. Pur mancando di attendibilità storica e caratterizzate da un forte mix di mito e sensualità, hanno spesso implicazioni umanitarie. Dopo il successo di Ercole e la regina di Lidia (1959) di Pietro Francisci, lo stereotipo dell’uomo muscoloso (modello Ercole di Steve Reeves) viene completato dalla figura della maggiorata di turno (Sylvia Lopez, Sylva Koscina, Gianna Maria Canale, ecc.) in abito sexy. Dove esiste una lotta tra la giustizia e l’ingiustizia compare l’eroe incorruttibile dedito al bene. In questa figura dai pettorali e i bicipiti gonfiati possono dunque concretizzarsi le istanze di giustizia e buon governo. L’eroe del peplum (sia esso Maciste, Ursus, Ercole, Golia o Sansone) percorre regioni e periodi differenti della Terra e della storia, come un giramondo, allo scopo di liberare gli oppressi dalla Tirannide, riuscendo sempre a sfuggire alle insidie di perfide regine e di crudeli usurpatori.

La figura di Ursus compare per la prima volta nel romanzo storico d’appendice del polacco Henryk Sienkiewicz “Quo Vadis” (1894-96), come il lottatore e martire cristiano che vince il gladiatore Crotone e difende nell’arena la vergine Ligia. Come riduzioni filmiche di questo romanzo, al pari del famoso “Fabiola” del Cardinale Nicholas Patrick Wiseman opera di commistione Peplum/Peccato (per M.D. Cammarota Jr.), si ricordano l’Ursus  muto (1922) di Pio Vanzi con Bruto Castellani nei panni dell’eroe della produzione romana, il dannunziano Quo Vadis? del 1924, il bellissimo kolossal MGM di Mervin Le Roy, Quo Vadis? (1951) e la recente versione televisiva di Franco Rossi (1985). Campione della civiltà cristiana, il gigante Ursus è un figlio dei Solymi della Licia che vive  a Roma da schiavo in una famiglia patrizia cripto-cristiana che ha adottato la sua protetta Licia. Nella lotta contro il toro nel Colosseo, viviamo lo scontro di due civiltà, la pagana di Petronio Arbitro e la cristiana di San Pietro e Licia, che si conclude con la vittoria del Cristianesimo e l’ignominosa fine di Nerone.

Meno popolare di Ercole e Maciste, Ursus divenne purtroppo una figura “fortemente ridimensionata o, quanto meno, per certi versi, ridotta ai minimi termini” (M.D. Cammarota Jr.) nel panorama peplum degli Anni 60 con nove film assai poco coerenti fra di loro. Gli Ursus di questi film si distanziano nettamente dall’eroe cristiano di Sienkiewicz e hanno tutti differenti ritratti. Se l’Ed Fury dell’Ursus (1960) di Carlo Campogalliani alla ricerca dell’amata Attea (Moira Orfei) resta una figura incolore in una stravagante scenografia, nell’Ursus nella valle dei leoni (1962) di Carlo Ludovico Bragaglia l’eroe lotta come Tarzan e il biblico Daniele in uno staterello inventato del Medio Oriente e usurpato da Ajak (Alberto Lupo). Altri regni favolosi dell’Oriente fanno da sfondo alle vicende de La vendetta di Ursus (1961) di Luigi Capuano e di Ursus e la ragazza tartara (1961) di Remigio Del Grosso: qui l’eroe è il contadino polacco del Seicento Joe Robinson che combatte le orde tartare. Dan Vadis, novello Spartaco, interpreta un Ursus gladiatore ribelle a Roma nel movie di Domenico Paolella del 1962, mentre Milla (Claudia Mori) con lo spietato zio Amilcare (Adriano Micantoni) viene punita da Ed Fury  quale Ursus nella terra di fuoco (1963) di Giorgio C. Simonelli, che adempie alla missione di ristabilire sul trono il re Lotar (Nando Tamberlani).

