LA MALEDIZIONE DELLA CROCE FERRATA

1-

L’aria entrava dal finestrino come una ragazzina stupida, così fresca e indifferente. Attorno, tutto ciò che non fosse in veloce movimento, era paralizzato dal sole cocente di luglio. Come trovarsi sotto una tettoia in lamiera. La campagna era solo una linea orizzontale costante.

- Me ne frego, quante volte te lo devo ripetere. -

L’uomo al volante era un quarantenne con la barba di tre giorni e l’aria consumata. I suoi capelli erano scuri e alla militare.

- No, senti, se continui così vengo da te e ti mangio il pranzo – i suoi occhi due ballerine scolorite.

Mentre parlava al telefonino che teneva tra spalla e orecchio strabuzzava gli occhi con ostinazione. Un tic che si portava dietro dai tempi delle scuole elementari (la maestra aveva provato a farglielo passare lasciandolo un’intera mattina in un angolo della classe).

L’uomo chiuse la conversazione con un movimento brusco e lanciò il cellulare sul sedile del passeggero.

- Idiota – gli scivolò fuori dalle labbra sottili.

Poco dopo una curva comparve una trattoria con un grosso cartello arrugginito, “Il nuovo mulino”. L’auto si arenò sulla banchina poco oltre.

Seduti attorno a un tavolino con la tovaglia in pizzo c’era un gruppo di vecchi, con i giornali sulle gambe e i bicchieri di vino in mano.

Il nostro uomo portò la mano alla tempia.

- Alla salute. -

I vecchi gli risposero con un cenno del capo.

Uscì dalla trattoria dopo una ventina di minuti, quell’uomo compassato e maleodorante. I vecchi se ne stavano ancora lì, seduti nelle medesime posizioni di pocanzi. Quando li ebbe superati, l’uomo si voltò di colpo.

- Scusate – gli fece – che paese è questo? -

I vecchi si guardarono tra loro.

- Questo… – uno di loro rispose con una parlata lenta – … è il paese di… -

- Ma che importa! – il quarantenne non dette tempo al vecchio di completare la frase – tanto ogni posto qui è uguale agli altri! – e si indirizzò verso la macchina.

2-

- Una firma qui – un uomo in giacca e cravatta indicò un punto su un foglio, da dietro il bancone – signor Domenicali la sua stanza è la 34. -

Il nostro uomo aprì la porta della stanza e si scaraventò sul letto. Una camera quadrata e verde, con la moquette e i mobili laccati.

- Sì, manco fossimo rimasti agli ottanta – sibilò.

Si sbottonò la camicia e con il fazzoletto si pulì il viso madido di sudore. Poi crollò addormentato, così com’era, con i piedi che toccavano a terra.

Si risvegliò a notte inoltrata. Dopo essersi sciacquato la faccia, scivolò rapidamente fuori dalla camera e salì in auto. I suoi occhi sbiaditi sbattevano nervosamente mentre conduceva l’auto su una strada buia.

L’auto accostò in prossimità di un lampione, dove si trovava una ragazza bionda seduta su un bidone.

- Tesoro – la ragazza aveva occhi larghi e un’espressione da volpe, sotto i capelli biondi tinti.

Domenicali non disse una parola. Attese solo che la ragazza entrasse in auto.

- Se giri a sinistra c’è l’argine del fiume. -

- No, ti porto da me. -

Nella camera verde Domenicali era in ginocchio ai piedi del letto. Seduta, si trovava davanti a lui la giovane prostituta dell’est.

- Devo picchiarti con questa? -

- Frustami – il quarantenne batteva gli occhi come fossero palline da ping pong. Il suo collo era sudato e le vene tambureggiavano lungo la pelle.

3-

Domenicali uscì dall’hotel con la camicia ancora aperta e lo sguardo fisso al terreno. Arrivato all’auto, aprì il bagagliaio e vi tirò fuori uno straccio e uno spruzzino. Con fretta si precipitò dentro l’abitacolo. Gli occhi dell’uomo sbattevano così frequentemente che li avresti scambiati per illuminazioni natalizie. Cominciò a spruzzare il liquido contenuto nella boccetta e con lo straccio pulì prima i sedili, poi i vetri dell’automobile.

Quando ebbe finito, si sedette al posto del conducente e avviò il motore. I suoi occhi smisero di sbattere. Con un sospiro, compose un numero al cellulare.

