SUCK BABY DEAD! LE NUOVE ALBE DEL VAMPIRISMO DEATH-ECONOMICO E DEI WORKING DEAD

Recentemente mi è capitato di leggere on-line un pezzo del grande Alan D. Altieri sul vampirismo contemporaneo. Mr. Apocalypse, oltre a proclamare la rinascita del genere (un altro genere che, in questi anni Zero e Dieci, è tornato a infestare tutti i media disponibili è quello dei living dead), divide in 4 classi (trend) le nuove tipologie dei succhia sangue. Ecco i trend: Vampiri classic (un classic rivisitato, pensate ad Anne Rice e al suo Lestat), Vampiri style (la gang azzurrina e fighetta di Underworld), Vampiri monstre (30 giorni di buio) e Vampiri Epidemic (Richard Matheson & I am legend).

Ok.

Proviamo per la Zona ad analizzare (brevemente of course!) alcune opere sul tema e giochiamo a inscatolarle dentro a queste quattro tipologie.

Per questioni di spazio, parlerò solo di lavori che, a mio personalissimo gusto e giudizio, sono importanti per delineare i mutamenti e le nuove caratteristiche dei malefici immortali.

Bene, partiamo.

Libri, film e fumetti degli ultimi venti/trent’anni.

Questo il campo di indagine.

Al trend Vampiri classic di Altieri io aggiungerei l’aggettivo “new”, new classic. Il classic doc è quello col conte Dracula, tutto bello azzimato coi suoi capelli e baffoni bianchi del Bram Stoker originale. Oppure il conte con frac da vaudeville nel film di Browning o il conte erotomane represso e vittoriano dei film di Fisher. I nostri succhiasangue (o succhiatrici, le mie preferite) post-moderni hanno poco da spartire con questi. I nuovi classici giocano con tutti i linguaggi e tutti i codici. Per loro lo spazio e il tempo sono veramente aboliti. Tutto convive con tutto. Tutto muore e rinasce all’infinito, senza limiti.

Prendiamo un capolavoro come Anno Dracula di Kim Newman, editato in italiano da Fanucci.

Del post-moderno letterario presenta le caratteristiche più evidenti: personaggi di fantasia presi da libri e autori diversi che convivono nel medesimo universo diegetico; Dracula e le sue incarnazioni letterarie precedenti come Elisabeth Bathory, Carmilla, Lord Rutheven (il personaggio del racconto di Polidori), il conte Orlok (il Nosferatu di Murnau) e poi l’ombra appena accennata di Sherlock Holmes (mandato in un campo di lavori forzati), Jekyll, Moreau, la regina Vittoria, Oscar Wilde, la vedova di Bram Stoker (anche lui ai lavori forzati come Holmes) e, infine Jack lo squartatore. Le prostitute uccise sono vampire che, per pochi spiccioli succhiano i clienti. L’ambiente è quello vittoriano originale, solo con un piccolo “se” fantascientifico: le vicende raccontate nel romanzo di Stoker non sono finzioni, ma reportage reali. Inoltre le cose non sono andate come nel libro: Dracula ha scannato Van Helsing e tutti i suoi nemici, ha sposato la regina Vittoria e fatto calare le sue truppe sul nuovo mondo, un mondo oscuro e violento. Poi, buona parte del libro rientra, assorbita nella canonica caccia al macellaio Jack che ammazza le vampire e le scempia come da copione. A dargli la caccia un investigatore umano e una bella vampira (la freccia dell’amore tra i due scocca prevedibilmente). Comunque la bellezza del libro sta nell’operazione generale. Le suture, le citazioni (dotte, bibliografiche) sono mimetizzate in un tessuto narrativo che non presenta pieghe evidenti, inceppature. Newman costruisce un universo credibile, con la sua logica. Caso più unico che raro, le 400 pagine del romanzo (e io sono uno che detesta le lungaggini nei books) filano via e non stufano. Certo, il succo è concentrato in un paio di scene memorabili. Una è quando il dottor Jekyll e il dottor Moreau dibattono sulle peripezie di Jack from hell. Jekyll e Moreau si chiedono quali differenze intercorrono tra la violenza infantile dello sventratore e quella dei vamp. Cosa sono i vampiri in fondo? Cos’è l’umanità? Le conclusioni? L’uomo è intrinsecamente un bruto e questo è il suo segreto, la sua carta genetica per scalare la piramide di Darwin e Huxley. La fisiologia dei vampiri rimanda a una evoluzione ulteriore della razza umana, una evoluzione che rappresenta l’inizio della regressione evolutiva, il primo step prima del ritorno allo stato selvaggio dell’essere. E la conferma dei due esimi studiosi arriva puntuale alla fine del volume quando (dopo aver risolto mirabilmente la faccenda dello sventratore, faccenda originale e piena di colpi di scena) i personaggi principali sono invitati a Buckingham Palace, dove risiede Dracula con la consorte Vittoria. E il mostro mitologico si presenta come un libertino sadiano gonfiato dal potere illimitato che ha conquistato, un semidio Marvel immerso in una sala reale che è l’anticamera di un incubo sadomaso alla Clive Barker. Il re dei vampiri è seminudo, col cazzo attorcigliato sul grembo come un worm bianchiccio dalla punta scarlatta di vipera, il resto delle membra incrostate di sangue. La regina, in sottoveste, è tenuta al collare, ai suoi piedi. Attorno a lui, altri ciambellani regrediti allo stato bestiale si abbandonano a scene da castello di Silling. Ecco, Dracula, sul suo trono di sangue, è già incarnazione del caos primordiale. Il senso del libro? O uno dei sensi, visto che la letteratura post-moderna si distingue da quella moderna proprio per l’incapacità di concludere, imprigionare un significato, uno solo, uno soltanto, certo, univoco. Il senso dicevamo. La durata. L’ossessione del tempo, dei secoli morti che passano e, in nessun caso, sia da vivi che da non-morti, non si possono controllare. Il primo ministro Lord Rutheven è ossessionato dall’idea di rimanere il secondo di Dracula, ma come sarà possibile nell’eternità dei secoli? La bella vampira Genevieve si innamora dell’ispettore Beauregard e si chiede che senso abbia un amore tra una secolare sedicenne e un uomo che, nel volgere di pochi anni, sarà un vecchietto. Dracula, dall’alto della sua crudeltà, si domanda come farà a conservare unito un regno sterminato, quando già le colonie Indiane sono in perenne rivolta e i primi segni di sommossa germinano nelle periferie sterminate di Whitechapel, dove il fantoccio di Jack from hell assurge a martire della rivolta totale.