Arriviamo finalmente al 1964, anno di produzione del film Ursus il terrore dei Kirghisi girato da Ruggero Deodato sotto la supervisione di Anthony M. Dawson, cioè Antonio Margheriti. Considerato un capolavoro da J.P. Bouyxou, Ursus è un peplum bizzarro. Infatti, anche con Ruggero Deodato, non ritroviamo più il colosso Ursus, il bravo e altissimo Dubby Baer del Quo Vadis? di Mervin Le Roy, bensì un personaggio sienkiewicziano in altri strane vesti. Non siamo più nell’antica Roma di Nerone ma nell’Asia centrale russa, tra Circassi e Kirghisi, in un’ambientazione geografica che ci ricorda i luoghi di Michele Strogoff. I Kirghisi sono un popolo di razza mongoloide che parla una lingua turca e vive oggi nel Kirghizistan, tra kazachi, uzbechi e tagiki, mentre i Circassi (Čerkess) sono bianchi del Caucaso occidentale (Karačajeva-Čerkessia), abili allevatori di cavalli e con donne molto belle. Nel film il principe Zereteli ricorda un mongolo e il regno kirghiso è appunto un khanato, mentre i Circassi non si distinguono dai greci di Ercole o dai romani dell’originario Ursus di Sinkiewicz.

Alcune scene del film di Deodato sono molto belle, degne del miglior cinema kolossal, e rimangono nella memoria. Ricordo la battaglia nella città kirghisa tra idoli a più braccia, gli scontri armati durante il furioso incendio del villaggio circasso di Melina nonché la rottura della palizzata del fiume operata da Ursus – un eroico Ercole nelle stalle di Augias – per spegnere il fuoco nel bosco.

Il film, prodotto dall’Adelphia, musicato da Franco Trinacria e liberamente ispirato al terrificante “Strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde” di Stevenson,  mescola i generi peplum e horror nella trasformazione paralicantropica dell’eroe circasso Ursus, ben interpretato dal bravo culturista Reg Park.

Questa la trama da risvolti imprevisti. Un uomo mostruoso, sanguinario e terribile, soprannominato l’Avvoltoio, compie stragi notturne ed è stato visto scorrazzare in una valle asiatica. Viene inseguito rapidamente dai Circassi a piedi e a cavallo. Egli cade in una trappola, ma si scopre con stupore che la preda non è lui bensì Ido (un iperattivo Ettore Manni), il fratello di Ursus, l’eroe dei Circassi dai grossi pettorali e gli enormi bicipiti. Intanto tra i Kirghisi governa la bellissima Aniko (interpretata dalla mora Mireille Granelli) che il minaccioso e crudele principe Zereteli (un barbuto e forte Furio Meniconi), reggente di Sula e assassino del gran Khan, ha intenzione di sposare contro il suo volere. Per questo Aniko, futura regina di Sula, complotta con Ursus contro l’ambizioso reggente.

Nella scena successiva assistiamo a una gioiosa festa circassa serale con mangiatori di fuoco, giocolieri con le torce, saltatori acrobatici e la bionda Kato (Maria Teresa Orsini), la bella schiava smemorata di Ursus il quale non può fare a meno di commentare, ironico, il “vizio dei balli, canti e feste” dei Circassi. All’improvviso arriva un messaggio di Aniko per Ursus che deve abbandonare la festa, lasciando sola e corrucciata Kato. Scopriamo così che Aniko e Ursus si amano nella grande Grotta del Falco, caverna con stalattiti e vari antri. Intanto in una pomposa riunione dei capi di tutte le tribù kirghise sobillate dal crudele reggente si progetta la guerra tra Kirghisi e Circassi con la scusa del mostro. Sotto la stella kirghisa a otto raggi, il reggente difatti dichiara a gran voce che l’apparizione dell’Avvoltoio è la più astuta provocazione circassa per portare il disordine e lo scompiglio tra i Kirghisi e Ursus, essendo legato al mostro, è quindi responsabile. Scopo di Ursus sarebbe allora quello di scatenare una feroce guerra fratricida. In tal modo il principe Zereteli riesce ad ottenere dai Kirghisi riuniti i pieni poteri secondo la sacra formula della legge kirghisa. Il mostro continua i suoi attacchi e sta per uccidere Ilo nel villaggio quando le grida di Kato riescono a farlo fuggire. A terra rimane il pugnale del mostro, un’arma di Ursus, mentre si scopre che lo stesso cane da guardia dell’eroe non ha abbaiato alla comparsa del mostro. Si sospetta allora che il mostro e Ursus siano la stessa persona. Forse l’eroe ha subito una misteriosa mutazione licantropica…

