ENIGMI DALLO SPAZIO E DAL TEMPO 15

7: GLI ENIGMI CHE NON ESISTONO – PARTE 03

Cheope, l’illusione di un Eterno Riposo

Howard Hawks fu un regista di ottime qualità. La fantascienza lo ricorda per aver supervisionato totalmente il lavoro di Christian Nyby, suo abituale montatore e che voleva passare alla regia, mentre questi girava lo stracult La Cosa da un altro Mondo (The Thing from Another World – 1951), ma, ovviamente, il cinema non lo ricorda solo per questo, anzi…

Howard Winchester Hawks nacque a Goshen, nell’Indiana, nel 1896, primo di tre fratelli, i quali si dedicarono tutti al cinema, ma è alla mano ferma e possente di Hawks cui si debbono pellicole come Scarface (Scarface – 1930), Il Sergente York (Sergeant York – 1941), Il Grande Sonno (The Big Sleep – 1946), Il Fiume Rosso (Red River – 1948), Il Grande Cielo (The Big Sky – 1952), Gli Uomini preferiscono le Bionde (Gentlemen prefer blondes – 1953), Un Dollaro d’onore (Rio Bravo – 1959), El Dorado (El Dorado – 1967), Rio Lobo (Rio Lobo – 1970). E’ morto nel 1977.

Nel 1954 il regista stava studiando come mettere sullo schermo una storia che lo aveva interessato: si trattava di una vicenda che si era svolta in Cina durante l’ultima guerra. Gli americani necessitavano di costruire un aeroporto, ma secondo i loro piani sarebbero stati necessari otto mesi per costruirlo, così i cinesi misero a disposizione ventimila tra uomini e donne i quali, trasportando le pietre su un cesto posto sul capo, finirono il lavoro in tre settimane. Purtroppo la situazione politica estremamente delicata costrinse Hawks a rinunciare al progetto, ma dovendo e volendo portare sullo schermo un’impresa similare nella sua grandiosità scelse di trasportare sullo schermo la vita del faraone Cheope e della sua gigantesca piramide.

Il film s’intitolò La Regina delle Piramidi (Land of the Pharaons – 1955) e fu effettivamente girato in parte in Egitto e gli interni a Cinecittà, a Roma.

La storia è un ritratto fantascientifico della vita di Cheope e della costruzione della Grande Piramide. Siamo a Luxor, nel 2800 a.C. sotto la sesta Dinastia e il faraone Cheope (Jack Hawkins) è tornato da una guerra vittoriosa nella quale ha conquistato oro e schiavi. Egli decide di farsi costruire una grande piramide quale prima non si era mai vista, ma i progetti dei suoi ingegneri lo deludono. Tra i suoi prigionieri c’è però Vashtar (James Robertson Justice) un geniale architetto. Cheope promette libertà per il suo popolo se egli progetterà e costruirà una piramide a prova di ladri e di vandali. Vashtar accetta pur sapendo che a tomba finita e alla morte del faraone egli dovrà morire con il suo segreto assieme a lui.

Così, molte migliaia di uomini cominciano a costruire il grande sepolcro, passano molti anni e le finanze dello stato sono in dissesto e Cheope pretende sempre di più dai popoli soggiogati. Giunge così da Cipro la principessa Nellifer (Joan Collins), il faraone s’innamora di lei e la sposa facendone la sua seconda moglie, ma la donna, dopo aver corrotto un Capitano delle guardie (Sidney Chaplin), fa uccidere con un aspide la prima moglie, Nailla (Kerima), e poi riesce anche a uccidere il faraone anche se questi, prima di morire, riesce a sua volta a uccidere l’amante. Il Gran Sacerdote Hamar (Alexis Minotis), amico d’infanzia di Cheope, si fa spiegare da Vashtar e da suo figlio Senta (Dewey Martin) il funzionamento di chiusura del sepolcro, il cui congegno viene messo in moto rompendo degli otri pieni di sabbia che funzionano da contrappeso e sigillano automaticamente la tomba. Lascia partire l’architetto e suo figlio con il suo popolo e si fa rinchiudere nella tomba assieme alla perfida regina e all’oro da lei tanto bramato.

Dobbiamo scordarci completamente la vera storia di Cheope quando guardiamo questo film, l’unico personaggio reale di questa fiaba hollywoodiana è proprio lui, ma solamente come nome, non certo come fatti e come azioni.