Il libro di Newman vive di questi percorsi, di queste suggestioni e si piazza come il new classic della letteratura horror degli ultimi vent’anni.

Altro giro di giostra.

Altro bel libro.

Siamo negli anni Ottanta.

Clive Barker ha appena aperto lo squarcio dal quale fuoriesce il gruppo splatter punk.

Skipp & Spector ne sono i principali rappresentanti.

Uno dei loro primi libri è Maledizione fatale, storia vampiresca ambientata in una New York reaganiana. Rudy Pasko, il graffitaro incazzato col mondo viene vampirizzato da un vecchio vampiro in trasferta, un essere che ha oltre ottocento anni ed è persino precedente al conte Dracula. Il vecchio mostro se ne torna in Europa e lascia il suo giovane adepto solo a far macello. Rudy sceglie le gallerie del metrò come nuova casa e terreno di caccia. Bene, questa l’idea. A seguire un manipolo di personaggi (caratterizzati in modo più asciutto rispetto ai flussi di coscienza di King) che finiranno per coalizzarsi e dare la caccia al mostro. Skipp & Spector sono bravi a costruire l’ambientazione della storia, stilizzando una metropoli cupa e ostile, precipitata verso la follia e il nichilismo. Pietà, solidarietà, amicizia sono valori per pochi. New York non è quel posticino aulico dipinto nei film di Woody Allen. Ovunque le insegne sporche e fosforescenti dei Peep Show con spettacoli di sesso dal vivo e un fiume umano composto di feccia, barboni, punk e altri senza Dio.  Skipp & Spector sono impietosi nel descrivere la spirale di orrore che avviluppa tutti i personaggi e li trascina verso l’abisso. La prosa è secca, asciutta, molto visiva e non lesina descrizioni particolareggiate degli umori fisici dei vari personaggi. Non lesina nemmeno sui macelli perpetrati dal vampiro graffitaro. Tutto questo è tipico della letteratura splatterpunk di metà Ottanta, dove le descrizioni raccapriccianti sono gratuite e disturbanti, volutamente iperreali. Il senso stesso della letteratura splatterpunk è quello di dipingere un mondo estremo che ha perduto i propri confini e i propri limiti, un mondo esteriormente votato all’effimero e preda delle proprie pulsioni più inconfessabili. Dopo tutto Maledizione fatale è una storia di lavoratori manuali, disoccupati. Emarginati, punk urbani, gente letteralmente abituata a sopravvivere nell’inferno di cemento. E il vampiro rancoroso Rudy Pasko non è molto diverso dagli umani che lo circondano. Il vampirismo esaspera quel nichilismo, quell’indifferenza che è già nel DNA della bad city. La parte horror del romanzo è abbastanza classica e se Rudy è un vampiro monstre incapace di gestire i suoi nuovi super poteri, i suoi avversari potranno usufruire comodamente delle consuete armi per abbatterlo: paletti, croci, acqua benedetta e light at the end. E poi “perché sprechi il tuo tempo con queste stronzate alla Bela Lugosi? Dovresti rifarti a Robin Williams, invece. E’ molto più adatto agli anni Ottanta”.

