ZOMBI DELLA LETTERATURA ITALIANA (1976 – 1986)

L’argomento zombi non è (più) appassionante, infatti siamo scivolati dall’orribile penuria degli anni ’90 alla saturazione di questi giorni. Non per lamentarmi, eppure il genere in sé, ripetitivo di suo, soffre d’un sovraccarico di trame e plot, spessissimo ricalcate le une dalle altre.

Nonostante ciò, può apparire stimolante gettar luce su un aspetto totalmente trascurato dei living dead, ossia il versante letterario e, anche qui, non tanto quello di oggi (standardizzato e noioso, fin illeggibile direi), bensì quello italico degli anni buoni, parallelo alla covata dei living dead su grande schermo.

Prendiamo come traccia quello che ci dicono alcuni studi. Quello di Antonio Bruschini su Amarcord n. 11 del 1998, Living dead all’italiana: genealogia degli zombi di casa nostra (p. 32/41) e un Nocturno Book a cura di Gomarasca & Pulici, “Quelli che profanarono il sonno dei morti”(p. 10/28).

Da questi piccoli (e fondamentali) saggi apprendiamo i film ascrivibili al genere e girati dalle nostre case di produzione.

Vi sono pellicole di chiara derivazione dal modello di George Romero, con tanto di assedio, militari idioti e disgregazione del nucleo sociale da fantascienza distopica (Virus di Bruno Mattei, Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi, Zombi 3 di Lucio Fulci & Bruno Mattei, After death di Claudio Fragasso); altre pellicole intraprendono una strada differente, cercando di ignorare Romero e guardando al background vudu degli zombi haitiani (Zombi 2 di Fulci, Le notti erotiche dei morti viventi di Joe D’Amato, Demoni 3 di Lenzi). Un’ultima pista, quella maggiormente originale, è quella del folklore, imbevuta di leggende e campagne desolate (Non si deve profanare il sonno dei morti di Jorge Grau, Le notti del terrore di Andrea Bianchi, Paura nella città dei morti viventi di Fulci, Zeder di Pupi Avati, Dellamorte Dellamore di Michele Soavi).

Bene.

E la letteratura?

La nostra letteratura?

Come ha sviscerato l’argomento?

E qui casca l’asino, perché l’articolo in sé non avrebbe motivo di esistere.

La letteratura di genere italiana, pur avendo goduto di alcune collane quantitativamente straordinarie (parallele al cinema di genere anni ’60 e ’70), non ha colto e sviluppato la figura del morto vivente, mostro dell’immaginario collettivo forse più vicino alle corde action del cinema, capace di mostrare anziché descrivere.

Eppure il morto vivente è un emblema del perturbante, da sempre presente nel genere fantastico (parola nella quale, come correttamente propone Luigi Cozzi, dovrebbero finire tutte quelle storie di orrore, fantascienza e fantasy); lo zombi, direbbe splendidamente Daniela Catelli, è un morto globalizzato, ucciso dall’ipertrofica voglia di benessere di un capitalismo senza regole.

Questo oggi (e a tal proposito rimando – chi si loda s’imbroda – al mio romanzo zombi I paesi dell’ombra, reperibile gratis su Lulu.com; oppure lo splendido racconto di nazi-zombi di Daniele Vacchino, La maledizione della croce ferrata, qui sulla Zona).

Ieri il morto era una resurrezione della statua, della marionetta, dell’automa, della bambola e di tutto quel sex-appeal inorganico ottocentesco.

Nei tascabili erotici delle edizioni Sessantasei/Erregi (leggi: Barbieri & Cavedon) il cadavere vivente è presente in numerose testate (da Jacula, Sukia, Zora, Cimiteria fino a Oltretomba) e lo stesso si potrebbe dire di altre case editrici (penso alla Bonelli e a numerose avventure di Tex e Zagor).

Ne Lo scheletro n. 13 del 1976 intitolato Libidine mortale, abbiamo un’ambientazione da primi del ‘900 con uno scienziato, Karloff, che ruba cadaveri, sodomizza prostitute e riporta in vita un morto libidinoso che se ne và a zonzo nella campagna e si tromba chiunque.

Il numero 1 della mitica collana Oltretomba, I morti viventi del giugno 1971, parte con una ambientazione inglese che richiama fortemente l’incipit del film di Grau, per poi ritornare nel plot di Romero, pur coi personaggi principali cambiati leggermente.