- Cucciola. -

Una voce femminile gli fece le feste.

- Una notte che non ti dico… Tutto il tempo a far conti. -

La voce faceva le fusa.

- Cucciolotta mia. -

4-

- Oh è lei Signor Domenicali, la stavamo aspettando. -

Una vecchia sottile come un’alice aprì l’uscio.

- Cara signora – quell’uomo consumato divaricò le braccia come a voler mimare un abbraccio, che non avvenne.

- Venga, venga. -

Un corridoio stretto e buio portava ad un’uscita sul retro. Qui, su un cortile ampio quanto una piazza, c’era un uomo sui settant’anni, seduto ad un tavolino circolare con la tovaglia a fiori.

- Buongiorno, Signor Domenicali. -

- Caro Don Sergio. -

I tre si sedettero al piccolo tavolino. Il nostro uomo squadrò i due vecchi. Passandosi la mano sui capelli rasati, si limitò a guardarli, aspettando che fossero loro a parlare.

- Noi ci abbiamo pensato… – la donna aveva un viso indifferente, con un mento striminzito e le guance inesistenti.

- Dieci anni fa l’abbiamo pagata tre volte tanto – proseguì il marito.

Una pausa, in cui i due coniugi si guardarono, con un’aria di consenso.

- Accettiamo la sua offerta – dissero all’unisono.

Il quarantenne non aveva tolto lo sguardo da iena dalle loro facce. Pareva assaporare quel momento come se lo stesse attendendo da tempo.

- Miei cari signori – esordì infine – con questa crisi le persone di senno vendono tutto quel che hanno. -

I due lo stavano ad ascoltare con attenzione.

- Sono i soldi contanti i padroni di tutto – e prese a strusciare le dita della mano tra loro.

Fece una pausa, durante la quale per la prima volta si guardò attorno. Un cascinale intero, con tanto di tettoie e macchinari agricoli. E poi un orto, che correva lungo tutto il fianco della vasta abitazione.

Poi, sicuro di aver creato attorno a sé l’aura dell’uomo che conosce il mercato, riprese.

- Ma i soldi sono sempre meno e il mattone non vale più un cazzo – il suo sguardo si fece duro come quello di un bull dog.

I due vecchi si guardarono, spaventati.

- Lo… L’offerta non è più valida – balbettò il vecchio.

- No, non è questo, mio caro signore – l’affarista scuoteva ora la testa con aria paternalista – è solo che non ho potuto trovare tutti i soldi che vi avevo promesso, perché, vedete… -

- Quanti? – lo interruppe la donna.

- Signora – Domenicali la squadrava con un sorriso – sono la metà – quindi adagiò finalmente lo sguardo a terra, sazio.

Il vecchio fissava un punto lontano, tra i campi. La sua mano stringeva un fazzoletto di tela bianco, lo schiacciava come si trattasse di un pesce appena pescato.

- Va bene – la frase scivolò fuori dalle labbra della donna, quasi senza che lei potesse trattenerla.

5-

L’auto si fermò davanti alla stazione delle corriere. Alcuni ragazzi scendevano da un autobus e si sparpagliavano sul piazzale antistante. In piedi sotto a una pensilina, c’era un ragazzone flaccido che ascoltava la musica dalle cuffie e con una smorfia da cantante di boy band scandiva le parole di una canzone.

- Il mentecatto del paese – pensò il nostro quarantenne.

- Ehi – con un cenno della mano invitò il giovane ad avvicinarsi all’auto.

Il ciccione indicò se stesso con aria stupita ( non gli doveva capitare spesso, che qualcuno si interessasse a lui).

- Io? – domandò con il labiale.

- Sì, dico a te. -

Quel bolide di adolescente si accostò all’auto con l’eleganza di un bue.

- Vuoi intascare qualche soldo senza fare nulla? – il ghigno di un coccodrillo si allungò sul viso di Domenicali.

- Uhm – uscì dalla bocca del decerebrato.

- Vieni su. -

Poco dopo i due erano a piede libero per il paese, sotto il sole di mezzogiorno.

- Vai mai a vederle uscire? -

- Uhm -

- Dove ce ne sono di più? -

Il bue ci pensò un po’ su, poi indicò una via.

L’auto si fermò davanti a una scuola. Si udì il suono di una campanella e alcune ragazzine cominciarono ad uscire da un portone.