Tanto per cominciare Cheope visse durante la IV Dinastia, nel periodo che va dal 2589 al 2566 avanti Cristo. La IV Dinastia fu fondata dal Faraone Snofru nel 2613 a.C. e contò diciassette faraoni i quali regnarono per un totale di 488 anni; il suo vero nome era Khufu, ma noi lo conosciamo come Suphis o, meglio ancora, Cheope. La sua vita è quasi totalmente avvolta nel mistero, di lui si sa molto poco e quello che si sa non depone certamente a suo favore.

Quando Cheope salì al trono l’Egitto era un paese ricco e prospero, questo perché era stato dato ampio impulso all’agricoltura e all’artigianato e il faraone condusse operazioni militari e di conquista nel Sinai, le quali, assieme al momento particolarmente felice e opulento nel quale versava l’antico Egitto a quell’epoca, permise al faraone d’imbarcarsi in un’impresa tanto colossale quanto costosa come quella di costruirsi un gigantesco sepolcro a Giza.

Chefren, successore di Cheope e figlio di quest’ultimo, fece costruire un monumento di dimensioni minori, ma ebbe l’accortezza di farlo erigere su un punto più alto così, a prima vista, non dà l’idea di essere una costruzione più piccola.

Quello che si sa di Cheope ci testimonia di un uomo che non teneva in alcun conto la vita umana ed era attirato dalla magia e dalle favole fantastiche… Uno dei papiri Westcar, che potremmo considerare come una sorte di “Mille e una notte” in versione egiziana, narra che il faraone venne a sapere dell’esistenza di Djedi, una sorta di mago che aveva raggiunto la veneranda età di 110 anni non certo osservando il digiuno perché l’arzillo vecchietto si faceva fuori mezzo bue a pasto, beveva cento brocche di birra, era capace di riattaccare una testa tagliata e di farsi seguire da un leone che lui stesso aveva reso docile, ma, sopra ogni altra cosa, egli conosceva il numero delle stanze segrete del santuario di Thot, che era ritenuto il mago degli dei.

Cheope aveva cercato di riprodurre questo tempio nel suo luogo funerario per cui era particolarmente interessato ad avere notizie di prima mano. Per questo motivo, una volta che il mago giunse al suo cospetto, stava per ordinare di staccare la testa di uno schiavo in modo che Djedi potesse riattaccarla, ma il mago fermò l’omicidio dicendogli che Dio non permetteva questi atti per cui prese invece un’oca che, come tale, sempre secondo le leggi di Dio, non aveva alcun diritto di vivere e le tagliò la testa per poi riattaccargliela. Il gioco di prestigio riuscì perfettamente, ma quando Cheope gli chiese il numero delle stanze segrete del tempio di Thot, il nostro Mago gli rispose che egli non avrebbe potuto saperlo fino a che il primogenito della moglie di un sacerdote del Dio Ra non avesse dato inizio alla V Dinastia.

Erodoto parla del faraone come di un uomo privo di scrupoli che per le sue manie di grandezza condusse l’Egitto alla miseria, egli aveva fatto chiudere tutti i templi e impedito i sacrifici in modo che tutti potessero lavorare solo per lui e per il suo perverso sogno di grandezza. Furono trent’anni di privazioni e di stenti e il faraone costrinse anche una delle sue figlie a prostituirsi affinché lo aiutasse a procurare il danaro necessario per continuare la gigantesca opera, ma la fanciulla, alla quale certamente non difettava l’iniziativa, chiedeva, oltre al congruo tributo in danaro, anche una gigantesca pietra… doveva lavorare molto bene se fu poi eretta con questi massi la piramide centrale delle tre che si trovano a est di quella del faraone.

L’architetto al quale si deve questa gigantesca opera non è certamente il geniale Vashtar ma, molto più semplicemente, fu il cugino di Cheope, Hemiunu, il vero autore di quest’opera mastodontica il cui costo fu di 1600 talenti d’argento (al prezzo d’epoca sono solamente più di seicento milioni di euro). La costruzione della lunga rampa che collega il tempio alla valle durò dieci anni e la costruzione della piramide altri venti. Tutti questi dati erano scritti su una targa che fu mostrata a Erodoto, ma che scomparve assieme alla punta d’oro o piramidion della piramide stessa che era così alta 146,6 metri in più, invece degli attuali 137,5. I quattro lati della piramide sono orientati quasi esattamente verso i quattro punti cardinali e la lunghezza dei lati è di 230 metri, la differenza tra il lato più lungo e quello più corto è di soli 20 centimetri, ed è costruita con due milioni e trecentomila blocchi del peso di una tonnellata e mezzo, mentre altri blocchi raggiungono anche le quindici tonnellate.