Ragazze vive di Ray Garton.

Letto e riletto più volte, fin da ragazzino, quando lo comprai nella collana da edicola della Mondadori, Horror, curata da Giuseppe “Urania” Lippi. Che dire? Per me un capolavoro assoluto. Anche Garton fa parte della gang splatterpunk, quindi scrittura asciutta e scattante, senza troppe menate psicologiche. I personaggi sono quasi tutti impiegati insoddisfatti delle loro piccole vite o stufi della angherie sul posto di lavoro. Quindi cosa c’è di meglio, per distendere i nervi, di un bel night club con belle signorine nude e poppute? Nulla, se non fosse che il locale, il Ragazze vive, sia un fetido ambiente di non-morte ossessionate dalla pratica orale corretta al sangue. E infatti il libro di Garton è pieno di scene gustosissime in cui le nostre eroine rinverdiscono i fasti delle porno vampire anni Settanta e si procurano la loro broda adescando i clienti attraverso il vetro sudicio del peep show. Grande idea quella di Garton, forse ispirata dal film Vamp con Grace Jones. Comunque. Il Ragazze vive è un locale per pochi. Gente selezionata, mogli depresse di uomini importanti, colletti bianchi di passaggio, yuppies condannati all’eterno successo, giornalisti o editori di squallide riviste di gossip. Le vampire del club selezionano per bene la loro clientela e insegnano ai nuovi adepti le regole di base del global village. Nuovi metodi inumani per sfruttare i poveracci, i lavoratori precari, i cassa disintegrati, gli esodati, i barboni pazzi di alcool. Questi sono i nuovi zombi deambulanti, poveracci ridotti all’osso per 4 lire a fronte delle 12 ore lavorative giornaliere.

Loro, le vampire e i loro leccapiedi (Ford, Thyssen, Rothschild) sono i nuovi (vecchi) dei.

Per non parlare del bellissimo Hanno sete di Robert McCammon, esponente di spicco di quel new horror anni Settanta/Ottanta a cui si ascrivono King, Lansdale, F. P. Wilson, Charles Grant o Peter Straub.

Hanno sete è un new classic come Le notti di Salem, con la differenza che McCammon è bravissimo nel tratteggiare i personaggi e calarli in un plot ben orchestrato, capace di tenere fino all’ultima pagina (cosa questa che riesce a pochi e su cui pure zio Stephen ha qualche problemino).

Poi si dovrebbe parlare anche di Bestie, bellissimo fanta-noir-horror della nostra signora delle tenebre Alda Teodorani, ma credo ci sia ancora troppo da dire, quindi mi limito a ordinarvi di comprarlo e bon.

E il cinema vampiresco?

I film vampireschi?

La pellicola vampira cannibale alla Arrebato di Zulueta?

Non ho voglia di fare ordine mentale.

Troppo devastato dal lavoro.

Last night – Morte nella notte with Steven Seagal, l’unico action man del cinema americano a essere obeso, tanto da dover essere ripreso dalle ginocchia in giù o dalle spalle al codino. Questo film si discosta abbastanza dal solito Seagal style. Il mondo è caduto preda di una epidemia vampirica. I vivi sono rimasti pochi e ci sono i soliti militari a coordinare (stupidamente) i lavori. Il film è girato da qualche parte in Romania e utilizza buone location, un vecchio ospedale fatiscente all’interno del quale si muovono i sopravvissuti all’epidemic trend di Altieri. I vampiri, visto l’anno, il 2008, sono una via di mezzo tra i soliti succhiasangue e degli zombi a cui è andato in pappa il cervello. I reduci si aggirano per i vari meandri labirintici dell’ospedale rumeno in cerca di una uscita, in attesa dell’alba. Da qualche altra parte c’è Seagal e la sua crew di ammazza vampiri tamarri con giacconi di pelle e scimitarre. Lascio a voi immaginare il resto. Il bello del film sta nella sua semplicità. Il regista non ha la pretesa di essere Kubrick e ci risparmia menate sentimentali o lungaggini parlate. Seagal e la crew hanno problemi ad articolare più di due frasi. I sopravvissuti provano, tra loro, a imbarcarsi nelle solite chiacchiere banalissime trite e ritrite (che però fanno tanto introspezione e prodotto culturalmente elevato, vedi Walking Dead), ma per fortuna ci pensano i vampiri a mordere loro il culo. I mostri sono ben fatti e si muovono come tarantolati fuori di testa. Nessuna pietà. Nessuna smanceria. Nessun conte nobile con mantello e baffoni. Il film scorre velocissimo e implacabile con un body count che non risparmia nessuno. Beh, quasi. Steven obeso Seagal, ragazzi!, li schiaccia tutti e grugnisce qualcosa che nessuno capisce. Decisamente da recuperare.