Ido intercetta un messaggio di Aniko diretto a Ursus: “Non mancare. Ti aspetto al solito posto” e corre alla Grotta del Falco dove trova Aniko che aspettava il suo innamorato. Aniko apre una porta segreta che conduce a una grotta interna, un nascondiglio dove dà del vino da bere a Ido, ma il vino è drogato e l’uomo crolla addormentato. Ci si rende conto allora che non si tratta di vino ma di una pozione magica capace di trasformare gli uomini in pericolosi esseri animaleschi. Nella notte il mostro dal mantello nero aggredisce e uccide i Circassi con grida bestiali. Ora il mostro è Ido trasformato dal filtro di Aniko. Attacca anche Ursus, ma nella lotta non resiste alla gragnola di pugni e calci dell’eroe e scappa. L’episodio assume toni horror: l’Avvoltoio aggredisce, salta come un canguro impazzito e svanisce nel nulla come Fantomas, confondendosi con il buio pesto della foresta. Nascosto dunque nella boscaglia, il mostro, non ancora sconfitto,  piomba da un albero di nuovo su Ursus, lo atterra e fugge. In questa scena vediamo meglio com’è fatto l’Avvoltoio: è un essere spaventoso dal volto tumefatto, peloso e alterato con fattezze scimmiesche, un individuo teriomorfo come il famoso mister Hyde di Stevenson.

Ursus, gravemente ferito dall’Avvoltoio, viene portato in barella da Amko (Piero Pastore)  presso un anziano santone delle montagne affinché lo guarisca. Il principe Zereteli approfitta dell’occasione per attaccare in modo proditorio, in piena notte, il villaggio circasso di Melina, sguarnito di guardie, tutte a caccia dell’Avvoltoio. La scena dell’aggressione è girata da Deodato con perizia e pathos degno dei migliori film di cappa e spada. La cavalleria del principe Zereteli riesce a espugnare il forte che, dopo estenuanti e violenti scontri a corpo a corpo con le spade, finisce per essere incendiato. Efficaci i duelli nel campo, tra le fiamme che divorano Melina, che dimostrano buona lezione di scherma. Dalla foresta gli uomini di Ursus vedono Melina in fiamme e apprendono da un mercante ferito (precedentemente indottrinato da Zereteli) che l’Avvoltoio ha attaccato il villaggio. Se da un lato i circassi dal mantello rosso portano Ursus dal santone in una spelonca illuminata dalle torce, dall’altro suo fratello in caccia del mostro (ma l’Avvoltoio era proprio lui stesso) scompare e viene ritrovato dai compagni nella foresta disarcionato dal cavallo. Ido e Mico (Nino Fuscagni) incappano poi nei nemici e riescono a fuggire entrando nel nascondiglio della Grotta del Falco. L’incontro del santone in turbante con Kato e Ursus è un altro pezzo interessante di questo film dove scene violente si alternano a momenti d’amore, con continui cambi di registro. Davanti a un idolo vampiresco di marmo, il santone guaritore s’improvvisa filosofo con la bella frase “la vita viene nel dolore e molte volte il dolore ridà la vita”. Provando l’assunto, egli cicatrizza la ferita di Ursus con un ferro arroventato. L’eroe convalescente viene poi aggredito senza successo da un sicario che ferisce solo la bionda Kato.