Diverse sono le teorie sul metodo usato per sovrapporre l’uno sull’altro questi giganteschi massi di pietra: si è pensato a una lunga rampa che veniva continuamente alzata e allungata e altri ipotizzarono una rampa che circondava la costruzione e saliva con essa, ma Erodoto afferma che il monumento era costruito a terrazze facendo salire i blocchi da tutti e quattro i lati contemporaneamente e usando degli strumenti fatti con dei piccoli legni. Un capo cantiere, Peter Hudges, usò travi di piccole dimensioni con estremità inferiori ferrate e riuscì a dimostrare che, molto probabilmente, era quello il metodo che fu usato.

I blocchi di calcare venivano da Tura e con il granito fu invece edificata la camera con dentro il sarcofago e il nostro architetto poté sicuramente contare sul lavoro di quattromila uomini.

Hemiunu, forse per scoraggiare i violatori di tombe, una piaga molto sentita anche all’epoca, fece cambiare più volte l’ubicazione della camera funeraria, ma malgrado tutte queste prudenze, malgrado tutti i sigilli, i labirinti, le trappole, anche Cheope e il suo tesoro furono profanati.

Come gli altri faraoni, convinti di vivere una seconda vita, anche Cheope aveva fatto in modo che il suo corpo potesse passare intatto attraverso il regno della morte e potesse quindi godere di ciò che aveva avuto in questo mondo, ma come altri prima e dopo di lui, egli fu spogliato di tutto il suo oro e il suo corpo, imbalsamato accuratamente fu probabilmente profanato per recuperare, oltre ai gioielli di cui era adorno, anche le bende intrise di liquidi preziosi.

Un grande, maestoso corteo funebre condusse Cheope verso la sua ultima dimora, il feretro venne deposto sulla barca reale e venne portato da Menfi fino alla piana di Giza, sulla sponda occidentale del grande fiume. Poi la bara con il corpo del faraone venne scaricato dalla barca e messo su una slitta per essere portato all’ingresso del tempio a valle per essere sottoposto alla lunga e complicata cerimonia dell’imbalsamazione, effettuata la quale il corpo avrebbe finalmente conosciuto l’eterno riposo all’interno del suo loculo di granito.

Presso gli antichi Egizi l’imbalsamazione era un’arte molto accurata e precisa, svolta attraverso molte e complicate operazioni. Preservando il corpo del defunto dalla ferocia del tempo, essi erano convinti che l’anima potesse così raggiungere il Mondo Sotterraneo per potervi trascorrere una seconda nuova vita. Questa procedura nacque dalla constatazione dei corpi ritrovati naturalmente mummificati tra le sabbie asciutte del deserto e le prime certe testimonianze di un processo di mummificazione risale alla fine della III Dinastia e cioè ben ventisei secoli prima che un uomo chiamato Gesù percorresse le vie di Gerusalemme.

Occorse però molto tempo perché le tecniche che portavano a una praticamente perfetta conservazione del corpo raggiungessero quasi la perfezione e ciò avvenne solo sotto la XXI Dinastia.

Inizialmente i defunti venivano molto semplicemente avvolti da bende impregnate di resina ma, a partire dalla IV Dinastia, i visceri furono asportati e depositati nei Vasi Canopi.

La vera evoluzione di questa tecnica la si raggiunse solamente grazie alla scoperta delle proprietà disidratanti del carbonato di sodio, un sale che proveniva dal Delta del Nilo, che gli Egizi chiamavano Natron e usavano prima solamente come detergente, dentifricio e antisettico.

Durante la XXI Dinastia gli imbalsamatori resero più vivo l’aspetto delle mummie introducendo sotto la pelle un po’ di argilla in modo che i lineamenti rimanessero intatti. Tutta la procedura era quanto mai complessa e la si usava solo per i faraoni, per i nobili e, in pratica, per chi poteva pagare perché, in altri casi, ci si accontentava di introdurre attraverso l’ano un olio per far sciogliere i visceri oppure ci si limitava a lavare il corpo prima di immergerlo nel carbonato di sodio.