- Quale ti piace di più? -

Il ragazzone si mise a ridacchiare come farebbe un bambino di cinque anni.

- Là – indicò con la mano paffuta.

Appoggiata a un muro c’era una ragazzina bionda riccia, con le efelidi sul viso e un sorriso allargato. Portava una tuta di jeans, e sulle spalle aveva una cartella a fiori. Avrà avuto al massimo dodici anni.

Il nostro uomo si passò il fazzoletto umido sotto il mento.

6-

- Non ho la più pallida idea di dove mi trovi – Domenicali gesticolava mentre parlava al telefonino. Intanto, con aria noncurante, conduceva l’automobile con la mano destra.

- Ma cosa importa! -

La campagna era piatta e monotona, solo campi di riso. Un riso verde e denso, che era restato a lungo nell’acqua e che era ormai cotto all’asciutto dal sole di luglio.

- Ho trovato un bell’appartamento da comprare per due lire – la mascella dell’uomo era una grossa fauce in cui di tanto entravano i moscerini – è una donna che ha bisogno di liquidi. -

L’automobile si fermò in un piccolo spiazzo sulla statale. Sulla curva di un minuscolo paese, un’insegna indicava la presenza di una bettola in cui addentare qualcosa.

Il quarantenne si sedette al bancone con una goccia di sudore che gli rigava la fronte.

- Vuole mangiare? – una voce di donna provenne da dietro il bancone.

- Sì, qualcosa -

Dalla penombra emerse per pochi istanti la sagoma di una donna grassa, una donna cannone.

Alle spalle del nostro uomo arrivò un ragazzino con in mano un piatto e lo posò sul bancone.

- Sa mica di qualcuno che vuole vender casa in fretta? – domandò in direzione del buio, senza nemmeno alzare lo sguardo dal piatto.

- Qui in paese vorrebbero tutti vendere – rispose la voce di donna – Ma nessuno vuole perderci. -

L’affarista scosse le spalle, il viso indifferente come un vecchio muro.

- E nel paese là in fondo? – domandò a un certo punto.

- Quale paese? – la voce aveva assunto di colpo un’inflessione particolare, più rapida ed acuta.

- Ma quel gruppo di case più in là! – fece indicando un punto immaginario alla sua sinistra.

Poiché non ricevette alcuna risposta, l’uomo alzò lo sguardo. Dietro il bancone vide soltanto una zona in cui non arrivava la luce.

7-

L’auto superò un ponte su una grossa roggia che separava il paese dalla statale. Il cartello all’ingresso era consumato dalla ruggine. Così consumato da non poter più leggere la scritta che recava sopra. Del nome del paese non restavano che le prime due lettere “La”. L’automobile sobbalzava sulla strada sconnessa e si fermò ai bordi della strada, su una via costeggiata da vecchie cascine.

- Che cazzo di buco – l’uomo batteva gli occhi e sorrideva. Una strana sensazione percorreva le sue viscere. Qualcosa gli diceva che tra queste quattro mura grigie avrebbe trovato l’eldorado.

- Chissà quanti vecchi ignoranti senza un soldo! – si disse.

Scese dall’auto e cominciò a camminare. Il paese era soltanto un gruppo di una ventina di cascine, lungo due vie disposte ad L. I muri alti e grigi delle cascine erano difesi alla sommità da filo spinato e cocci di bottiglia.

Arrivò davanti al Municipio senza aver incontrato anima viva. Le porte erano chiuse, come tutte le altre, del resto. Sul muro della facciata, una bandiera vecchia e strappata recava il tricolore. Soltanto (ma di questo il nostro uomo non se ne accorse) al centro del bianco vi era lo stemma del Regno Sabaudo.

La chiesa del paese era piccola e bianca. La porta d’ingresso aperta.

- Lì dentro non ci metto piede! – pensò.

L’affarista annotava nella mente una serie di particolari immobiliari troppo tecnici per essere riportati. Basti immaginare che il paese veniva da lui indagato nei minimi particolari, dal punto di vista edile e urbanistico, e immagazzinato in una sorta di catasto mentale, in vista dei futuri affari.

Dopo aver percorso tutto il paese, decise di battere alla porta di una cascina. Non rispondeva nessuno.