Altro cambio di scena. Nella Grotta del Falco Ido e Mico non riescono più a uscire dal nascondiglio, chiuso da una porta che si apre con una leva nascosta nella roccia, e vengono sorpresi dal mostro (ma adesso chi è?) che uccide Mico gettandolo in una fossa. Ido lotta vanamente contro l’Avvoltoio che riesce a fuggire. L’arrivo della bella Aniko permette l’uscita di Ido, ma sopraggiunge il principe Zereteli che lo cattura e insegue Aniko di nuovo nel nascondiglio, dove viene imprigionata dal masso riposto sulla porta dai Kirghisi. Nel frattempo Ursus comanda la riscossa contro Zereteli, attacca la città kirghisa, sbaraglia i nemici con lotte furibonde dove fa mostra dei suoi muscoli, imprigiona Zereteli nei sotterranei, libera Aniko e le rivela che Kato è la figlia del Khan e unica pretendente al trono. Aniko, gelosa di Kato, allora fa bere del vino (anzi il filtro magico di colore rosso) a Ursus. Finalmente lo vediamo ora trasformarsi nell’Avvoltoio, mostro orribile schiavizzato (“terribile automa da comandare a piacimento”) che esegue i comandi di morte della strega Aniko: uccidere la concorrente Kato, gettandola nelle fiamme del bosco. Tuttavia l’intervento di Ilo fermerà la mano della strega assassina in pieno delirio di onnipotenza (“con la mia magia e la forza di Ursus avrò il mondo ai miei piedi”). Aniko precipita nel fosso sotto la spada sguainata da Ilio e il segreto della sua stregoneria contenuto nella fiasca si perderà nel terreno, restituendo automaticamente a Ursus le sue vere sembianze. L’eroe ritorna quello di prima e, spento l’incendio boschivo rompendo con un masso una diga, bacerà la sua nuova regina, Kato.

Non è  la regina Aniko (come scrive il Mereghetti) a trasformarsi nell’Avvoltoio, bevendo il filtro magico, ma sono prima Ido e poi lo stesso Ursus che si sdoppiano in questo alter ego mostruoso. In definitiva il film di Ruggero Deodato risulta tuttora un apprezzabile movie, caratterizzato dal complesso intreccio della trama dove la sorpresa finale assurge a topos fondamentale di tutta la vicenda. Lo sdoppiamento dell’eroe di origine romantica viene calato nel mondo orientaleggiante dei popoli dell’Asia centrale, realizzando un peplum originale con Ursus-Reg Park migliore del solito Ed Fury e certamente assai più credibile ed espressivo.

Negli anni Ottanta, con il ritorno del Peplum in versione Heroic Fantasy (si parlerà di Neopeplum) dovuto al successo di Conan il barbaro di John Milius, di Conan il distruttore e Yado di Richard Fleischer nonché di Excalibur di John Boorman, troviamo un Deodato al passo coi tempi. Finita l’era degli Ursus erculei spazzati via dall’avvento di nuovi eroi moderni come 007-James Bond, solo la rivisitazione filmica dei romanzi di Robert E. Howard e del ciclo bretone fa risorgere il genere del film “leggendario” che si pensava ormai condannato all’oblio. Chi vede The Barbarians & Co. (1987)  può benissimo scambiarlo per un prodotto americano sul modello di Conan il barbaro. Deodato recepisce la lezione di John Milius con un lungometraggio in 89’ all’insegna del divertimento, dell’evasione e della rimozione del fruitore.