La setta delle tenebre, rara produzione azzeccata di Sam Raimi & company.

Lucy Liu contro i vampiri glamour style.

Vampiri gagà che si vestono bene, si confondono in mezzo a noi, bevono vini ricercati, hanno servitori orientali, frequentano le discoteche più tamarre, i locali più in voga.

Bene. I motivi per cui questo film è valido? Il nudo (di schiena, ma siamo persone che si accontentano) integrale di Lucy, fisico asciutto e androgino, con dei piedini deliziosi che picchiano contro la superficie levigata della morgue noir. Altro motivo, meno erotico, la presenza granitica di Michael “Vick Mackey” Chiklis nel ruolo di un detective che coadiuva la bella Liu nella lotta senza quartiere contro i gagà non-morti. Film action con buone atmosfere e una trama molto essenziale, snellita nelle parti centrali da inutili e ridondanti spiegazioni sull’origine dei mostri. Bella anche la fotografia notturna e la morale concisa. Lucy, vampira, è affamata e incazzata e non si fa troppi problemi, pur essendo una dell’impero del bene, ad ammazzare un povero vecchietto in un dormitorio pubblico o uno scemo autostoppista colpevole solo di parlare troppo. Alla regia tale Sebastian Gutierrez, ma in questo genere di film il regista conta come un cieco al tiro al piattello.

30 giorni di buio.

Il film.

A mio avviso la roba più bella sui vampiri dai tempi di John Carpenter e James “Jack Crow” Woods. La bellezza del film sta tutto nel suo essere un horror moderno e al tempo stesso vecchio style. I vampiri sono quelli del trend mostre, esseri semi-umani col muso da cane e grugniti ancestrali. La modernità è nella tecnica visiva, nella velocità delle scene d’azione. Il vecchio style sta nella serietà con cui regista (David Slade) e sceneggiatore (il grande Steve Niles, già autore del fumetto da cui è tratto il tutto) imbastiscono la trama. In 30 giorni di buio non si ride. Non c’è nulla da ridere. Da tempo non vedevo un film così puro, non contaminato da quel citazionismo (esibito, volgare) di tanti Tarantino movie. 30 giorni va dritto per la sua strada e chissenefrega dei nerd del cinema. I personaggi sono (il fumetto è più scarno, concentrato sull’atmosfera pittorica dei disegni e sull’idea geniale di base) ben caratterizzati e trovano il loro compimento nella bella coppia (in crisi) interpretata da Melissa George e Josh Hartnett. Rispetto al fumetto è maggiormente sottolineata la tematica della comunità in pericolo e il senso di protezione e sacrificio nei confronti della “famiglia”, sia come concetto sociale che di sangue. Per il resto un film perfetto. Regia. Attori. Storia. Musica. Scenografie. Una notazione personale. Al cinema, alla fine, sullo sguardo rancoroso della George, il proiezionista accese di colpo le luci, inondando di albume al neon la sala. Tutti noi rimanemmo seduti, immobili, stroncati dalla forza dell’epilogo.

Dopo alcuni secondi trovammo il coraggio per battere le mani.

Una sala piena.

Non mi era mai capitato.

Di 30 giorni esiste un seguito che riprende le vicende del primo episodio.

30 giorni di buio II.

Regia di tale Ben Ketai.

Alla sceneggiatura rimane Steve Niles che rielabora (con molta libertà) il secondo episodio a fumetti. Pur senza le eccellenze del primo episodio, il seguito si dimostra un buon b-movies, compatto e senza fronzoli, pieno d’azione e con una conturbante signora dei vampiri nascosta nella stiva di una grande nave da cargo. Le ambientazioni non sono più quelle livide dell’Alaska e di Barrow, bensì una Los Angeles satura di smog e appena velata da un sole morente e malaticcio. Uomini e vampiri sono sempre più vicini e quasi si toccano. Entrambi sporchi e corrotti, lontano da qualunque regola morale, anche tra antagonisti. Sotto molti aspetti, questo secondo capitolo affascina per la vicinanza con certi contesti del neo-noir di Ellroy (penso al personaggio dello sbirro corrotto al soldo dei vampiri, vera new entry).

