CATACOMBE: IL CINEMA GOTICO ITALIANO DEGLI ANNI ZERO E DIECI DEL XXI SECOLO

“Proprio per questa sua tipica poliedricità, nel corso di una vita ormai quarantennale, il gotico-horror italiano ha sempre trovato modo di rigenerarsi grazie ad autori che di volta in volta hanno saputo cogliere e trasferire sullo schermo paure e sindromi emergenti, dando vita a suggestioni che per forza e originalità sono diventate oggetto di culto anche all’estero”.

Così scrivevano Antonio Bruschini & Antonio Tentori nel giugno del 1997 nell’introduzione del loro bel libro Operazione paura edito dalla Punto Zero di Bologna. Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, tuttavia l’horror italiano non è rinato come loro speravano, o almeno come speravo io. Le ultime pellicole maledette e brucianti si sono consumate nel corso degli anni ’80, quando ormai l’industria cinematografica italiana aveva già esaurito le sue forze. E sono proprio queste energie residue, ormai malate e trash a interessarmi. L’estetica del brutto, del patibolare e arrabattato, in controtendenza ai prodotti ancora troppo patinati e digeriti del mondo televisivo.

In quegli ultimi anni di semi-vita della nostra industria di genere incappo in una VHS duplicata da Luigi Cozzi, quando ancora compravo per posta dalla Profondo Rosso di Roma: Streghe (1989) di Alessandro Capone, già sceneggiatore del Camping del terrore e di Thrauma di G. Martucci. La VHS è rimasta in qualche scatolone per decenni, non l’avevo mai vista, e presto sarebbe finita assieme a un carico di abiti usati da donare a qualche parrocchia del vercellese.

Streghe è una produzione che guarda all’America e sembra proseguire il lavoro mimetico del Camping di Deodato. Dopo un prologo gotico che omaggia velocemente il Bava della Maschera del demonio, Capone si tuffa a pesce negli squallidi anni ’80, con le loro musichette pop al limite del delirio, i calzini di spugna puzzolenti, ciccioni che vomitano e fighette senza un’oncia di cellulite. Tra dialoghi deliranti e insensatezze di fondo, Capone lima un horror di chiara matrice Usa che guarda al cinema delle case infestate taroccate all’italiana (vedi il sommo Joe D’Amato e le sue produzioni del periodo). La parte centrale del film scorre sui binari di uno slasher paranormale (c’è persino un ammazzamento con motosega alla Leatherface) per poi sfracellarsi in un finale che copia alla peggio L’Esorcista. Forse la patina gelatinosa della fotografia e l’insistenza del modello Usa, alla lunga, spengono l’interesse, lasciando la convinzione che certi prodotti era meglio gustarseli così, traballanti e sfuocati, non addormentati, fagocitati, assimilati dalle logiche della visione nitida e perfetta, politica editoriale di cui quelli della Midnight factory sono profeti in Italia.

Nel pacco per la chiesa c’era pure un horror per cui mi sono a lungo brasato il cervello: Non aver paura della zia Marta (1989) di Mario Bianchi, mostruosità che appartiene alla famigerata serie di film con la dicitura “Lucio Fulci presenta”. In realtà all’epoca non circolarono e vennero ripescati in VHS dalla Avo film. Questa zia Marta è tra i più interessanti del lotto, un po’ per gli interpreti (Gabriele Tinti, Adriana Russo, Jessica Moore – spesso nuda e fighissima), un po’ per le evidenti follie della trama. Un minimalismo spettrale anima il film e gli interni, ravvivati da effetti speciali grezzi e violentissimi, degni di un lavoro amatoriale. Tuttavia le musiche di John Sposito sono talmente belle da inondare la povertà della messa in scena e aggiungere una certa atmosfera malata e morbosa che non guasta. L’omicidio di Jessica Moore sotto la doccia, la decapitazione di un bambino e la parte finale con la zia brulicante di vermi amorevolmente sbaciucchiata da un custode necrofilo valgono la visione!