Considerato dalla rivista “Nocturno” come uno dei miglior film di Ruggero Deodato, The Barbarians & Co. (I fratelli barbari) è stato prodotto da Menahem Golan & Yoram Globus per Cannon Productions e distribuito dalla Warner Bros. Il film è sceneggiato da James R. Silke, con scenografia di Giuseppe Mangano e fotografia di Lorenzo Battaglia, dialoghi di Ricky Sacco, coreografie di Giuseppe Pennese, musica di Pino Donaggio, montaggio di Eugenio Alabiso, arredi di Giancarlo Capuano e costumi di Francesca Panicali (quelli dei gemelli Paul sono preparati da Michela Gisotti). Ronnie Jackson canta “Ruby Dawn” e i gemelli culturisti Peter e David Paul interpretano Kutcher e Gore adulti, i protagonisti vincenti della storia. Il film mi pare molto divertente con questi gemelli (i fratelli barbari) ipertrofici dagli enormi muscoli innaturali alla Schwarzenegger, gonfiati a forza di siringhe piene di anabolizzanti, bravi ma un po’ sciocchi (chi non ricorda esterrefatto i loro versi gutturali per liberarsi dal cappio o davanti alle donne?), mentre i costumi d’arte marca Peruzzi, le calzature Pompei, le parrucche Rocchetti-Carboni, i gioielli di Nino Lembo e le armi di Umberto D’Aniello degli attori ricordano la moda post-atomica della serie Interceptor (Mad Max) con Mel Gibson, di 1997 – Fuga da New York con Jena Pliski (Kurt Russell) o del 3° Mad Max con Tina Turner. Il critico Paolo Mereghetti liquida però il film  come “roboante e ingenua ostentazione di muscoloni all’italiana”, allietato solo da discinte barbare (nell’harem di Kadar vediamo principesse in topless). Secondo Claudio Asciuti e Riccardo F. Esposito lo spettatore si proietta nel protagonista eroico (Conan, Yado, Ator, Gunan, Yor, Kaan, i fratelli barbari, ecc.) capace di superare ogni avversità, toccando una forma estrema di “narcisismo infantile”. Tuttavia credo che Deodato abbia dato al neopeplum un buon film che può essere visto tuttora con piacere, al di là delle accorte analisi psicoanalitiche dei critici.

L’epoca in cui si svolge l’azione è totalmente svincolata dalla  consueta determinazione cronistorica di Ursus. Il film è girato nei pressi di Roma (Torcaldara), con bellezze italiche (come Raffaella Baracchi nei panni di Allura, moglie di Ibar), in un’epoca lontana, tipica delle favole (“c’era una volta”: così comincia il film in un cimitero tribale), in “un mondo di selvaggio splendore, un mondo incantato e dominato dal mistero, da demoni e dalla magia”. Dalla voce fuori campo di questo Prologo si apprende che all’epoca l’umanità era dominata dalla spada e che solo la tribù dei Ragniks aveva diritto di libero passaggio. I loro antichi re avevano barattato una montagna d’oro nascosta a Laintri per uno splendido rubino, un magico talismano che racchiudeva il segreto della musica, della gioia e della bontà. Per questi i Ragniks erano teatranti, saltimbanchi, giocolieri, lanciatori di coltelli, mangiatori di fuoco, musicisti e cantastorie, venendo accolti dovunque dalla popolazione con gioia. Adottarono anche i gemelli Kutcher e Gore e la piccola Kara cui impressero sul collo il marchio della strada aperta. Intanto il rubino passava di mano in mano, di generazione in generazione finché la bella regina Canary (la bionda Virginia Bryant) divenne l’ultima custode della magica pietra preziosa.