Il processo farebbe la gioia di un necrofilo ma era quanto di più ingegnoso, interessante ed elaborato ci sia mai stato dato di sapere.

Gli imbalsamatori aprivano il fianco destro del defunto con una lama estremamente affilata e da lì estraevano i visceri, polmoni, intestino, fegato e stomaco che erano poi posti dentro urne in seguito debitamente sigillate chiamate Vasi Canopi, i quali erano lasciati a fianco della tomba. La cavità addominale veniva pulita con vino di palma e un composto di erbe aromatiche ridotte in minuscoli frammenti.

Il cervello veniva estratto attraverso le narici con un uncino di bronzo; il cuore, per gli Egizi il centro della vita, poteva essere lasciato al suo posto o sostituito con uno scarabeo sacro. In seguito tutto il corpo veniva impregnato da antisettico, in genere si trattava di alcool o ancora del vino di palma. Le incisioni venivano chiuse con della resina mentre la bocca e le narici venivano riempite da grani di pepe. Il corpo veniva lasciato ad asciugare per circa settanta giorni prima di lavarlo e riempirlo di tela di lino impregnata di resina, di lichene e di segatura in modo da ridargli una forma umana, quindi venivano eseguiti una unzione con dei profumi e un bagno nel carbonato di sodio al fine, come abbiamo detto, di essiccare il corpo.

Quindi la fase finale: mentre il Sacerdote Imbalsamatore recitava delle litanie il corpo veniva avvolto con delle bende con un rituale molto preciso per cui venivano avvolte prima le dita, quindi le braccia, il corpo e infine la testa.

Il corpo era pronto ora ad affrontare l’ingiuria dei secoli, ma non quella dell’uomo: dopo la sua morte infatti si accese una disputa per il trono. Cheope aveva avuto un figlio dalla sua prima moglie, Henutsen, il suo nome era Chefren, futuro ideatore della Sfinge. Il figlio di Cheope e di una moglie secondaria di Cheope, Djedefre, iniziò a governare sull’Egitto, ma le lotte con il fratellastro continuarono fino a che, dieci anni dopo, nel 2570, Chefren divenne il nuovo faraone d’Egitto. Queste beghe non interessarono un altro dei figli di Cheope, il suo nome era Hergedef che passò alla storia come un grande e illuminato saggio, i suoi componimenti comportamentali ed etici furono all’avanguardia e, il più famoso di tutti, egli lo dedicò al figlio Auibra:

“Fonda un focolare, sposa una donna forte,

costruisci una casa per tuo figlio.

Fa eccellente la tua dimora nella necropoli

e sempre ricorda che la casa della morte

serve alla vita…”

La Mummia, un Amore Senza Tempo

“Ank-Es-En Amon, il mio amore ha resistito più a lungo del Tempio degli Dei. Nessun uomo ha mai sofferto come me e potrò dirti di più soltanto quando avrai vissuta la grande notte del terrore e del trionfo. Quando sarai pronta ad affrontare un momento d’angoscia per un’eternità d’amore. Solo allora io ti ridarò quello spirito che ha vagato in tante forme e per tanti anni…”.

(La Mummia di Karl Freund)

La procedura dell’imbalsamazione usata nella realtà sembra essere stata correttamente eseguita anche nel film La Mummia (The Mummy) di Karl Freund (1890 – 1969) del 1932, dove si vede il viso ancora scoperto di uno sconvolto Karloff che viene poi bendato completamente ma, in questo caso, è stato fatto solo per dare drammaticità alla scena. La pellicola di Freund mischia la realtà con il romanzesco e la storia venne ideata da due giornalisti, Nina Wilcox Putman e Richard Schayer, i quali s’ispirarono a una storia ambientata in Egitto perché l’argomento era sempre attuale.

Venne in seguito adattata per lo schermo da John Lloyd Balderston che fu anche lo scenografo del Frankenstein di James Whale. Im-Ho-Tep esistette veramente: era un architetto e fu il costruttore della grande piramide a gradoni di Zoser ma, nel caso del film, egli riveste il ruolo di un sacerdote sepolto vivo per sacrilegio e riportato in vita grazie a un archeologo che legge ad alta voce la formula del “Libro dei Morti”.