Facciamo un salto nel buio.

Veniamo al nostro presente.

Dopo gli ultimi fuochi degli anni ’80.

Dopo il silenzio glaciale degli anni ’90.

Dopo le VHS da edicola.

Dopo?

Il gotico horror italiano è diventato carsico, è scomparso per poi riapparire in pellicole, lavori amatoriali in video, opere fuori dal coro e fuori di testa.

Tra i primi a riprendere certe strade è l’interessante Roger Fratter, autore di un film vampiresco, Sete da vampira, chiaro omaggio al cinema erratico e anarcoide di Jess Franco e Jean Rollin. Fratter popola il suo lavoro di bellezze femminili mozzafiato, rarissimi squarci gore, e tanto erotismo morboso, sconosciuto al cinema degli anni ‘90 (il film è del 1998). Fratter gira molto bene e sa tenere una storia minimale, praticamente assente, affidata ad attori amatoriali, ridoppiati. Anche la scelta della protagonista, Elisabetta Cavallotti, è azzeccatissima. Elisabetta è una vampira, mater tenebrarum, Lilith, prima moglie ribelle di Adamo, colei che non vuole soggiacere ai voleri del maschio, quintessenza della donna snaturata, ribelle, per questo pericolosa. Da lei discendono i mostri della classicità, arpie, erinni, gorgoni, sirene, figure di un perturbante femminile. Lilith rinascerà sotto altre forme, trovando terreno fertile nelle orge silvestri e stregonesche del cinema horror d’ogni latitudine.

Fratter tornerà al genere con AbraXas (2001), film coglione su un satanismo da fumetto, direttamente ispirato alle zompate pecorecce del cinema di Renato Polselli! Tanta bella gnocca (costante del regista bergamasco) con mantelli neri e incappucciati da messa nera!

Oltre ai divertenti lavori di Fratter, penso soprattutto a Dekronos – Il demone del tempo di Rachel Bryceson Griffiths, aiuto regista – per quel che può valere – di Mel “bottiglia” Gibson e Martino Scorsese.

Il film è una vaccata colossale!

Per i più.

Per me opera somma.

Un film perfetto.

Cioè campato per aria.

Sconclusionato.

Come devono essere i film.

(Se proprio li si deve fare.)

Ha trama.

Si capisce qualcosa.

Quel tanto per seguirla, ma non c’è plot.

Non ci sono funzioni.

Azioni.

Propp (con due “p”?, boh?) si sarebbe sparato nei coglioni.

Non ci sono indagini (odio gli inquirenti, con la loro supponenza, le tute bianche dei Ris, la loro inerzia logica, eccetera).

Non ci sono eroi.

Solo un burattino che fa il ricercatore e abita sopra le cantine della strega Zabora (sublime).

Una cricca di giovinastri di Fiano Romano che anticipano la disoccupazione minima degli anni Zero, il depauperamento della classe media e l’arrivo del solito vuoto provinciale. Un vuoto che avvolge i più deboli, quelli che non possono scappare, rifarsi una vita nelle metropoli trendy o nei reality show RaiSet. Ecco allora che tra padroncini aziendali e commessi ci sono loro, i non studenti, i non lavoratori, i non tutto. La capa della cumpa è Naike Rivelli, uno dei motivi massimi per vedere l’opera. Naike con le tette strizzate dentro un completino da cubista sfoggiato con sicumera eleganza dentro le 4 mura di casa, persino al cesso. Naike che fuma. Naike che ride. Naike che sniffa. Naike che lesbicheggia. E convince i burini del gruppo a formare una setta. Scivolare nel gorgo del male. Zabora è dietro l’angolo, ne approfitta. Francesca Rettondini transita nel film. Andrea Bruschi fa la marionetta. Però c’è atmosfera. Un’atmosfera che nel 99,9% dei film coi soldi non esiste. La povertà disarmante aiuta. La mancanza di idee (a volte) aiuta. E’ un gotico puro, di quelli che non si vedevano e facevano più nel nostro paese. La strega. La condanna. Il ritorno.  E lo scorrere incestuoso della gang di Naike che anticipa le Bestie di Satana. Dentro c’è già tutta quella storia là. Poi, come ho detto, il film si perde, si smarrisce. Le immagini si ripetono. Si confondono. Tutto abbozzato. Sfumato. Non importa. Naike muore. Il demone del tempo riavvolge tutto. La fa tornare. Con le tette strizzate. E il suo sorriso acido. Da qualche parte, fuori campo, le edicole delle madonne ammuffite, i mazzetti di fiori di plastica lungo i bordi delle comunali e i boschi infestati dalle nuove streghe, le nigeriane con le loro seggiole e i fazzolettini di carta per pulirsi la bocca incrostata. Siamo nel Lazio, ma potrebbe essere la Padana Superiore.