Mentre ascoltiamo il Prologo vediamo i carri trainati da cavalli bianchi dei Ragnicks che percorrono la lunga pianura in cerca di nuove piazze. All’improvviso, però, la carovana circense guidata da Ibar (Franco Pistoni) e Canary viene aggredita, dopo un lungo inseguimento, dagli orribili cavalieri di Kadar (il bravo Richard Lynch, già santone suicida di Inferno in diretta), un malvagio sovrano simile al Maax di Kaan principe guerriero di Don Coscarelli, che vuole impossessarsi del magico rubino. Dopo una strenua lotta con vittime da ambo le parti, nella quale vengono agitate armi di tutti i tipi (coltelli, spade, mazze, balestre, fuoco e una palla di vetro esplosiva di Ibar), la carovana malconcia viene fermata in una gola da Kadar e catturata. Durante la lotta tuttavia un fedele servitore di Canary si è lanciato dal carro in fuga, salvando il rubino e portandolo nelle terre proibite di Laintri, la tomba vivente custodita da un dragone, che può esser sconfitto solo con le armi dell’antico re dei Ragnicks. Bloccati i multicolori Ragnicks, Kadar incatena Canary per il suo harem, ma i piccoli gemelli si ribellano alle sue prepotenze e uno di loro, con un morso, mozza di netto l’indice e il medio della mano destra di Kadar: dura scena splatter & gore  alla Mad Max 2 (dove una lama boomerang amputa il dito di un motociclista cattivo) che ritroviamo quando i prigionieri sono portati nella città di Kadar e un ladro s’impossessa dell’anello d’oro di un uomo tramortito sul fieno, tagliandogli il dito. Nel duello della fossa anche uno spettatore perde un braccio tranciato dal colpo di spada di un gemello. Gli effetti speciali di Fabio Traversari & Edmondo Natali nel primo tempo sono pochi e questi sono quelli che restano più impressi, mentre il finale è dominato dalla spaventevole figura del drago che si avventa contro i nostri eroi e da un combattimento in cui sono risaltano le armi D’Aniello.

Anche in questo film Richard Lynch, mostra tutta la bravura di un attore consumato, impersonando perfettamente un soggetto violento e ambiguo come il re Kadar, contrapponendosi alla dolcezza di una regina come Canary. Degna compagna nella crudeltà di Kadar è una strega o maga nera, China (la mora Sheeba Alahani dagli occhi di fuoco e l’elaborata acconciatura ad anello) che odia i gemelli e li vuole morti. Quando Kadar ha imprigionato i fratelli barbari ha promesso loro che non dovevano morire né per mano sua né per mano dei suoi sudditi, ma China aggiunge che dunque dovranno morire soltanto “per loro stessa mano” e per questo destino vengono addestrati nella prigione detta La Fossa. Tenuti separati, lavorano come forzati alla maniera di Conan. I Barbarians, come Conan, sono preparati, sul modello delle scuole romane dei gladiatori (chi non ricorda la scuola di Capua di Lentulo Batiato/Peter Ustinov in Spartacus di Stanley Kubrick o la coppia Anthony Quinn-Vittorio Gassman nel Barabba di Richard Fleischer?) a ogni tipo di lotta e combattimento. Ciononostante si ribellano ai loro aguzzini (si ricordi l’espressivo Signore della polvere Michael Berryman, con un corno legato alla fronte) e vengono puniti da due uomini misteriosi con il volto coperto da un elmo, nero per un gemello e d’ottone per l’altro, cosicché i fratelli imparano a odiarli. Divenuti adulti dovranno indossare quegli stessi elmi e in tal modo trovandosi di fronte l’odiato aguzzino lo combatteranno con la spada dentro la fossa, come i gladiatori del Colosseo. Qui le riprese della m.d.p. sono state eseguite in un corridoio molto stretto per dare l’impressione di una moltitudine di comparse, in realtà assai poche. L’effetto ottico della grandiosità della lotta (curata da Benito Stefanelli) è ad arte dovuto alle riprese dall’alto e dal basso, agli zoom. Dedodato evita appunto la panoramica. I gemelli Paul lottano tra di loro in modo veramente realistico ma ciò riflette la loro innata litigiosità e gelosia, tant’è vero che spesso litigavano davvero sul set, prima dei ciack. Inoltre l’idea dello scambio degli elmi è veramente geniale, ma non servirà a impedire che i due fratelli scoprano l’inganno (dopo essersi fracassati a vicenda gli elmi) e fuggano da Kadar verso la libertà, nella foresta.

