SCARFACE BY HAWKS

“X.? Mio povero signore,

bisogna tirargli una croce sopra”

(M. Blanchot)

Sull’antintellettualismo di Howard Hawks molto è stato scritto, e nondimeno scopo di questa nota è metterne in luce un aspetto forse meno considerato dai suoi interpreti, volti semmai a evidenziare le posizioni assunte dall’autore rispetto alla scienza e più in generale agli intellettuali, posizioni sempre e comunque improntate a scetticismo, sia pure in forma sorridente e scherzosa (se si esclude La cosa da un altro mondo, in cui la critica si fa seria), oppure l’antipsicologismo “comportamentistico” – il cui esempio più luminoso con ogni probabilità è rappresentato da Scarface (1932): in esso, infatti, Hawks “concentra l’attenzione sul comportamento dei personaggi, ricavando solo da quello ogni elemento di giudizio”(N. Lodato, Howard Hawks).

Esiste tuttavia un altro genere di antintellettualismo, questa volta interno alla genesi stessa dell’espressione artistica (e perciò ben più profondo), che contrasta la tendenza al puro ornamento che l’opera porta in sé come fatto costituzionale, al di là delle coscienti ed esplicite intenzioni estetiche del suo produttore; in altre parole, l’artista può reagire, nel corso del processo compositivo medesimo, alla decorazione priva di funzionalità verso cui l’opera inclina in quanto oggetto inutile, rendendola il più possibile spoglia ed essenziale (occorre però sottolineare, e con forza, che il carattere lussuoso di essa non può essere eliminato del tutto, a meno che non si voglia produrre altro: il fiore, dal suo punto di vista, non è affatto un ornamento). Come Bresson, Hawks sceglie con decisione questa strada grazie a un ritorno all’elementare, o se vogliamo al primitivo. In questo senso Scarface  è emblematico, in quanto può esser letto utilizzando semplicemente la cifra visiva che lo percorre, ossessiva e quasi maniacale come quella d’un quadro di Capogrossi, dall’inizio alla fine: la croce; vediamo ora in che termini ricopra il film , o meglio, lo fondi:

  • una croce accompagna i titoli di testa;
  • lo sfregio sulla guancia di Tony Camonte è una sorta di croce (dunque sarà presente ogni volta che Paul Muni verrà inquadrato in primo piano, che lo spettatore la percepisca o meno);
  • mentre Tony sta per uccidere Big Louis, l’ombra della finestra sul muro crea una croce, con un’ovvia funzione anticipatrice;
  • Johnny invita Tony a mandare “una bella croce di garofani” al funerale di Big Louis;
  • Rinaldo gioca continuamente a testa o croce;
  • quando Meehan viene ucciso, un gioco d’ombra forma una croce sul muro;
  • durante la guerra fra le gang, un cadavere viene ripreso dall’alto accanto a un lampione: l’effetto complessivo è quello d’una croce;
  • mentre infuriano gli scontri fra bande rivali, un’insegna mostra una croce di luce;
  • la celeberrima scena del massacro di San Valentino: inquadratura di diverse croci metalliche una accanto all’altra nel garage, a sostegno del tetto // inquadratura delle ombre dei gangster addossati al muro // strage // nuova inquadratura delle croci, questa volta cariche di un significato simbolico di tono quasi medievale (cioè privo di dissociazione della sensibilità, secondo la felice formula di T. S. Eliot: le croci restano sostegno del tetto e insieme adombrano l’eccidio);
  • il giorno seguente alla strage, una croce di luce dardeggia su un cadavere;
  • poco prima di venire ucciso, Tom gioca a bowling e fa uno strike che viene conteggiato con una croce: altra prolessi, ormai ovvia anche per lo spettatore più distratto;
  • alle spalle di Rinaldo, ucciso da Tony, compare una croce, questa volta del tutto inspiegabile in termini di verosimiglianza.

Un simile elenco autorizza a parlare di cimitero in senso stretto: l’autore utilizza la croce come una sorta di segno d’interpunzione forte, quasi a dividere in capitoli il film, di preferenza mostrandola e solo in qualche caso alludendovi nel corso dei dialoghi o attraverso il comportamento dei personaggi. Il macabro significato al quale essa rimanda almeno dall’inizio dell’epoca cristiana non merita commenti particolari, mentre altro si potrebbe dire analizzandone con maggiore profondità i sostrati etimologici figurali in relazione all’amore fra Tony Camonte e la sorella, Cesca, amore sul quale Hawks non lascia dubbi sia attraverso esplicite dichiarazioni (in cui parla di passionalità incestuosa, da Borgia) che soprattutto con l’uccisione del cognato da parte di Tony, priva di significato in termini di economia e di equilibri di potere (sia pure gangsteristici): egli lo ammazza per pura e semplice gelosia. Il seguito è altrettanto diretto: dopo esser stato sul punto di venire ucciso da Cesca che voleva vendicarne la morte, il fratello le chiede: “Perché, perché non mi hai sparato, Cesca?” La risposta è rivelatrice: “Non so, forse perché tu sei me e io sono te… è stato sempre così!” Dunque, alla fine, entrambi sanno di essere uguali (come due linee), di amarsi d’un amore incestuoso e di trasgredire così la Legge in cui, tuttavia, da buoni immigrati italiani religiosissimi, non cessano di credere. E’ proprio a questo punto, nel momento in cui Tony e Cesca commettono almeno virtualmente il Peccato – in cui è già compresa l’idea che esso andrà espiato con la morte (+) perché la Chiesa (+) possa riaccoglierli, finalmente pacificati e redenti, nel proprio seno – è proprio a questo punto, dicevo, che Hawks attinge ciò che più sopra ho definito primitivo: egli ritorna a un significato della croce antecedente a quello cristiano: essa “era di origine erotica […] fu la prima manifestazione d’arte che il primo artista scarabocchiò su una parete per liberarsi di una sua esuberanza. Un tratto orizzontale: la donna che giace. Un tratto verticale: il maschio che la penetra. L’uomo che creò questo segno provava lo stesso impulso di Beethoven, era nello stesso cielo nel quale Beethoven creò la Nona” (A. Loos, Parole nel vuoto). La lotta contro l’ornamento, dunque, sbalzò Hawks all’indietro nel tempo: dal cimitero alla chiesa, fino alla caverna; al principio dell’arte, insomma, là dove l’antintellettualismo trova la sua vera patria, nell’universo in cui la tensione fra ornamento e funzionalità dell’opera raggiunge il calor bianco.

Gianfranco Galliano