Film immenso.

Da qualche parte, nel vuoto pneumatico degli anni ’90, c’era stato Il fantasma, ultimo sogno liofilizzato di Joe D’Amato nel tanto amato cinema di genere.

Ricordo una Venezia da cartolina turistica.

Degli scorci di palazzi alghe.

Memorie del gotico che fu.

Non è La morte ha sorriso all’assassino.

Però Eva vale più di Eva Aulin.

Eva che gira, bellissima, gonfia di carni.

Eva che interpreta una soprano e ritorna sui luoghi del romanzo di Leroux.

Il sesso trabocca a profusione.

Il fantasma e i fantasmi scopano pure loro.

La trama sfuma, si perde nella griglia del porno e in una atmosfera rarefatta, digitale, da technogotico di fine ’90.

La cosa più bella comunque, oltre ai cumshot su Eva, sono quelle immagini rapite dal film muto con Chaney e proiettate in chroma a loop sui corpi bovini.

Alessandro Perrella è un’altra figura interessante del nostro cinema di genere. Da attore, montatore, regista di porno e infine regista di due horror/thriller negli anni 0. Il primo, Hell’s Fever è un thrilling interessante, molto all’americana, quindi slasher. Set innevati e claustrofobici, una vecchia miniera e baracche abbandonate. Il meccanismo è semplice e gli interpreti di basso livello; nonostante ciò Hell’s Fever è divertente e accattivante, una sorta di trash Troma all’italiana.

E’ un primo tentativo, in vista del lavoro successivo, Sinner, del 2010, con Robert Englund e ambientazioni a Spoleto. Sinner è un film più ispirato, serio e ricco di atmosfera (la trama prevede una leggenda imperniata su una Madonna calva, qualcosa che ti fa riaffacciare nella mente film lontanissimi come Un angelo per Satana, con quel manichino impagliato di Anthony Steffen), con interpreti all’altezza del dettato e un regista al massimo della forma. Perrella opera una sorta di sintesi del thrilling provinciale alla Avati mescolato con le derive splatter più estreme e un sapore gotico inscritto nell’ambientazione castellana, nelle segrete popolate da manichini di cera, fantasmi della carne eternamente immolati su degli strumenti di tortura medievale. Il risultato è tra i migliori del decennio: morboso, sensuale e violento!

Anche Imago Mortis (2008) di Stefano Bessoni, regista di solida cultura e svariati interessi, ha molto a che fare col gotico degli anni Zero, un genere spesso alla ricerca di contatti, legami coi suoi predecessori, tuttavia capace di cercare nuove strade, nuove contaminazioni.

Imago è un gotico ricco di spunti, girato con gusto e atmosfera e interpretato con intensità. L’originalità della trama (una nuova scienza, la Thanatografia) e la cura scenografica aumentano l’impressione di trovarci di fronte a una pellicola importante, di caratura, forse non capita e troppo presto dimenticata. Una pellicola che ci fa sperare che sia ancora possibile raccontare qualcosa senza copiare qualche modello pre-esistente e provare ad aprire nuove strade.