Arrivò in fondo alla via principale. Qui, due vecchie cascine si guardavano una in faccia all’altra, entrambe barricate dietro i propri muri di recinzione. Subito dopo, la strada si interrompeva bruscamente e cominciavano i campi di riso. Domenicali si arrestò proprio ai bordi della strada che immetteva nella campagna.

- Qui i campi sono ancora allagati – gli uscì dalla bocca.

Era proprio così: nonostante fosse già luglio, in quel paese i campi avevano ancora l’acqua alta, manco si trattasse di inizio maggio.

- Se li hanno allagati vuol dire che sono di qualcuno – provò a formulare.

Una superficie d’acqua immobile e compatta circondava tutt’attorno quel paese senza nome.

- Ma allora perché non fanno il raccolto? -

Si allontanò scuotendo le spalle, pensando che, in fondo, non fosse un argomento che lo potesse riguardare.

8-

- Una miniera d’oro ti dico – l’affarista parlava al telefono seduto sul cofano della sua auto.

- Non lo so… – la fronte gli si aggrottava come avesse per la testa un pensiero seccante – ti dico che non lo so dove sta ‘sto posto! -

Chiuse la conversazione senza salutare. Con lo sguardo di un avvoltoio fece correre la vista a destra e a sinistra.

Si fermò davanti a una cascina con le mura in mattone rosso. Non trovò il campanello e si mise a battere i pugni contro la porta d’ingresso. Non rispose nessuno.

- Che cazzo di morti viventi in ‘sto buco! -

Fece il medesimo tentativo alla porta successiva. Ancora niente.

- C’è qualcuno? – provò a gridare senza troppa convinzione.

Passò nuovamente davanti alla chiesa. Nell’assenza assoluta di alternative, quella porta accostata rappresentava l’unica strada percorribile.

Non appena il quarantenne entrò nell’edificio, un odore rancido e ammorbante lo obbligò a portarsi il fazzoletto al naso, per respirare.

La chiesa era devastata: i muri anneriti, le panche e il confessionale sfasciati. Fece qualche passo in direzione dell’abside. Qui, l’altare era stato completamente sradicato dal terreno e riposto a terra al contrario, con le gambe per aria.

- Ma che cazzo? – bofonchiò nel fazzoletto.

Il crocifisso era stato carbonizzato e appeso al contrario.

Dietro il presbiterio, una piccola porta scendeva lungo una scala stretta e buia.

Chissà per quale motivo, quell’uomo meschino e calcolatore decise di intrufolarsi dentro. Seguendo una sottile striscia di luce, discese le scale e si trovò in una piccola stanza sotterranea, da cui filtrava una timida luce da una grata. Il puzzo di rancido aveva lasciato il posto ad un odore di marcio impestante. A stento riuscì a trattenere il vomito.

Gli occhi di Domenicali traballarono a destra e a sinistra, provando a scorgere cosa si trovasse nella penombra. Quando le pupille si adattarono alla scarsezza di luce, allo sguardo dell’affarista si mostrò l’osceno spettacolo: legato con delle corde ad un tavolo, si trovava il cadavere di una bambina.

- Bamh! – un tonfo fortissimo scosse l’aria d’improvviso.

Domenicali scappò via nel buio, il cuore impazzito e il vomito che gli usciva dalla bocca.

9-

- Un cadavere ti dico! – gli occhi di Domenicali erano due ballerine azzurre impazzite.

- No, cazzo che non lo so! -

L’auto sobbalzava tra le buche della strada. A passo spedito percorreva la via d’uscita dal paese.

- Ma porca tr… -

Domenicali frenò. L’auto si arrestò in faccia ad un baratro.

- Il ponte – balbettava al telefono.

- Il ponte! -

Il ponte che collegava il paese alla statale era crollato in acqua.

- Come cazzo è possibile? – urlò nel microfono.

La voce all’altra parte del capo continuava a domandargli qualcosa. Ma lui non rispondeva.

- Ti dico che non lo so dove sono! – gli sbraitò infine.

10-

L’auto era ferma sull’ultimo pezzo di strada. Pochi centimetri oltre, l’acqua delle risaie si estendeva a perdita d’occhio. Domenicali era appoggiato alla portiera aperta del conducente, con lo sguardo scrutava i campi allagati attorno.

Il sole stava scomparendo sotto le risaie. Una luce cangiante vibrava riflessa dalla superficie dei campi.

L’uomo provò a comporre un numero al cellulare, ma non rispose nessuno. Si voltò e diede un’occhiata alla via. Non un’anima viva.