Daybreakers.

L’epidemic trend ha dilagato.

L’umanità si è quasi esaurita e il mondo è in mano ai vampiri.

La situazione è quella di Matheson, solo che i vampiri, qui, sono intelligenti, e hanno ricostruito un mondo nuovo, efficiente e organizzato. Il problema sta nel sangue, appunto. Nel sangue umano. Che è quasi finito. Ethan Hawke (attore splendido che sta attraversando con rigore tutti i generi) è un patologo incaricato nel trovare una soluzione. Hawke è un vampiro tormentato e pieno di dubbi, uno che si rifiuta di bere sangue umano. Sam Neill ricompare dalla pensione e ci regala uno splendido cattivo. C’è pure William Dafoe, sempre perfetto. Daybreakers è un bellissimo esempio di film sul nuovo vampirismo di questi ultimi anni. I registi, the Spierig Brothers, ci raccontano di un mondo disperatamente alla ricerca di una cura che possa sostenere la tracimante crisi economica che si è inglobata il mondo degli umani e presto si ingoierà anche quello dei non-morti.

La crisi del sangue.

La crisi economica.

La crisi del sangue è la crisi economica.

La metropoli vampirica vive al di sopra delle proprie possibilità.

Sotto le strade della Gotham City, i barboni mutanti sbavano come decerebrati e aggrediscono i buoni vamp. Borghesi. La multinazionale farmaceutica di Sam Neill incarna tutte le fottute multinazionali del pianeta. Entità sovra-nazionali mosse solo dall’avidità e dagli interessi economici. La politica è assente, ingoiata dal baccanale della propaganda. Sam Neill e la sua azienda sono già oltre il default di sangue umano, eppure continuano a investire sul sangue umano. Ogni altra strada sembra impraticabile, o pura propaganda per tener buoni 4 gonzi (il sangue sintetico ne è un esempio). Mai come in questo film è possibile avvertire quanto la metafora vampirica crei parallelismi coi nostri tempi consumati e modellati dai principi di una economia necrotizzata e senza via d’uscita, volta unicamente al profitto sempre maggiore a scapito di qualunque principio etico e/o politico.

Nel mondo di Daybreakers (e nel nostro) tutto è strumentalizzato dall’ossessione della produttività.

Facciamola semplice, così capite.

Dite addio alle vostre belle otto ore.

Dite addio alle ferie.

Dite addio alla pensione.

Dite addio a un ambiente di lavoro in cui regole e doveri da parte del lavoratore e del datore siano rispettati.

Preparatevi a farvi succhiare tutte le vostre energie come vittime di Dracula.

L’algoritmo economico deve sopravvivere a costo di tutte le vostre vite.

Per mantenere la ricchezza immensa di pochi (vampiri), tutti gli altri potranno crepare con l’illusione di aver partecipato alla rinascita del proprio paese (la pubblicità recente dell’Enel sui guerrieri-lavoratori ne è un esempio splendido).

Perché la globalizzazione è una parola ma, gratta gratta, sotto c’è scritto CAPITALISMO e da lì non ci si schioda, solo che adesso il potere s’è digitalizzato, è più evanescente, rappresentato da astratti e ubiqui consigli di amministrazione dislocati in call conference per il mondo.

Il sistema sociale, economico e politico nel quale viviamo è in costante regresso, le ingiustizie nel mondo del lavoro sono sotto gli occhi di chi le vuole (o può) vedere.

La mancanza di tutele per i lavoratori è pari all’ingordigia di quei pochi che si ingozzano sulla pelle degli altri; pochi sfacciati e rubicondi in-umani vampiri che campano arraffando capitali, ricchezze immense, privilegi fiscali, pensioni politiche immorali.

E gli altri?

Tutti gli altri?

I working dead dovranno abituarsi a lavorare tantissimo per guadagnare stipendi neppure adatti a sopravvivere. Questa è la verità. Chi la nega è un idiota o un criminale, quindi un vampiro.

Altri lemmi?

Flessibilità e deregolamentazione.

Smantellamento di ogni diritto elementare.

Cancellazione degli ultimi 150 anni di lotte operaie, perché questa è l’epoca di una nuova avanguardia, quella in cui la distruzione delle sovranità nazionali e del diritto vigente precederanno la nuova era del necroCapitale. Nel necroCapitale il pianeta si ridurrà a un immenso Terzo Mondo percorso da horde di working dead affamati e disperati dai mutui e dall’Iva e i pochi potenti (vampiri) se ne staranno nelle loro torri commerciali a sorseggiare il sangue (pochissimo e carissimo) rimasto, sangue direttamente prelevato da cavie umane allevate in laboratori – bunker sperimentali.