Del 2008 è anche il lavoro siciliano di Gianni Virgadaula, Lemuri – Il bacio di Lilith, originale omaggio al cinema muto di Theda Bara e al criptico universo di Jean Rollin. Virgadaula gira 80 minuti di un film muto e in bianco e nero, con tanto di cartelloni per i dialoghi, roba che a dirlo non lo si crederebbe. Il lavoro, impreziosito da una splendida fotografia, ha il merito di riportare l’immaginazione in una dimensione analogica, lontana dagli effetti computerizzati o dalle trame infarcite di tanti inutili filmoni americani. Un gotico coi fiocchi, con tanto di maledizioni, resurrezioni, servitori spettrali e una Sicilia misteriosa e ancestrale di sottofondo.

Un film recente, del 2013, è l’Hyde’s secret nightmare di Domiziano Cristopharo, con Roberta Gemma, Claudio Zanelli e Venantino Venantini. La trama riprende lo spunto del film di Roy Ward Baker Barbara, il mostro di Londra, col dottor Jekyll che si tramutava in una donna. Tuttavia Cristopharo sembra guardare maggiormente a The adult version of Jekyll & Hyde di Lee Raymond o ai porno horror di Joe D’Amato a cui il film è dedicato. Zanelli è uno scienziato impotente che, come in ogni porno fumetto che si rispetti, è alla ricerca di una cura ai propri mali fisici (e morali). In un laboratorio d’una povertà alla Jess Franco, l’uomo si fa portare cadaveri di donne e uomini per trafficare coi suoi sieri. Lo aiutano un servo storpio innamorato di lui e un becchino portantino di autoambulanze che è pure necrofilo e si chiama come l’arabo pazzo che ha scritto il Necronomicon. Alla fine Henry proverà il siero su se stesso, tramutandosi nella bellissima pornostar Roberta Gemma. Il film porta con sé tutte le ossessioni di questo regista originale, capace di mescolare il porno cinema necrofilo di Massaccesi a quello lirico e surreale di Fellini. A scene gore e hard seguono sequenze in cui gli attori guardano direttamente in macchina e si lasciano andare a confessioni extra-diegetiche, accompagnati da musiche alla Nino Rota. E’ il baraccone di carne di Cristopharo. L’opera, pur nei suoi limiti di budget, svela un coraggio ambizioso nella messa in scena, scrollandosi di dosso l’intimismo esistenziale di tutto il cinema italiano di oggi. Domiziano abbraccia i generi e li adatta ai suoi gusti da body performer affascinato dalle dark room oscure delle periferie romane. Le inquadrature si riempiono come tavole di un fumetto della Ediperiodici, mettendo il glande in primo piano e volti di donne putrefatti in secondo piano. L’isteria qui centra poco. Forse solo nei corpi adagiati e spenti dei cadaveri manipolati dal pene del laido Abdul il necrofilo, degno omaggio al Nekromantic di Jorg Buttgereit. Una di esse, durante una penetrazione sulla lettiga dell’autoambulanza, rinviene, similmente a quanto fa il cadavere manipolato dalle scienze azteche del dottor Kinski nel film di D’Amato. Tempo dopo, all’ospedale, la donna rediviva presenterà i segni di quell’irrigidimento coatto del corpo mesmerico patologicamente leso, ridotto a mero carattere significante, metafora sintomatica di un involucro in presa diretta sull’immaginario.

E potremmo continuare su questa china citando anche le vampire mesmerizzate del finale de Il plenilunio delle vergini, pseudo erotico squallido e satanico, o la pazza segregata nel finale del rozzo (e sozzo) La sanguisuga conduce la danza, cripto-gotico-trash di metà anni ’70, infettato dai medesimi cascami dell’inconscio rimosso, funzione biologica anatomica dell’occhio psicogeno della visione.