- Ooooooh! – provò ad urlare.

Nessuna risposta. Si sedette sul sedile del conducente, le spalle molli e lo sguardo a terra.

- Perché cazzo mi sono venuto a infilare in questo buco? – pensava – con  tutti gli affari che ho da fare in giro! – scuoteva la testa, come fosse un guerriero in gabbia.

D’un tratto si udì un rumore strano. Il quarantenne alzò gli occhi. Non vide nulla di nuovo. Ma il suono proseguiva. Era un ronzio strano, gutturale. Una cantilena, quasi una preghiera sommessa. Lenta e lontana. Proveniente come dal centro della campagna, nel mezzo dei campi allagati.

- Che diavolo? – l’affarista si voltava a destra e a sinistra, ma senza vedere nulla.

Accadde tutto molto rapidamente.

Nell’istante in cui il sole scomparve sotto l’orizzonte, delle sagome apparvero in mezzo alle risaie.

Domenicali spalancò gli occhi.

Erano sagome umane, che emergevano dall’acqua delle risaie e camminavano in direzione del paese, lentamente.

Altre sagome sorgevano dall’acqua e si alzavano in piedi. Si univano alle altre e camminavano nella medesima direzione.

Intanto, il suono si era fatto più nitido. Proveniva da quelle sagome ed era come il suono di una preghiera, di un canto recitato all’unisono.

Domenicali scese dall’auto, come se fosse in trance.

- Chi… Chi son…? – biascicò.

Le sagome si stavano avvicinando, con un passo lento che sciabordava nei campi di riso allagati.

Il nostro uomo era come paralizzato.

Quando arrivarono più vicino, l’affarista poté constatare con i suoi occhi di cosa si trattasse. Erano degli uomini con la pelle tumefatta e sfigurata, dei mostri carbonizzati e con gli occhi che penzolavano molli e decomposti fuori dalle orbite. Portavano tutti il medesimo vestito: una uniforme nazista, di quelle nere come la pece e con il collo e le spalline rosse come sangue. Al collo avevano una enorme svastica in ferro.

Altri corpi stavano emergendo dalle risaie e si univano al macabro drappello. Corpi decomposti con al collo una svastica ferrata, volti deformi da cui grondavano vermi si alzavano dalle risaie e cominciavano a camminare con i piedi sprofondati nell’acqua.

- Co… Com’è possibile? – sussurrò Domenicali.

Restò lì pietrificato per un tempo indefinito. Come se quel canto lo avesse rapito e stordito, imprigionato in un tempo lontano. Soltanto dopo diversi minuti ebbe un sussulto. Riuscì a muovere un braccio e poi il resto del corpo. Quando il drappello di zombi nazisti stava per arrivare a pochi metri da lui, fu capace di scendere a fatica dall’auto e si trascinò verso il paese.

Con il respiro che pareva bruciargli la trachea, arrivò al Municipio. Per la prima volta si voltò. Gli zombi nazisti avevano superato la sua auto e avanzavano lungo la via. Notò una finestra sulla facciata dell’edificio. Pensò a cosa fare. Da una parte sconosciuta del cervello emerse un’idea. Prese una pietra a terra e con un movimento goffo sfondò la finestra. Poi entrò dentro. Quando finì di scrollarsi di dosso i vetri, alzò lo sguardo: il Municipio non era altro che un enorme stanzone vuoto e quasi buio. Stringendo gli occhi per agevolare la vista, cercò di avvicinarsi al fondo dell’edificio. Qui vi era un grosso tavolo in legno. Quel che Domenicali non vide sul subito, era un’enorme croce ferrata appesa alla parete centrale

Quando finalmente l’uomo alzò lo sguardo, vide la croce nazista campeggiare su tutto il muro.

- Dio mio – gli uscì dalla bocca come se si trovasse di fronte a qualcosa di incommensurabilmente più grande di lui.

Si avvicinò al tavolo e trovò una serie di fogli sparsi. Poco più in là, vi era un registro largo e spesso.

- Il registro comunale. -

Lo afferrò e si mise sotto una finestra da cui filtrava un po’ di luce. Due dita di polvere ricoprivano la superficie del registro. Senza pensarci troppo andò all’ultima pagina compilata. Con fatica riuscì a leggere qualcosa.