In attesa che tutto questo avvenga e anche anche l’Italietta abbia un presidente dislessico ex alcolizzato che parla con Dio (accontentiamoci per ora di quello in cerca di “agibilità politica”), Daybreakers immagina una cura. Ethan Hawke immagina una cura. La CURA è tornare umani, ossia “decrescere” economicamente, interrompere la corsa autodistruttiva della death economy. Immaginare un mondo in cui, non per assioma, il superamento dei limiti precedenti, sia sempre l’opzione (utopica e impossibile) migliore. Per questo, il film australiano è, semanticamente, uno dei più complessi e intelligenti.

Sulla medesima strada il piccolo horror Stake land, anche qui un affresco di un paese collassato sotto il peso delle proprie ricette politiche. Una landa simile a quella spettrale di Corman McCarthy, con sette di fanatici religiosi che interpretano il vampirismo epidemico come un messaggio che ci arriva direttamente da Dio. E i personaggi, i protagonisti si muovono tra macerie, fabbriche dimesse e de-localizzate in qualche paese dell’Est Europa, periferie svuotate e sobborghi mangiucchiati dalla ruggine e dalla vegetazione. I due protagonisti, quasi senza nome, cercano di rimanere vivi, senza altri progetti o grandi imprese. Perché, in un mondo dove l’unica cosa che conta è l’egoismo, rimanere vivi, sopravvivere è una cosa da eroi.

Dracula’s legacy.

Che bel film questo di Lussier, qui coadiuvato da Wes “caduta libera” Craven. Il vampiro ha il fascino piacione di quello di Coppola, anche se il mostro di Gary Oldman guardava alla tradizione stokeriana che collega Vlad l’impalatore con Dracula. Lussier si spinge più indietro, all’ultima cena, ai trenta denari, alla crocifissione di Gesù. Dracula, il primo vampiro, altri non è che Giuda Iscariota, dopo millenni ancora tormentato dal dubbio di essere servito al suo maestro per il compimento del supremo sacrificio (Giuseppe Berto aveva scritto un libro dando proprio la parola al traditore, visto come utile idiota, senza il quale non sarebbe stata possibile la salvezza di ognuno di noi). Per il resto il film sceglie una New Orleans in pieno carnevale e delle belle gnocche a fare da contorno. Ultime notazioni: Chris Plummer che rifà il Van Helsing di Nosferatu a Venezia e alcune battute da Nobel per la letteratura. Esempio? La bella vampira porcona lega il povero Jason “Sick boy” Miller e si prepara ad affettarlo. Prima però lo redarguisce: “lo sai perché non ha funzionato tra noi? Voi inglesi siete così carini, premurosi. A me piace solo succhiare!”. Serve altro?

E nel fumetto?

Vediamo alcuni esempi.

Segnalerei (nonostante tutto) il Dampyr bonelliano, scritto e ideato dal duo Mauro Borselli e Maurizio Colombo.

La partenza della serie è molto buona. Ai pennelli Majo. L’ambientazione (nei primi due numeri, usciti nell’aprile/maggio del 2000) è quella di una guerra totale, quasi apocalittica, come piacerebbe a mastro Altieri, che rimanda alla disgregazione geopolitica dei Balcani nel corso degli anni Novanta del Novecento. Quale posto migliore di un teatro di guerra, luogo di innumerevoli atrocità e sofferenze, per i vampiri, nostri compagni silenziosi e mimetici fin dall’inizio dei tempi. L’idea degli sceneggiatori è originale. Il personaggio è un dampyr appunto, una figura della tradizione poco sfruttata sia dal cinema che dalla letteratura. Il dhampir “di probabile origine zingara. Si tratta del figlio di un vampiro e di una donna mortale, che non è pericoloso, anzi è capace di identificare e distruggere i vampiri. Sembra che un certo numero di villaggi abbiano avuto un dhampir, come apprezzato professionista dell’anti-vampiro”. Uso questa spiegazione del vampirologo Massimo Introvigne per spiegare l’idea di Borselli e Colombo, idea presente nella mitologia folklorica. Si diceva dei primi due numeri della serie. Un esordio anomalo per gli standard della casa editrice milanese. L’ambientazione appunto moderna, contemporanea, l’area dei Balcani martoriati dalla guerra civile. Un protagonista circondato da due spalle, una vampira (e tra i due la noiosa storia d’amore incombe fin da subito) e un ex mercenario. La mancanza di macchiette inutili come il Groucho in Dylan Cane, o i continui cambi di letto e fidanzate (sempre Dylan Cane), permettono alla storia di partire in maniera molto tesa, per proseguire con un buon mix di azione e horror. Certo, ci sono le solite banalità moralistiche, una moralina da cartoleria aderente alla filosofia della casa editrice (esempio: forse gli umani sono più cattivi dei vampiri?), tuttavia il ritmo della storia permette di ridurre al minimo questi cali di tensione. Colombo e Boselli sono bravi a giocare coi generi senza scadere in quel citazionismo fine a se stesso di altri (Tarantino? Sclavi?). Comunque tutti i primi numeri tengono bene. Tra luna park infestati dalle proiezioni psichiche di un vampiro smembrato (“Fantasmi sulla sabbia”) agli intrecci della mafia russa e dei vampiri nella Russia post-sovietica (“Notturno rosso”), Dampyr si configura come un fumetto seriale capace di raccontare e attualizzare (senza perderne le radici folkloriche o fiabesche) il mito dei non-morti.