Recentemente ho visto l’horror di Lorenzo Lepori, Catacomba, scritto anche dal buon Antonio Tentori. Il film dovrebbe ispirarsi ai fumetti horror porno degli anni ’70, tuttavia questo collegamento esiste solo nel cervello degli autori. Le storie di Lepori & Tentori sono assai moderne, death metal nel gusto, lontanissime dai cascami decadenti, ammuffiti, visti e rivisti di quei fumetti (semmai si avvicinano a quelle già più moderne dei vari Terror blu). L’idea è quella di costruire un film a episodi, incastonati in una brutta cornice, con un nerd che deve recarsi da un barbiere satanico (l’idea è quella più che altro di omaggiare uno dei luoghi simbolo in cui si consumavano quei fumetti: i locali da barbiere – un altro sarebbero le stazioni ferroviarie, io ad esempio li consumavo lì). La partenza è pessima e mi verrebbe voglia di spegnere, cercare l’indirizzo di Tentori e andare a cercarlo col bastone (visto che sul groppone ha già quella vaccata senza fine del Dracula 3D di Argento). Poi parte il primo episodio (era il primo?) con Tentori stesso che passeggia in un boschetto (l’estetica del film è lontanissima da quelle copertine colorate, pittoriche dei pornofumetti, è un’estetica video, semi-amatoriale, tirata col culo…) e dice quattro minchiate. Poi arrivano due fighe, sfuggite da un porno di Susy Medusa Gottardi (altra nuda e pura del porno satanismo contemporaneo), scendono dalla moto e iniziano a castagnare il buon Tentori, lo legano a un albero stregato, gli incidono un pentacolo nel petto, gli tirano fuori il cazzo e glielo succhiano, trascinandoci in un gorgo death metal con fotografia rossa sparata e delirio di sangue senza limiti. La tizia figa strappa a morsi l’uccello di Tentori e si fa innaffiare il viso dal sangue copioso. Arriverà pure Belzebù a farsi leccare l’ano dalle tipe. Finisce l’episodio e dell’intro col nerd non mi importa più un fico secco! Cosa sto guardando? Non importa. Catacomba ha già il merito di essere altrove, più avanti (o molto più indietro) rispetto al cinema di oggi. Un film all’apparenza nuovo, digitale, abitato da pulsioni demenziali e splatter, da un gusto per l’horror (più che per il gotico, sebbene le messe nere abbondino nella trama dei vari episodi) dozzinale, volutamente scabroso, pervertito, di genere. Lepori & Tentori stravincono, collezionando uno dopo l’altro episodi sconcertanti e semplicissimi. Alien Lover potrebbe essere uno degli stupri italiani di Andy Casanova, abitato com’è da facce patibolari, perennemente allo scazzo tra un bar e l’altro, incapaci di parlare un italiano corretto e pronti ad abusare rozzamente di donne bellissime e nudissime. L’episodio ha pure il merito di avere non pochi richiami col mostro di Firenze, visto che c’è pure un maniaco che ammazza le coppiette. Bello anche l’omaggio a un certo tipo di gotico trash alla Luigi Cozzi. Uno degli episodi è incentrato su Paganini e riadatta una storia identica presa da uno degli horror Amicus degli anni ’70. L’ultimo episodio, La maschera della morte rossa, è un’apoteosi di necrofilia, porno, messe nere e chi più ne ha più ne metta. Se volete fingervi persone intelligenti, acculturate, questo film non fa per voi. Se invece passate il vostro tempo ad ascoltare i Sunn O))) in cuffia, a masturbarvi sulle foto delle vittime del mostro di Firenze e carezzate l’idea di diseppellire qualche cadavere per organizzare un festino con la vostra ragazza, se insomma siete delle persone disturbate e pericolose, allora questo cinema è con voi.

Antonio Tentori è con voi.

Lorenzo Lepori è con voi.

Catacomba è con voi!

Davide Rosso