- Ventisei aprile 1945. Il Fronte di Liberazione Nazionale Alta Italia dichiara caduto il potere del Potestà nel paese di Larizzate. Al fine di perseguire la completa liberazione del paese, è stata resa necessaria l’esecuzione di un drappello di soldati tedeschi. Poiché i cittadini si sono rifiutati di veder sepolti nel camposanto i corpi dei soldati nazisti ( i soldati nemici si erano macchiati di una serie di sanguinosi atti, tra cui la violenza ad una bambina del posto), abbiamo provveduto a sepoltura civile in luogo da tenersi segreto, al fine di evitare vendette. -

In fondo alla pagina, vi era una nota, scritta in matita.

- I soldati nazisti hanno letteralmente terrorizzato il paese. Essi hanno convinto la gente che non si sarebbero mai potuti liberare di loro. Quando li abbiamo fucilati, la gente del posto era terrorizzata: era come se credesse ad una possibile vendetta da parte dei nazisti. -

Quando Domenicali alzò lo sguardo, delle sagome erano apparse nel buio. Il drappello di zombi nazisti era già penetrato dentro il Municipio. Il suono del loro canto rimbombava tra le mura vuote dell’edificio. I loro crani deformi e tumefatti grondavano larve a terra, che andavano a impattare col suolo producendo un rumore molle e nauseante. L’affarista immobiliare cercava riparo nel buio come un cane terrorizzato. Quando alzò lo sguardo, quel che vide lo raggelò: sui muri del Municipio erano comparse (o forse c’erano già prima, ma lui non se ne era accorto) delle scritte nere e spesse, recanti la frase “Non vi libererete mai di noi”.

Quell’uomo scaltro negli affari e consumato nell’animo capì che la sorte non gli aveva lasciato che un’ultima chance. Un tiro di dadi. Il drappello di zombi nazisti era compatto e marciava verso di lui.

- Devo provare ad alzarmi di colpo e a gettarmi dalla finestra – pensò.

La finestra che stava alle sue spalle, quella da cui filtrava la luce che gli aveva permesso di leggere il registro del comune, era piuttosto alta. Serviva un balzo felino e poi la speranza di riuscire a sfondare di slancio la vetrata.

- Ora li frego – provò a dirsi senza convinzione.

Gli zombi nazisti procedevano lenti verso di lui, con le loro croci ferrate al collo, le divise nere con le svastiche ricoperte di vermi. Erano ormai a non più di un paio di metri da lui. Domenicali si alzò sulle ginocchia come potrebbe fare un gatto obeso. Saltò, portando in avanti la spalla destra. L’impatto fu dirompente e il vetro si frantumò come una stella che esplode nel cielo. Quando il suo corpo atterrò, un dolore fortissimo, una lama, gli lacerò il fianco destro. Era un pezzo di vetro, che gli si era conficcato poco sopra il bacino. Senza curarsi troppo del dolore, si rialzò e cominciò a correre. Non sapeva dove stesse andando. La notte era solida e compatta, nera come il ventre di una tarantola. Sotto i suoi piedi c’era l’erba, alta e umida. L’affarista correva, lo sguardo paralizzato dal terrore che stava alle sue spalle. Ad un tratto, un piede sprofondò nell’acqua. L’uomo abbassò lo sguardo.

- Maledette risaie – quasi urlò.

Continuò a correre nell’acqua melmosa, con i piedi che sprofondavano in quella terra porosa come solo il volto di una vecchia potrebbe esserlo.

- Se taglio qui in mezzo raggiungo quel paese – la speranza era tornata a vibrare dentro di lui.

Attorno, le risaie allagate erano un mare a scacchi, geometrico e compatto, si distendevano languide come un’immensa pianura argentata.

L’affarista immobiliare si sentì afferrato ad una gamba. Non fece in tempo a realizzare cosa stesse succedendo, che si trovò lungo disteso nell’acqua. Quando riuscì a rialzare la faccia dall’acqua melmosa, vide due zombi nazisti che stavano emergendo dalle risaie, proprio lì, davanti a lui. Una mano lo teneva per la gamba, inchiodato nell’acqua. Altri soldati non-morti tedeschi si stavano sollevando stancamente dalle risaie, nel buio, i crani spaccati che grondavano acqua fetida.

Come dei ragni che lentamente si avvicinano alla preda caduta in trappola, si avventarono sullo straniero e lo portarono con sé, là sotto quelle acque.

Daniele Vacchino