Giugno 1971, 1976.

In Italia, a parte il film di Grau, la maggior parte dei nostri living dead deve ancora venire. Il modello americano è già un cult e la versione romanzesca, la novelization di John Russo, co-sceneggiatore della pellicola, esce per la SIAD edizioni nel 1978, nella collana I libri della paura n. 1, a cura di Vittorio Curtoni e Giuseppe Lippi, che ne scrive una presentazione (la medesima traduzione di G.P. Sandri verrà ristampata per il mondadoriano Estate horror 1992 e accoppiata a dei racconti di Cornell Woolrich). La copertina dell’edizione SIAD è di Giuseppe Festino e racchiude la cornice del nuovo cinema degli zombi: un cimitero gotico squarciato da due figure putrefatte che risorgono in una notte blu.

Il romanzo di Russo è assai interessante per la nostra indagine (fallita sul nascere) letteraria, in quanto traspone in prosa il canone principale dello zombi moderno. Il morto vivente di Russo discende dal vampiro, tuttavia è depurato dal contesto romantico/folklorico del racconto ottocentesco. Lo zombi apre su una visione del racconto horror pervasa da atmosfere morbose, action, grottesche. Questo ci dice Giuseppe Lippi nel 1978. Romero stesso, nella prefazione al volume, oltre al realismo della trama (e dei personaggi non più borghesi vittoriani affettati col viso di Peter Cushing), rintraccia un filo rosso coi vecchi fumetti americani dell’orrore della E.C.

Il romanzo inoltre, pone alla finezza del traduttore, una serie di problemi nella selezione delle locuzioni sui morti; si passa da un vago creature a demoni, esseri, zombi, mostri, cose umane, esseri immondi e orde.

Il concetto del morto vivente è ancora vago qui da noi.

Eppure, il primo racconto di zombi nella lingua di Dante sembrerebbe essere quello di Leopardi, contenuto nelle Operette Morali. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie del 1824 è un racconto filosofico, un dialogo morale che principia con una grande finzione narrativa, ossia l’anno matematico che riporta in vita i morti. La cornice è già precisa: la notte, coi suoi umori gravidi di tomba, uno scienziato, i suoi preparati anatomici, le mummie pietrificate. La congiunzione astrale, su cui gli antichi hanno scritto tante cose, un anno grande e matematico (equivalente della sonda per Venere di John Russo) che ridesta i cadaveri. E li ridesta ovunque, in ogni cimitero, in ogni sepolcro, in qualunque luogo e per un quarto d’ora. Un talking dead cronometrato. Era il 1824, appunto. Era Leopardi, non Romero, eppure. Affascinanti infine le analogie tardo-gotiche del racconto con il dottor Sturges (il Klaus Kinski del bellissimo La morte ha sorriso all’assassino, film ibrido del 1974 di Aristide Massaccesi) affaccendato nel suo laboratorio/cantina in strani esperimenti per riportare in vita i morti. E se anche il suo segreto risiedesse nell’anno grande e matematico?

Anche gli attori deficienti di L’assedio dei morti viventi potevano benissimo esser vittime, più che del vudu, dell’anno matematico leopardiano.

Prima della traduzione del 1978 della SIAD, i morti viventi italici fanno capolino in un romanzo di fantascienza di Ivana Conti, alias Giuseppe Pederiali, nella collana I romanzi dell’orrore della Edifumetto di Barbieri, Ladri di cadaveri. Ne abbiamo già parlato. Il libro è del marzo del 1976, quindi prima di quasi tutto quello che i nostri living dead faranno sul grande schermo. Pederiali aveva già pubblicato il romanzo con un altro titolo nel 1974, per la Campironi, Venivano dalle stelle. Si tratta infatti di una storia di fantascienza che riprende gli spunti dei primi zombi sci-fi, quelli di Assalto dallo spazio del 1959. La seconda parte del libro ricorda molto L’invasione degli ultracorpi. Sicuramente il modello non era la notte di Romero. Degli Ufo incorporei, puri impulsi elettromagnetici, vagano per l’Universo in cerca di corpi da abitare. Incappano nella Terra e l’invasione ha inizio. Solo che è indolore: gli alieni possono prendere possesso unicamente dei corpi defunti, non abitati da una coscienza vigile. Una piccola cittadina americana fa da sfondo (grande limite di questi scrittori, sia dei Dracula sia dei KKK, era proprio l’impossibilità ad osare nel collocare i fatti nei nostri borghi bellissimi, ricchi di storia, tradizioni, leggende). Un bimbo che asserisce di vedere nei campi la madre appena morta. Figure deambulanti di annegati che s’aggirano nell’aia e divorano rospi. Queste le prime bellissime pagine atmosferiche del libro che ci portano all’esempio tutto italiano del film di Grau.

