FANTASCIENZA STORY 265

ODISSEE DALLO SPAZIO E SULLA TERRA (2018)

In Ready Player One (Ready Player One) di Steven Spielberg nel 2045 la Terra è inquinata e sovrappopolata e la massa dei poveri vive in baraccopoli basate sull’accumulo. L’adolescente Wade (Tye Sheridan) è un fanatico di videogiochi e cultura anni ‘80, ma è anche un Gunter, vale a dire partecipa a una gara indetta prima di morire dal magnate James Haliday (Mark Radiance), fondatore della società informatica e di videogiochi OASIS: nel mondo virtuale OASIS esistono tre chiavi che svelano un enigma, e chi le troverà erediterà il patrimonio della OASIS e ne diventerà il CEO. Fra i concorrenti c’è un’intera squadra alle dipendenze della IOI, una società concorrente diretta da Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn), che mira al controllo assoluto del mercato. Wade entra di continuo in OASIS con il suo avatar Parzival, dove incontra i suoi amici virtuali Aech e Art3mis, i cui corrispettivi nel mondo reale (sconosciuti a Wade) sono rispettivamente Helen (Lena Waithe) e Olivia (Samantha Cook). Wade riesce a ottenere la prima chiave, e la lotta dei nostri eroi con la IOI diventa senza esclusione di colpi, virtuali e reali… Tratto dal romanzo di Ernest Cline, Ready Player One è un film per adolescenti tutto giocato sull’alternanza fra riprese con attori dal vivo e animazioni digitali, in un mix così stretto da rendere difficile a uno spettatore comune la differenza fra i due sistemi. Un film in realtà non così innovativo, debitore com’è di un film ben più rivoluzionario e anticipatore come Tron (Tron, 1982), che affrontava temi e stili simili con minori mezzi e più coraggio. Ready Player One comunque è uno spettacolo piacevole e divertente, le cui ingenuità e i cui semplicismi sono inevitabili dato il pubblico a cui il film mira. Strabordanti le citazioni dal cinema e dai videogiochi degli anni ‘70 e ‘80 (nel romanzo abbondano quelle dai film di Spielberg, che nel film sono molto ridotte per signorile modestia del regista), ed è spassosa la lunga citazione-parodia di Shining (The Shining, 1980), che usa spezzoni originali del film rielaborandoli digitalmente.

Passiamo a Solo – A Star Wars Story (Solo – A Star Wars Story) di Ron Howard, secondo episodio della serie Star Wars – Anthology, questa volta dedicato alla giovinezza del contrabbandiere Han Solo (Alden Ehrenreich). Scopriamo così come il Nostro abbia acquisito il suo cognome, il suo amore per Qi’ra (Emilia Clarke), come sia entrato nella banda del mercenario Beckett (Woody Harrelson), come abbia conosciuto Chewbacca (Joonas Suotamo), e abbia lottato per la prima volta per la Resistenza contro Dryden Vos (Paul Bettany), boss criminale legato all’Impero. Il film fu iniziato dalla coppia di registi Phil Lord e Christopher Miller, che furono però licenziati dalla produzione e sostituiti da Ron Howard. Personaggi ben sbalzati in una solida sceneggiatura scritta dal veterano Lawrence Kasdan, una regia ritmatissima e ironica, e non dimentichiamoci  un montaggio sincopato e puntualissimo curato dal grande Pietro Scalia: tutto concorre a far sì che Solo sia il migliore fra gli Star Wars dell’era Disney.

Con La particella di Dio (The Cloverfied Paradox) di Julius Onah siamo nel 2028 e la Terra è in preda a una crisi energetica mondiale. Così la stazione orbitante Cloverfield diventa la sede di un audace esperimento: un acceleratore di particelle verrà avviato allo scopo di produrre una prevista “energia infinita”. L’equipaggio della stazione è internazionale, diretto dall’americano Kiel (David Oyelowo) e composto tra gli altri dal fisico tedesco Schmidt (Daniel Brühl), dalla specialista di comunicazioni inglese Ava (Gugu Mbatha-Raw), dal medico brasiliano Acosta (John Ortiz), dall’ingegnere cinese Ling Tam (Zhang Ziyi). Dopo due anni di tentativi l’esperimento riesce, ma ha come effetto collaterale quello di creare una lacerazione nel tessuto spazio-temporale dell’universo. Così la Cloverfield si trova alle prese con ospiti inaspettati, metamorfosi corporali e vari altri pericoli, mentre sulla Terra compaiono esseri mostruosi, giganteschi  e distruttivi… Terzo capitolo della saga Cloverfield, che dovrebbe dare la spiegazione ai misteriosi avvenimenti dei due titoli precedenti, Cloverfield e 10 Cloverfield Lane, anche visto da solo, comunque La particella di Dio è un buon thriller spaziale, ben diretto e condotto… a patto di sorvolare sugli aspetti scientifici della vicenda (a cominciare dalla mancanza di fluttuazione nella stazione). Va precisato però che sia 10 Cloverfield Lane che La particella di Dio nascono da copioni originalmente slegati dal primo Cloverfield, e fu del produttore J.J. Abrams l’idea di cambiarne titoli e trame in modo da creare un legame fra tutti e tre i film.