Basta però una pagina di 30 giorni di buio per dimenticare l’intera saga bonelliana.

Il fumetto di Steve Niles e Ben Templesmith è quanto di più bello e originale sia uscito sul tema. La trama è secca, ridotta all’osso, i disegni procedono per ellissi, gocciolamenti, stilizzazioni. Eppure si respira un’aria, un’atmosfera epica. Barlow, l’Alaska, il freddo, i ghiacci, il buio, le zanne. Rispetto al film i personaggi sono meno caratterizzati, sono solo marionette, tuttavia ne guadagna il ritmo, tesissimo. Certo, aiuta molto anche l’impaginazione americana, liberissima rispetto alle canoniche tavole Bonelli. Inoltre Niles imprime una cattiveria, una furia sconosciuta a qualunque Dampyr italico. A parte questo minimalismo (e la bellezza gelida dei disegni), tra il film e l’opera su carta corrono ben poche differenze. Entrambi rappresentano la punta di diamante sulla tematica del vampiro contemporaneo.

Altra immensità.

Il Preacher di Garth Ennis & Steve Dillon.

Fumetto totale, non riassumibile.

Un predicatore che decide di rintracciare Dio e fargli pagare il fatto di averci abbandonati a noi stessi (leggi: in un mare di merda!).

Un western, un horror, un fantasy, un noir, un hard boiled

Con Preacher i generi, così come li abbiamo conosciuti finora, cominciano ad abolirsi, per divenire qualcosa di altro. Non è il citazionismo esibito di Tarantino&Rodriguez. E’ proprio un nuovo modo di provare a scrivere oltrepassando le barriere semiologiche dei codici ripetitivi. Va bene, lasciamo stare, affronteremo questo discorso un’altra volta (o l’abbiamo già fatto? IL PUBBLICO DELL’ORRORE?).

Perché ho citato Preacher in questo lungo articolo sui succhiasangue?

La scusa me la fornisce Cassidy, l’amico non-morto che, insieme alla bella Tulip, accompagnano il predicatore nel suo viaggio incubo all’interno dell’immaginario collettivo (perché che cos’è il Texas in fondo, soprattutto se scritto da un irlandese?).

Trovare Preacher non è facile, soprattutto completo e nell’edizione della Planeta DeAgostini, ma ne vale davvero la pena. Buona caccia. Io ci sono riuscito tramite anni di pazienza e i soliti mercatini dell’usato. Il box completo, sigillato. Intonso. Un mese di lettura-apnea, strumento per scaricare e rigenerare il cervello.

Va bene.

Non sono stato breve.

Me ne scuso.

Visto che il danno ormai è fatto, voglio chiudere con una piccola nota sugli zombi.

Direte: ma che c’entra?

Nulla.

Però sono in un periodo in cui mi piace pensare a una bella invasione di succiasangue trend mostre e fottuti morti viventi al rallenty style. C’è anche una serie di MTV che mischia le due robe, mi pare si intitoli Death Valley. Insomma una bella invasione di mostri cazzuti. Quel che volevo segnalare erano solo alcuni romanzi italiani dedicati all’argomento morti viventi. Mi preme farlo perché la tematica dello zombie, in letteratura, secondo me, non è stata sfruttata molto bene. I libri attualmente in circolazione (quasi tutti di autori stranieri) sono dei malloppi mostruosi (in termini di pagine) e NOIOSISSIMI. Fa piacere quindi segnalare alcuni romanzi di casa nostra che riescono a raccontare un vecchio mito, aggiungendovi o meno qualcosa. Eccoli.

Abel di Claudia Salvatori.

Da avere.

Da leggere.