Sempre del 1976 è La piramide degli zombi di Hubert Sanchez, alias Mario Pinzauti, nella collana I racconti di Dracula n. 90, copertina di Mario Caria.

Una spedizione scientifica nella giungla peruviana guidata da Humbert Sanchez. L’incipit è puro cannibal movie, con tarantole, serpenti e altre schifezze a intralciare il passo di tre ricercatori e due avvenenti studiose. Aggiungiamoci i portatori indigeni e abbiamo una situazione che anticipa di molto lo Zombi Holocaust di Girolami. Il gruppo trova delle strane rovine nella giungla e anche una piramide dalla quale fuoriesce un’ossessionante melodia di tamburi (onnipresenti anche in Zombi Holocaust e Zombi 2). Il gruppo pensa bene di accamparsi nei pressi della piramide e s’appresta a passare la notte con una bella orgetta da pornofumetto. Poi gli zombi fuoriescono dalla piramide e sono ben diversi da quelli di Russo: sono nudi, coi capelli lunghi e stopposi, armati di clave. Ancora la musica dei tamburi. Lotta con la spedizione. Poi Pinzauti si lancia in una digressione filologica intorno alla parola zombi, coniugando la tradizione vudu agli studi di fanta-archeologia di Peter Kolosimo con gli Incas e i figli delle stelle, gli UFO. Gli zombi di Pinzauti, rispetto a quelli di Pederiali, rassomigliano maggiormente ai living dead che vedremo sugli schermi dal 1979 in poi. Sono antropofagi e spaventano persino le tribù di cannibali che infestano la giungla (altra similitudine fortissima col plot di Romano Scandariato per il film di Girolami). Un altro punto di forte interesse è la spiegazione dei morti, affidata a un lungo flash back in cui scopriamo che Hubert Sanchez è la reincarnazione di un capitano spagnolo, un conquistadores che s’era avventurato coi suoi uomini nella giungla per depredare la piramide dai suoi tesori favolosi e sterminare gli indios. Alla fine il capitano Sanchez viene posseduto dal Gran Sacerdote e si schiera dalla parte dei primitivi, col risultato di farsi ammazzare dai suoi stessi soldati. E sarà la medesima brama di tesori a distruggere la nuova spedizione archeologica. Questa cornice coi conquistadores trova una sponda nell’incipit di Island of the living dead di Bruno Mattei, sceneggiato anche da Antonio Tentori, il quale, lo abbiamo appurato con una mail, non conosceva il romanzo di Pinzauti.

Saltiamo qualche anno.

Dal 1979 in Italia, i morti risorgono.

Magari per colpa del vudu.

O per una iscrizione etrusca.

O per nubi radioattive.

Per gli psicopompi.

Per degli ultrasuoni.

Per qualche trigo delle Br.

Vendetta Macumba, collana I fumetti dell’orrore – Grandi Autori, della Edifumetto di Barbieri, ottobre 1979. Testi di Ennio Missaglia, disegni di Magnus. C’è l’elemento esotico, un Brasile da Carnevale perenne, il vudu, la vecchia fattucchiera e un singolo zombi animato dal desiderio di vendetta contro la coppia di nipoti che l’ha ammazzato. La dinamica del singolo zombi basta ad allontanarci da Russo & Romero. Anzi, l’anno e l’esotismo ci portano a individuare delle ascendenze verso il modello di Fulci, a sua volta derivato da alcune tavole di uno Zagor haitiano di quel periodo. Fumetto, cinema, letteratura. Un circolo infinito di rimandi, rimaneggiature, ri-scritture. Ad esempio, a pag. 33 del fumetto, Magnus disegna una tavola che diverrà, per mano di Sciotti, il manifesto dell’Aldilà fulciano. Comunque Vendetta Macumba, dal punto di vista letterario, è quanto di più bello (merito anche del rimaneggiamento sui personaggi operato da Magnus) ci abbiano dato i nostri living dopo Leopardi. Il fumetto sparirà nei gorghi del tempo per riapparire nella ristampa di pregio della Glittering del 1986 e nel restauro della Rizzoli Lizard del 2010 con note a cura di Fabio Gadducci.