La dolorosa prigionia e il duello catartico dei gemelli rientra nell’idea cavalleresca della prova, nella forma iniziatica della cerca del rubino=Graal. Nel neopeplum cambiano spesso gli oggetti sacri, oggetto della ricerca, ma la filosofia è sempre la stessa. Se Conan il distruttore va a recuperare il corno di Dagoth, qui ci scanna per un grosso rubino: si tratta della necessaria purificazione per la conquista del Rubino, dove l’arte della spada (il segreto dell’acciaio rubato dai giganti al dio Crom in Conan il barbaro) evidenzia lo sforzo necessario dell’eroe per raggiungere la meta liberatoria. Nella foresta i fratelli Paul s’imbattono in una prigioniera, una giovane e selvaggia fuorilegge chiamata Ismene (Eva La Rue), invero una amazzone che li aiuta a entrare nel regno di Kadar. Eva La Rue ricalca il personaggio di Zula (Grace Jones), l’inconsueta partner di Schwarzy in Conan il distruttore. Anche in The Barbarians & Co. lo stereotipo della donna è quello solito della comprimaria  degli eroi gemelli, mentre l’eterno femminino della femme fatale, impersonato qui dalla perfida China, simile alla feroce regina Tamaris di Conan il distruttore, è destinato alla distruzione. Così la funzione complementare di Valeria e Zula del ciclo di Conan o di Brigitte Nielsen in Yado, viene assolta per i fratelli barbari da Ismene.

Ritrovati allora Ibar e i suoi Ragnicks, Kutcher e Gore vengono riconosciuti da Allura e reintegrati nella tribù, dopo essere scampati all’impiccagione grazie solo alla loro enorme forza muscolare. Ma per combattere Kadar ci vogliono le armi e Ismene conduce i gemelli da Jacko in cui riconosciamo il cannibale George Eastman (Luigi Montefiori) di Antropophagus. Per Jacko bisogna ricordare la notevole sfida a braccio di ferro e la rissa conseguente dove i gemelli appaiono invincibili come Ercole, Ursus o Conan. Giunti nel regno di Kadar da un passaggio segreto, Kether e Gore trovano la regina Canary che consiglia loro di andare nella palude di Laintri a riprendersi il rubino magico. Nelle terre proibite Ismene e i fratelli Paul trovano in una tomba armi ed elmi d’oro come successe a Conan il barbaro, inseguito dai lupi e finito dentro una torre di Crom. L’arciere Ismene in elmo e corazza dorati sembra Minerva. A Laintri la scena assume toni horror. Gli eroi lottano contro un licantropo dentro la tomba, poi nella palude si sbarazzano di due mostruosi uomini pesce (ricordano il mostro della Laguna Nera di Jack Arnold) e, infine, affrontano il dragone che sembra un serpentone che esce sbuffando da una specie di cannone.

Anche gli avversari capeggiati dalla tenebrosa China, estorto con la tortura da Canary il segreto della localizzazione del rubino, si avventurano nella pericolosa palude per sottrarre ai Ragnicks la pietra magica (finiranno poi divorati dal mostruoso drago), ma spetterà ai nostri eroi riconquistarla, dopo aver sventrato il dragone, e a Ismene riportarla intatta da Ibar. In verità il potere della forza del rubino, nascosto nelle terre proibite, era la regina Canary, viveva cioè nascosto veramente nel suo cuore. Una volta però uccisa Canary da Kadar nella palude, il rubino si spegne e perde tutto il suo potere e la tribù dei Ragniks deve procedere alla proclamazione di un’altra regina, una vergine dal cuore puro, mettendo nel suo ombelico la pietra magica. La nuova regina si rivelerà essere la guerriera Ismene, in realtà la piccola Kara, adottata assieme ai Barbarians. Il film si chiude con la sconfitta di Kadar in un epico scontro con i gemelli e con la ricomposizione della famiglia dei Barbarians.

Usciamo dalla sala di proiezioni divertiti e soddisfatti da questo film neo-heroic-fantasy e in Deodato con piacere possiamo ritrovare gli eterni valori del neopeplum all’italiana, cioè  l’iniziazione, la prova dei gemelli, l’elogio della forza, del coraggio e dei muscoli, l’onestà vincente e la purezza del cuore.

(16 – continua)

Maurizio Maggioni