DELIRIO ALL’ULTIMA PALLOTTOLA – TUTTO IL CINEMA DI MICHELE SOAVI 06

Il cimitero dei ritornanti

Un cimitero, due becchini, morti viventi, teste senza corpo. Più che horror troviamo magia e grottesco in questa coproduzione italo-francese dove il mestiere di Soavi e la sua capacità di scrittura filmica e di regia si notano meglio che in altre opere. Perché Dellamorte Dellamore è soprattutto un lavoro originale nel quale il regista si libera una volta per tutte dall’etichetta di emulo geniale di Dario Argento e dimostra di essere ottimo creatore di film fantastici. La trama è tratta dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi edito da Camunia che vede protagonista Francesco Dellamorte di professione becchino. Ma si tratta di un becchino molto particolare. Rupert Everett è l’interprete ideale per conquistare il pubblico perché si gioca volutamente sulla somiglianza fisica con Dylan Dog, l’eroe dei fumetti creato da Sclavi e disegnato a somiglianza dell’attore. La storia di Dellamorte non ha niente a che vedere con Dylan Dog e il fumetto è servito soltanto a pubblicizzare il film con abili locandine.

Morandini racconta così la trama nel suo Dizionario del Cinema.

“L’azione si svolge nel mondo fantastico del cimitero di Buffalora dove il becchino Francesco Dellamorte (Rupert Everett) e il suo aiutante Gnaghi (Francois Hadji-Lazaro) hanno il compito di uccidere i morti che si levano dalle tombe, aggressivi e affamati di carne umana. La situazione si complica con l’entrata in scena di tre donne malefiche (tutte interpretate da Anna Falchi). In altalena tra cinismo beffardo e malinconia romantica, con tensioni metaforiche e ripetute citazioni (Welles, Magritte, Bocklin), il film ha almeno due momenti da citare (il centauro che ritorna e il finale nel tunnel), attori scelti con intelligenza, immaginose scenografie di Antonello Geleng, sapienti effetti speciali di Sergio Stivaletti”.

A Tiziano Sclavi, creatore del personaggio di Francesco Dellamorte e dell’eroe dei fumetti Dylan Dog, il film piacque moltissimo. In un’intervista al Mattino di Napoli del 4 agosto 1999 ebbe modo di dire: “Secondo me quel film è un piccolo gioiello di umorismo nero e grottesco. Posso dirlo tranquillamente, dato che io ho solo venduto i diritti e non ho fatto altro. La sceneggiatura era dello stesso Michele Soavi e di Giovanni Romoli. Quando l’ho letta ho telefonato a Michele con grande entusiasmo: era molto meglio del mio libro! In un altro caso, quello di Nero. (con il punto, notare), film diretto da Giancarlo Soldi, ho scritto io la sceneggiatura (che poi ho trasformato in romanzo), e quindi non posso esprimere giudizi”.

Certo che lo spettatore che si reca al cinema convinto di vedere una pellicola horror e niente più resta deluso. È vero che il film contiene anche terrore e angoscia, però sempre mescolate a una buona dose di umorismo nero. Dellamorte Dellamore non ha niente a che vedere con lo splatter e con il gore che molti vanno cercando in pellicole del genere. Qualcuno lo ha addirittura chiamato un horror filosofico, definizione che non mi sento di condividere perché un po’ altisonante. Il film è giocoso, anche se sta sempre in bilico tra il grottesco e l’opera morale.

Soavi è regista di scuola Argento ma rispetto al maestro è più pop e ha un minor gusto per le scene raccapriccianti, come dice Irene Bignardi in una recensione al film comparsa su La Repubblica del 24 marzo 1994. Soavi imposta un film che sta a metà tra le atmosfere del fumetto e quelle del fantasy. Ci troviamo in un mondo fatto di scenari tipici de La famiglia Addams e la storia è un vero e proprio romanzo gotico. Il regista caratterizza in maniera decisa i personaggi del film. Basta vedere Gnaghi, magistralmente interpretato dall’attore francese Francois Hadji-Lazaro, per capire la valenza caricaturale e simbolica di tutti i personaggi della storia. Gnaghi è un adulto-bambino, deforme, grasso, con un’espressione ebete, di età indefinibile e sa dire soltanto “gna”, una specie di verso infantile. È il complemento di Francesco Dellamorte: la sua metà piccola e grassa, che si esprime come un selvaggio, apparentemente stupido, ma in realtà intelligente e capace di provare sentimenti d’amore. Francesco Dellamorte invece pare un freddo e cinico calcolatore, un esecutore di un mandato avuto in sorte dal destino. La loro complementarità è confermata nella scena finale, dove i due si scambiano i ruoli. Gnaghi comincia a parlare. “Riportami a casa” dice di fronte al baratro.  Dellamorte annuisce emettendo il verso infantile dell’amico. I due personaggi sono così lontani che “si toccano”, così come i temi principali del film: la morte e la vita, due dimensioni opposte, ma complementari (“…la morte che vive, la vita che muore… e non hanno mai fine, non hanno mai inizio…”).