Nel 1982, nelle edicole italiane, gli zombi fanno capolino letterario nel n. 913 di Urania, con Morti e sepolti, novelization a cura di Chelsea Quinn Yabro, copertina di Karel Thole. La trama, originale, farà da sfondo a un numero classico di “Dylan Dog”, La zona del crepuscolo.

Nel 1984, invece, esce nella prima edizione Feltrinelli, Magia Rossa di Gianfranco Manfredi, romanzo che verrà ristampato nei primi Novanta negli Oscar Mondadori e poi restaurato nella splendida versione della Gargoyle del 2006 con postfazione colta dell’autore medesimo, nella quale è possibile ricercare gli aspetti più originali dell’opera, ossia quel lavoro sulla cornice romanzesca da gotico moderno. Magia Rossa, insieme al libro di Sclavi a cui accenneremo tra poco, è il romanzo sui living dead italiani maggiormente originale e autonomo (ma anche Pederiali e Pinzauti, come abbiamo visto erano indipendenti), per nulla derivato dalle trame simil Romero di tanto nostro cinema. La forza del libro è nella scrittura fortemente letteraria e per nulla cinematografica, a sua volta infarcita di scritture (finte lettere, articoli e recensioni in un italiano ottocentesco, dialoghi raffinati, colti, che spulciano argomenti inediti: scapigliatura, archeologia industriale, alchimia, occultismo, luddismo psichico). Manfredi, anziché mettere in scena i soliti giovani scemi da film dell’orrore odierno, studia nuove strade, cita a proposito Marx e lo lega a presunte civiltà perdute alla Kolosimo. Il risultato è un romanzo veloce e sorprendente, dotato di una forza letteraria di raro spessore e intelligenza: se vogliamo, una operazione a sé, un poco come l’originale Zeder di Avati.

Manfredi inventa lo zombi falce & martello!

Per vie completamente diverse, l’ultimo vero romanzo di zombi italici, prima del tracollo nel copia e incolla dei tempi odierni, è Dellamorte Dellamore di Tiziano Sclavi, scritto nel 1983 e pubblicato da Camunia nel 1991 con un successo letterario da togliere il fiato. Luca Crovi, nello speciale meraviglioso approntato da Manlio Gomarasca & Davide Pulici per il DVD Cinekult, spiega bene le vicissitudini del libro prima della sua pubblicazione e a lui rimando.

Mi preme rilevare come, se Manfredi arriva al suo libro da una voglia di fuga dai limiti (di budget, mentali) di una sceneggiatura, Sclavi è in fuga dalla letteratura e cerca nuove soluzioni multimediali per l’horror.

Dellamorte Dellamore arriva nell’anno di Zeder e Pet Semetary e rappresenta una summa del suo autore. Ritroviamo l’universo autoparodico dei libri precedenti, in particolare di Film, coi suoi atti ripetuti e l’impossibilità di fuggire da un palcoscenico iperreale, grottesco e finto. Anche la lingua di Sclavi giunge alla spogliazione definitiva, agglomerando dentro di sé linguaggi disparati come la sceneggiatura del fumetto, del cinema e la canzone ballata. Dellamorte Dellamore appare come un libro incompiuto, quasi una prova generale, un demo per un romanzo che andrebbe ri-scritto. Eppure i suoi living dead rappresentano un esempio delle occasioni sprecate dai ghoul di tanti Racconti di Dracula e KKK. Sclavi (e Manfredi) capiscono l’importanza dell’ambientazione italiana (cosa che mancava a Pinzauti, Pederiali e allo stesso Magnus) e la trasformano in un punto di forza. Il piccolo paese, la campagna, il folklore locale, i piccoli riti quotidiani, i cimiterini di campagna, i contadini e le imago mortis della nostra cultura popolare.

I segni della morte, dei defunti, sono ovunque intorno a noi.

Nei cenotafi, nelle edicole votive ai crocicchi, negli scatti in bianco e nero (ed è in bianco e nero il libro di Sclavi, ambientato in un televisivo mondo degli anni Sessanta) di Francesco Faeta e Marina Malabotti contenuti nel volume della De Luca Editore e intitolato appunto Imago Mortis. Scatti per un possibile sopralluogo alternativo per un film (altro) da ri-fare su Dellamorte.