Veniamo adesso al film Annientamento (Annihilation) di Alex Garland. Lena (Natalie Portman) è una biologa ed ex-soldatessa che si ritrova in casa suo marito Kane (Oscar Isaac), un militare in missione segreta, sparito misteriosamente un anno prima. Misteriosa è anche la sua ricomparsa, perché lo stesso Kane non sa spiegare dove sia stato, cosa gli sia successo e come sia tornato a casa. Ma a seguito di una grave emorragia interna, i due coniugi sono prelevati a forza dai militari e rinchiusi in una base segreta, dove Lena scopre che tre anni prima un faro sulla costa della Florida è stato colpito da un oggetto spaziale e da allora la zona è coperta da un inspiegabile alone che va allargandosi e che crea una zona, detta il Bagliore, in cui chi entra non fa più ritorno, e Kane faceva parte di una di quelle squadre d’esplorazione, sul cui destino non si sa nulla. Un’altra squadra sta per entrare nel Bagliore composta da cinque donne scienziate: Lena, la psicologa Ventress (Jennifer Jason Leigh), la fisica Josie Radeck (Tessa Thompson), la geologa Shepard (Tuva Novotny) e il paramedico Anya (Gina Rodriguez). Il gruppo entra così in un microcosmo in cui flora e fauna stanno vivendo metamorfosi e intrecci inspiegabili, ma forse letali per l’umanità… Nonostante lentezze e lungaggini – tipiche del regista Garland – Annientamento è un thriller suggestivo e inquietante, dove il regista mette a frutto la sua strabordante fantasia visiva e riesce a creare una tensione palpabile e minacciosa, in un sapiente intreccio di flashback e colpi di scena. I nomi delle cinque protagoniste e gli “alberi” attorno al faro sono omaggi al romanzo Mondo di cristallo di J. G. Ballard.

In The Predator (The Predator) di Shane Black, durante una missione in Messico, il tiratore scelto dell’esercito americano Quinn McKenna (Boyd Holbrok) incappa nientemeno che in un Predator appena sbarcato, ma lo uccide e preleva il suo casco e un copri-braccio. Non fidandosi delle autorità, Quinn lo spedisce al proprio domicilio come prova dello “scontro ravvicinato”. Il pacco viene ricevuto dal dodicenne  Rory (Jacob Tremblay), figlio autistico di Quinn, che lo apre e si mette così in contatto con la nave madre del Predator, da cui parte un nuovo cacciatore accompagnato da mostruosi  “cani da caccia”. Quinn viene comunque catturato, e, preso per pazzo, si ritrova con un gruppo di militari malati di mente. Insieme a loro Quinn fugge, e al gruppo si unisce la scienziata Casey Bracket (Olivia Munn), in una violentissima e stralunata lotta sia contro dei militari corrotti che contro i sempre più famelici Predator, che stavolta vogliono mischiare il loro DNA con i migliori cacciatori del cosmo, incluso un esemplare terrestre… Shane Black, oggi un affermato sceneggiatore e regista, agli inizi della carriera aveva interpretato come attore un ruolo secondario nel primo Predator (Predator, 1987). Qui dirige e co-sceneggia quello che (se si escludono i titoli della serie Alien vs. Predator) è il quarto capitolo della saga. Grazie alla trovata della squadra di militari “matti” e fuggiaschi, Black infonde al film un’insolita vena comica, la quale risulta grottescamente esasperata, invece che smorzata, da una carica di truculenza e macelleria degna di uno splatter italiano anni ‘80. Un’altra trovata innovativa e che qui gli umani sono altrettanto efferati del Predator, e, come fa notare compiaciuto lo stesso Predator, stavolta sembrano impegnati ad ammazzarsi fra di loro, ancor più che a combattere contro l’alieno. Per due terzi del film comunque il gioco regge e risulta divertente, e solo verso il finale il film crolla in un indigesto corollario di banalità mirate solo a portare a un appiccicato happy end.