Qualche annotazione in più la merita la figura dello zombi così come è tratteggiata dalla pellicola. Soavi rinnega del tutto la tradizione culturale haitiana e anche ciò che hanno fatto i registi precedenti sul grande schermo. I morti viventi si chiamano “ritornanti” e quando escono dalle tombe mantengono cognizione della loro vita mortale. Si veda per tutti l’episodio del sindaco-ritornante che intima a Dellamorte: “Tu non puoi spararmi. Io sono il tuo padrone”. E lui che lo fredda con un colpo di pistola in fronte rispondendo con un cinico: “Adesso non più”.

Lo zombi che tramandano le leggende caraibiche non ha mai affascinato i registi cinematografici. Il morto vivente haitiano, che la maggior parte della popolazione descrive come figura reale, è soltanto un povero disgraziato richiamato in vita dall’evocazione di uno stregone. Di solito la sua anima è stata rubata prima della morte e chi esegue il rito per richiamare il corpo dalla tomba diventa padrone dello zombi, schiavo inconsapevole e incapace di pensare o ricordare il passato. Lo zombi non è un essere cattivo e neppure pericoloso, non mangia carne umana e non rincorre persone inermi durante notti di tempesta. È soltanto uno schiavo che non sa articolare una parola e si esprime a grugniti monosillabici. Oltre a questo si dice che non possa mangiare sale, pena la condanna alla dannazione eterna per la sua anima. Lo zombi che ingerisce del sale comprende la sua situazione di morto vivente e impazzisce. Cerca di rientrare nella tomba ma non può farlo perché la sua carne si decompone a contatto con la terra.

Nel cinema la figura dello zombi è stata oggetto di numerose varianti.

Impossibile non citare i due film fondamentali di George A. Romero. Nell’inimitabile La notte dei morti viventi del 1968 gli zombi si rivoltano contro i vivi in un paese della Pennsylvania, mentre in Zombi del 1979 assediano in un supermercato di New York cittadini inermi. Questi film hanno scatenato una ridda di imitatori e restano in ogni caso pietre miliari del cinema horror. Ne La notte dei morti viventi gli zombi diventano tali a causa delle radiazioni cosmiche. In quegli anni si cominciavano a fare i primi viaggi spaziali e il timore di quello che poteva accadere faceva fare simili congetture. Basti pensare ai fumetti americani della Marvel e soprattutto ai Fantastici Quattro divenuti dei mutanti a causa delle radiazioni assorbite durante un viaggio spaziale. Anche il finale della pellicola di Romero è atipico: il protagonista positivo del film muore freddato da uno sceriffo che lo scambia per un morto vivente.

Zombi 2 (1979) e Zombi 3 (1988) di Lucio Fulci tirano in ballo improbabili virus capaci di produrre un contagio inarrestabile. Il primo è ambientato in una non meglio precisata isola delle Antille, il secondo (che non è certo un capolavoro) parte dalle Filippine con il furto di un virus per la guerra batteriologica, che contagerà un’intera regione.

Zombi Holocaust (1980) di Frank Martin (alias Marino Girolami) presenta un’interpretazione originale dei morti viventi, creati in laboratorio da uno scienziato pazzo che ha la sua base in un’isola dell’arcipelago delle Molucche. La similitudine con Frankestein è evidente. Ci fermiamo qui, ma potremmo citare altri zombi cinematografici.

Quello che ci interessa dire è che lo zombi di Soavi è originale.