Faeta coglie la contiguità tra i vivi e i morti; i luoghi della morte sono quelli dei living dead: cimiteri sperduti frequentati da vecchie macilente, uomini consumati dalla fatica e dall’ignoranza. Occhi di plebe spalancati sulla pagina obiettivo.

Occhi guerci, fin bianchi, da morto.

Il sapore è già quello della putredine carnale a cui Fulci, impietoso, ci ha abituati.

Dunque i veri living dead all’italiana sono quelli che ci spiano dalle foto in bianco e nero sulle lapidi.

Contadini, bimbi, ragazzi spirati troppo presto a cui rivolgersi per una grazia, un conforto, una carezza.

A questo retroterra popolare ha guardato l’ansia borghese del risorgimento, fermentata nel laboratorio positivista che avrebbe divelto la prostituzione, il brigantaggio, la pazzia e le ombre della superstizione.

Le armi erano quelle dell’antropometria, dei craniometri contro Dracula e Rocambole.

Perché i morti viventi del positivismo hanno l’occhio grifagno del villain, del ladro con la mandibola da cavallo, del falsario, del truffatore.

Finiranno tutti nel grande museo degli alienisti.

Lombroso avrà il suo di misura a Torino e ci finirà pure dentro come reperto, insieme ai barattoli resinosi pieni di paranoie schizofreniche.

La separazione e la classificazione a freddo è un modus operandi della scienza.

Eppure.

Nel cervello (bacato) del grande positivista serpeggia la tecnologia dello spettrale, l’interesse lombrosiano per i cadaveri evocati con l’ausilio di una medium da spiare e soppesare con una disposizione fantascientifica di apparecchi.

Il gabinetto medianico è pieno di lampade a incandescenza e tracciati cardiografici.

La presenza materiale degli spettri è nei calchi di gesso.

Tracce di una resurrezione ottocentesca.

Un anticipo su Romero e il vudu di Zagor.

Fotografare gli spiriti.

(Ed è affascinante l’analogia stabilita da Breton tra queste foto e il messaggio automatico surrealista, testo composto da un orecchio interiore, autonomo rispetto alle odiose correzioni senili della morale; la scrittura automatica come trance spiritica della medium, corpo testo d’impulso verbale, alito gotico di libertà meccanica guidata da un’altra mano di cui ignoriamo tutto.)

In conclusione: il cervello del positivismo s’imbeve di questi corpi spettrali, di queste figurine ritagliate, braccine, manine, faccine discole che spuntano da dietro la tenda del gabinetto medianico e fanno marameo o ti toccano le parti intime per solleticarti.

Altri pre-zombi: i morti imbalsamati, i pietrificati dell’anatomia scapigliata, i frutti dei Paolo Gorini, Girolamo Segato, Angelo Comi.

Ancora una volta è l’ossessione per il disfacimento, per il triste morso del verme a guidare la mano dello scienziato.

Cremazione o pietrificazione?

I morti di pietra dell’Ottocento finiscono dimenticati, in balia dei misterici beni culturali, riposti in qualche scaffale, come le mummie di Leopardi.

Pezzi anatomici in putredine rallentata, in attesa dell’anno grande e matematico.

Chiudo segnalando un altro romanzo, non italiano, tuttavia tradotto dall’abile Riccardo Valla per l’Urania speciale n. 1025, giugno 1986, a cura di Gianni Montanari, copertina di Karel Thole: Occhi verdi di Lucius Shepard. Nella postfazione all’opera, Valla ci riassume gli aspetti originali del lavoro, un recupero del mito zombi con i codici della fantascienza. Nel libro, i ritornanti sono personalità artificiali indotte battericamente, cavie da laboratorio di un profondo sud. Degli scienziati isolano dei batteri presenti in un vecchio cimitero voodoo e li mescolano a opportuni enzimi e frammenti di DNA, per poi pomparli nei lobi di un cadavere. Lo zombi, al risveglio, è senza memoria, cervello da riempire di ricordi e da affidare alle pazienti cure di una terapeuta. Idea originalissima nelle nostre edicole in quel giugno del 1986. Un paio di mesi dopo, sugli stessi scaffali, sarebbe uscito il primo numero zombi di “Dylan Dog” su sceneggiatura di Sclavi e disegni di Angelo Stano.

Davide Rosso