Parliamo ora di Bumblebee (Bumblebee) di Travis Knight. Cybertron è conquistata dai Decepticon, e Optimus Prime manda alcuni Autobots superstiti in giro per l’universo per proteggere altri mondi dalla loro minaccia e per preparare i nascondigli di altri Autobots. Fra loro c’è B-127, che arriva sulla Terra nel 1987, ma subito viene attaccato da un Decepticon. B-127 ha la meglio ma nello scontro perde la memoria e l’uso della parola, e si mimetizza nella forma  di un vecchio maggiolino Volkswagen giallo, e così diventa il regalo di compleanno di Charlie (Hailee Stanfield), una diciottenne orfana di padre e col pallino dei motori. Charlie scopre presto che B-127 è un robot venuto dallo spazio capace di mille metamorfosi; decide così di nasconderlo temendo che diventi oggetto di studi scientifici, e gli dà il nome di Bumblebee. Fra i due nasce una grande amicizia, quasi paterna, e anche Memo (Jorge Lendeborg Jr.), un giovane spasimante di Charlie, fa la conoscenza di Bumblebee, supportandone la segretezza. Ma due Decepticon, Shatter e Dropkick, rintracciano i segnali di Bumblebee in Texas, e si alleano con il militare Burns (John Cena) e lo scienziato Powell (John Ortiz) per catturare Bumblebee. Bumblebee dovrà così lottare, oltre che contro la propria amnesia, con una vasta gamma di nemici, ma può contare sui suoi due giovani amici… In pratica un prequel della serie di Transformers diretta da Michael Bay, per trama e atmosfera ricorda piuttosto E.T. l’extraterrestre (E.T. the Exrraterrestrial, 1982) di Steven Spielberg (anche stavolta co-produttore esecutivo), e si basa molto più sui buoni sentimenti che sulle battaglie epico-distruttive. Se il tutto non brilla per originalità, l’ironia e la tenerezza di cui è impregnato lo rendono godibile, e la ricostruzione degli anni ‘80 è azzeccata e divertente, come pure è riuscita la trovata di far esprimere Bumblebee con i versi delle canzoni che il robot seleziona dalla sua autoradio. Spassoso anche l’episodio in cui internet viene in pratica inventata da Shatter e Dropkick . Anche se i combattimenti sono molto ridotti rispetto alla serie madre, Bumblebee riesce comunque nell’impresa di lanciare bombe distruttive per le cose e i palazzi, ma innocue per le persone vicine alle esplosioni.

Chiudiamo l’annata con Macchine Mortali (Mortal Engines) di Christian Rivers. Nel 21° secolo la guerra dei 60 Minuti pone fine alla civiltà umana. Mille anni dopo, i superstiti vivono in città dotate di sistemi di locomozione che le trasformano in gigantesche carovane viaggianti. Londra è una delle più ricche e potenti fra queste città, ma anche delle più fameliche, e sbarca in Europa per razziare le città piccole per i propri fabbisogni. Londra ha come unica minaccia un movimento terroristico detto Anti-Trazionista, guidato da Anna Fang (Jihae), ma  è una città in cui regnano l’agio, l’ordine e la cultura, e il suo Museo archeologico ora raccoglie i residui del 20° e 21° secolo. Dopo aver razziato una cittadina bavarese, Thaddeus Valentine (Hugo Weaving), potente direttore del Museo, viene pugnalato da una ragazza dal volto sfregiato, che dice di chiamarsi Esther Shaw (Hera Hilmar) e di voler vendicare sua madre Pandora. L’attentato fallisce per l’intervento di Tom (Robert Sheehan), un giovane dipendente del Museo, e nella sua fuga Esther finisce in un canale di scarico che la espelle dalla città. Prima però Esther rivela a Tom la sua identità, quanto basta perché Thaddeus, per zittirlo, gli faccia fare la stessa fine. I due però sopravvivono, e, sia pur riottosamente, si uniscono per sopravvivere nelle pericolose lande dell’Europa e per vendicarsi di Thaddeus, che nasconde il tremendo segreto condiviso da Esther, trovando in Anna Fang un’imprevista alleata… Tratto dal romanzo di Philip Reeve, prodotto e co-sceneggiato da Peter Jackson, Macchine mortali è l’esordio alla regia di Christian Rivers, storico collaboratore di Jackson agli effetti speciali. Una grande fantasia scenografica e i mirabolanti effetti speciali della Weta non bastano purtroppo a riscattare una sceneggiatura prevedibile e goffa, che fatica a far decollare la trama. Comprensibile quindi il fiasco commerciale del film, salutato alla fine come una bella occasione sprecata.

Mario Luca Moretti