Un brave new dark world popolato da mostri e umani.

Mostri & umani, con i mostri che muoiono e si ammalano come noi.

Mostri che muoiono in modi simili ai nostri, spenti dal tempo, dal rimorso, dallo spleen dei ricordi.

La Salvatori immagina una Europa come un’unica, immensa città alfabetica perennemente avvolta dal buio dei gas combustibili e bagnata da piogge acide.

Una città divorata dal cancro del lavoro nero, del lavoro minorile protratto oltre i limiti.

Una città sfregiata da stupri bestiali, pedofilia e corruzione.

In mezzo a tutto questo, vampiri, licantropi, freaks e zombi sono il male minore.

Anzi.

I mostri hanno un senso dell’umorismo che noi umani abbiamo perduto.

Leggendo la Salvatori si scopre che gli zombi sanno raccontare le barzellette e amano andarsene a zonzo con passo strascicato e make-up style l’Alba dei morti viventi, ma, sotto le cicatrici di lattice, indossano boxer firmati. Inoltre l’autrice suggerisce una sorta di rilettura di classe dei mostri classici, con gli zombi che provano a rimettersi in gioco e, in piena death economy, si fanno imprenditori, aprono attività commerciali, provano a sbarcare il lunario. In tutto questo c’è Abel Alive, un ricercatore scientifico, un utopista che vuole migliorare la vita (e la morte). Abel, mezzo zombi e mezzo umano, un caso raro, è impegnato a scoprire un losco segreto che riguarda dei bambini zombi creati e usati per ingrassare il mercato pedofilo. All’ombra di cimiteri giocattolo intitolati a Santa Maria Goretti, i poveri zombi si rivelano buoni e onesti, capaci di provare sentimenti che noi viventi abbiamo scordato da un pezzo. I vampiri invece sono dei fascisti, degli aristocratici che si credono di appartenere a una razza eletta, una congrega destinata a guidare (in modo occulto) le trame e gli interessi del new brave world. I vampiri come una lobby di banchieri. I vampiri come la finanza che froda il fisco, che fa gonfiare il valore delle azioni, che vende bond di società tracimate. I vampiri mentono più e meglio degli umani. Non hanno bisogno di lavorare, in quanto scaricano gli impieghi di merda sui working dead, così attaccati al lavoro, dotati di una remissività e una resistenza tale da renderli perfetti per la catena di montaggio. Lo zombi come operaio Eternit. Lo zombi come operaio Thyssen. E poi ci sono i mannari, qui descritti come dei no-Tav, grillini ecologisti che, alla bad smog city corrotta, preferiscono la ruvidezza incontaminata delle foreste o la raccolta differenziata.

Ripeto.

Abel di Claudia Salvatori.

Tito Faraci, Oltre la soglia.

Scritto benissimo, il romanzo è un altro gioiellino originale sui living dead all’italiana. La trama ricorda i romanzi di Charlie Higson con protagonisti una schiera di ragazzini, soli in un mondo in cui tutti gli adulti sono diventati degli adulterati pazzi cannibali. Il romanzo è una specie di rilettura al contrario del classico di Tiziano Scalvi Dellamorte Dellamore. Là, il protagonista era un adulto adolescente che aveva paura di crescere e si chiudeva in un mondo morto e asfittico, Buffalora, una zona del crepuscolo. Qui la lettura è differente. Gli zombi sono liberi dall’ansia, dal rimorso, dal timore del futuro. Liberi dalle responsabilità. Prigionieri di una vita senza prospettive. Perché non è il diventare adulti che trasforma in morti, ma il non crescere. Faraci descrive e denuncia un mondo in cui nessuno è più capace di divenire adulto e assumersi le sue responsabilità.

Giustina Gnasso, Zona infetta. Libro veloce e scorrevole che racconta di un gruppo di sterminatori di zombi (l’infezione è partita dall’uso di un conservante alimentare adulterato prodotto da una multinazionale) alle prese con una azione di salvataggio suicida nella metropolitana di Milano. L’autrice, con uno stile ironico e giocoso (alla Troma movie per intenderci), costruisce la sua vicenda corale, regalandoci anche scorci di vita dei personaggi, tutti ragazzi e ragazze sopra i trenta, costretti dall’imperante disoccupazione, ad accettare un impiego massacrante e pericoloso.

Tre libri che, da soli, contengono più idee di tutti i film di genere italiani prodotti in questo decennio.

Una domanda: perché i nostri nuovi giovani registi cinefili non si ispirano a questi (o altri) libri?

Mai come in questo momento la letteratura fantastica italiana vive un momento di bellezza e ingegno.

Perché non approfittarne?

Davide Rosso