Dieci anni dopo, grazie all’aiuto di un misterioso e sinistro egiziano, Ardath Bey, la mummia della principessa egizia viene ritrovata, riesumata e portata al Museo del Cairo. Lo scopo di Ardath Bey, che in realtà è Im-Ho-Tep, sta per essere raggiunto: egli vuole far resuscitare la principessa da lui tanto amata tremila settecento anni prima e quando scopre che la sua anima si è incarnata in una giovane fanciulla il cui aspetto è identico a quello dell’amata, decide di sacrificarla per far in modo che l’anima della principessa egizia possa riaffiorare alla coscienza e quindi possa rivivere completamente con lui nella vita dell’oltretomba. Il sacrificio viene evitato, il “Libro dei Morti” bruciato e Im-Ho-Tep si riduce in polvere.

La truccatura di Karloff, il suo volto grinzoso, è stata un’ennesima realizzazione di Jack Pierce e fu fatto con pezzi di carne, crema di formaggio, argilla e collodio. Nonostante tutto, il successo del film non fu straordinario per cui passarono alcuni anni prima che la Universal riprendesse il personaggio in una quadrilogia quasi inedita composta dai film The Mummy’s Hand (1940) di Christy Cabanne, The Mummy’s Tomb (1942) di Harold Young, The Mummy’s Ghost (1944) di Reginald LeBorg e The Mummy’s Curse (1944) di Leslie Goodwins e presentati con i sottotitoli alla televisione nostrana. Negli ultimi tre il ruolo della mummia, il cui nome è diventato Kharis, fu interpretato da Lon Chaney Jr.

Toccò quindi ancora una volta alla Hammer, a Terence Fisher e a Christopher Lee, iniziare la nuova e più colorata carriera della creatura bendata proveniente dal passato. Nel 1959 ecco uscire sugli schermi di tutto il mondo La Mummia (The Mummy), la cui storia è estremamente simile alla precedente se si esclude il fatto che la mummia resta tale per tutto il film, per cui Lee dovette usare al massimo le sue qualità di mimo. Il nome del sacerdote è ancora Kharis e quello della principessa è Annaka. Inutile quasi dire che l’archeologo John Banning è interpretato da Peter Cushing. Ancora la Hammer torna sull’argomento con Il Mistero della Mummia (The Curse of Mummy’s Tomb – 1964) di Michael Carreras (1927 – 1994) e Il Sudario della Mummia (The Mummy’s Shroud – 1967) di John Gilling.

In Scuola d Mostri di Fred Dekker la mummia fa una fine ignominiosa quando un capo della sua benda si impiglia in un chiodo e si svolge vorticosamente polverizzando il fragile contenuto. Anche il povero sacerdote poi ha subito l’onta di un ruolo comico come capitò a tutte le creature Universal all’epoca andando a interpretare con Bud Abbott e Lou Costello, da noi conosciuti come Gianni e Pinotto, il film Il Mistero della Piramide (Abbot and Costello Meet the Mummy) di Charles Lamont (1895 – 1993) del 1955.

La conclusione è in definitiva sempre la stessa: scarabei carnivori animati con il computer, tormente di sabbia con un viso urlante sempre dovute alla moderna tecnologia, sono alla base de La Mummia (The Mummy) di Stephen Sommers del 1999, enormemente più simile a un Indiana Jones in scala ridotta che alla tormentata creatura di Freund, Fisher e gli altri. Visto il successo del film, piacevole comunque, ne sono stati girati due sequel e cinque spin-off: nel 2002 arrivò La Mummia – Il Ritorno (The Mummy returns) dovuto sempre alla regia di Stephen Sommers; nel 2008 Rob Cohen girò La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone (The Mummy: Tomb of the Dragon Emperor); nel frattempo iniziò la saga del Re Scorpione, antagonista del secondo episodio, che comprende Il Re Scorpione (2002), diretto da Chuck Russell, Il Re Scorpione 2 – Il destino di un guerriero (2008), diretto da Russell Mulcahy, Il Re Scorpione 3 – La battaglia finale (2012), diretto da Roel Reiné, Il Re Scorpione 4 – La conquista del potere (2015), diretto da Mike Elliot e Il Re Scorpione 5 – Il libro delle anime (2018), diretto da Don Michael Paul.

(3 – continua)

Giovanni Mongini