Il regista non tenta di dare una spiegazione logica al ritorno in vita dei morti di Buffalora. Tutto è irrazionale e grottesco. Non si parla di stregoni che resuscitano i morti e neppure di esseri contagiati da virus o prodotti da scienziati pazzi. Lo zombi di Soavi è un personaggio da fumetto, un “ritornante” del tutto consapevole di quel che ha fatto da vivo e che continua a recitare il suo ruolo in attesa di una pallottola in fronte pienamente liberatoria.

La storia del film può sembrare fuori dallo spazio e dal tempo e anche del tutto priva di logica. A Buffalora i morti tornano in vita entro sette giorni dal decesso e i vivi si comportano come degli zombi, come se le leggi della natura si fossero capovolte trasformando il mondo in un universo surreale. I personaggi si muovono come marionette in uno scenario fumettistico che assomiglia molto alla nostra realtà. È proprio questo il messaggio che Soavi vuol far arrivare allo spettatore. Il film è una denuncia della attuale condizione italiana. I personaggi fanno confusione a distinguere chi è vivo e chi è morto, vivono e non sanno di farlo, sono inconsapevoli della loro situazione. C’è un sindaco maneggione (Stefano Masciarelli) che utilizza persino la morte della figlia per la propaganda elettorale, c’è un impiegato del comune che si perde tra le scartoffie polverose e i moduli da compilare, ci sono ragazzi senza interessi che passano il tempo davanti al bar del paese. Niente cambia mai nel mondo di Buffalora: i morti tornano in vita e il custode del cimitero viene chiamato ragioniere. Tutto è burocrazia, anche la morte è soltanto una pratica da archiviare e il terribile compito di Francesco Dellamorte è una cosa che tutti vedono come normale, un fastidio in più che si aggiunge a quello della sepoltura. Il finale della pellicola rappresenta l’ultima stupenda metafora. Persino fuggire è impossibile da Buffalora, perché alla fine del lungo tunnel i nostri eroi incontrano una simbolica voragine.

Soavi cerca di nobilitare il cinema di genere toccando temi e contenuti insoliti per questo tipo di pellicola. Lo fa con intelligenza e profondità, ricorrendo all’horror grottesco, al fumetto surreale, ma tra le righe riesce a  dire tante cose. Basta saperle leggere.

Tra le cose migliori di Dellamorte Dellamore dobbiamo citare la notevole confezione di un paesaggio notturno e cimiteriale, i costumi di Millenotti e gli effetti speciali creati da Stivaletti.

Il maggior limite dell’opera lo troviamo nelle cose che la rendono troppo simile a un fumetto. La storia, scritta da Gianni Romoli sulla base del romanzo di Sclavi, è frammentaria e ripetitiva. Anche i personaggi, proprio come nei fumetti, sono privi di spessore e riesce difficile sentirli vivi e reali. Per esempio non ci si affeziona a nessuna delle tre donne malefiche interpretate da Anna Falchi perché si sa troppo poco di loro. Restano tre belle presenze capaci di far uscire di senno Dellamorte che si innamora sempre e finisce per commettere ogni volta un errore imperdonabile. Tutto qui. Lo stesso Dellamorte con quel freddo cinismo da carnefice dei “ritornanti” resta troppo distante e non soffriamo con lui per il progressivo deteriorarsi della sua mente che lo porta a uccidere senza motivo. Piuttosto si ride. Anche quando il sangue sgorga a fiumi. Persino nelle scene che vorrebbero essere più crude. Il grottesco e il fumetto hanno sempre la meglio e non permettono al dramma di prendere il sopravvento. Soavi si è spesso giustificato con la critica dicendo che così facendo ha raggiunto il suo scopo. Dellamorte Dellamore non voleva spaventare ma far sorridere e far pensare. È vero che ci è riuscito. Però è anche vero che in definitiva il film non ha contentato nessuno. Né il pubblico più giovane che cercava un horror con tanto splatter e terrore. Né un pubblico dal palato fine che non si è contentato delle metafore appena accennate e delle atmosfere grottesche. Le numerose critiche piovute sull’opera, che ha avuto in ogni caso un buon successo di cassetta, hanno fatto sì che venisse congelato il progetto di Soavi su di un film ispirato alla figura di Dylan Dog. In ogni caso non dobbiamo commettere l’errore di gettare via il bambino con l’acqua sporca. Il film resta una prova pregevole di Soavi e soprattutto un tentativo riuscito di andare oltre la tradizione horror italiana.

(6 – continua)

Gordiano Lupi, Maurizio Maggioni e Fabio Marangoni