IMAGO MORTIS, “ULTIMA SPIAGGIA” NELLE INDAGINI SUI DELITTI?

Se la neonata  rivista “KILLER. Gli Apostoli del Male” (a fine novembre è uscito il N° 1 in tutte le edicole. Seguiranno altre tre uscite bimestrali e molti altri killer!fosse la sceneggiatura di un horror movie non sapremmo proprio quale titolo dare al film stesso… “Il seme della follia”? Forse già esiste… “Un Natale rosso sangue”? Esiste, esiste e, poi, assomiglierebbe vagamente alla crasi di due titoli di libri da chi scrive pubblicati tempo fa. No, non va… “Cannibal Holocaust”? Ma sì, esiste sul serio! E un film del 1980… un po’ troppo cruento, tanto cruento che il regista, dai critici francesi, fu poi chiamato “Monsieur Cannibal”! E, allora, come intitolarlo? Un po’ indecisi avevamo pensato a “I Dèmoni dell’Abisso” poiché l’abisso in cui sprofonda l’animo umano – forse troppo spesso! – si traveste con i demoniaci abiti della follia e si nasconde tra le nebbie generate da sinapsi malate e destinate a perpetrare il Male fine a sé stesso… Poi, proprio riflettendo su quest’ultimo pensiero, abbiamo deciso per un titolo che al lettore desse immediatamente conto di quali siano gli argomenti trattati, ovvero…

KILLER

Gli Apostoli del Male

… e non ce ne siamo pentiti! Il “Male” anima esseri che non sono in condizione di capire quale “dèmone” si agiti nelle profondità delle loro menti e, anche quando essi lo hanno capito, quasi sempre non sanno e non vogliono fermarlo. Così il vero Serial Killer, ad un certo punto della sua esistenza inizia ad uccidere, spesso senza un ben preciso scopo e continua ad uccidere per anni, a volte senza lasciare precisi indizi, quasi provocando le cosiddette forze dell’ordine. Come, ad esempio, fecero “Jack lo Squartatore” o l’imprendibile “Zodiac”… In queste quattro monografie – il N° è 1 in edicola da fine novembre 2015 – non vi “annoieremo” con dotte e, in altro contesto, indispensabili analisi di carattere sociologico sull’origine del “Male” ma troverete molte pagine dedicate a turpi individui vissuti sempre in impenetrabili tenebre dello spirito, quali il misconosciuto Antonio Boggia, il ben più noto Henry-Désiré Landru, le folli Bestie di Satana, molti Serial Killer o Killer “non seriali”, definiti “strani” soltanto perché abbiamo il culto degli eufemismi  e – perché no? – anche qualche strana Serial Killer… “in gonnella” vissute sia nell’antica Roma che nel XVII secolo. Tutti individui, dunque, che non esitarono un attimo a trarre profitto, materiale o meno,  da innumerevoli, tragiche, morti altrui. Ma, statene certi, mentre leggerete questa rivista, non vi lasceremo soli – magari con l’impulso di vedere cosa sta accadendo nel vostro salotto, da dove provengono strani rumori… – poiché sarete sempre  in compagnia di qualche altro “sulfureo” personaggio che non vorreste per vicino di casa o come estemporaneo compagno di viaggio, una sera, in un poco affollato scompartimento di un treno diretto verso una lontana mèta… Ci fermiamo qui, poiché non vorremmo togliervi il piacere di scoprire da soli, pagina dopo pagina, i vari “killer” – in tutte le loro sfaccettature – che hanno costellato l’universo dell’umana follia, spinti dall’insano desiderio di superare le barriere imposteci dal buon senso e dalla morale, affascinati dall’altrettanto umano desiderio di andare “oltre”. Quasi come sulfurei “Apostoli del Male”… Ciò che ora descriveremo appartiene ancora al regno della fantascienza, ma più o meno trent’anni fa al medesimo regno appartenevano gli onnipresenti “cellulari”, i Tablet,la TV digitale satellitare, la TAC, la Risonanza Magnetica e così via. Oggi non facciamo più caso a quanto sia facile con una sorta di “saponetta” di plastica – pagata a caro prezzo! –  senza nessuna antenna esterna, riuscire in un attimo a parlare con  i nostri amici che stanno dall’altra parte dell’Oceano  ma il buon Guglielmo Marconi dovette sperimentare a lungo  per  fare arrivare un miserrimo segnale telegrafico, una “S” in codice Morse dall’Europa a Poldhu, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Era lo storico 12 dicembre 1901, poco più di un secolo fa, in fin dei conti! “E allora?” Obietterà il solito, incallito disfattista il quale non ha ben chiaro il concetto in base a cui la Conoscenza va avanti per gradi, per piccoli o grandi salti, ma va sempre avanti. Allora, mai dire mai! Attendiamo con calma che si amplino sempre più le conoscenze sulla fisiologia e sulla possibilità di fare interagire l’Elettronica con la materia vivente. Oppure con la “materia” che vivente lo era fino a poco prima… Fino ad allora Killer, Serial Killer, Spree Killer possono stare (purtroppo) tranquilli.

La “Tanathographia”, immaginaria (ma non troppo…) 

Arriviamo adesso anche alla (per ora, “quasi”) fantascientifica “Tanathographia”, ovvero all’ipotesi in base a cui l’immagine impressa sulla rètina a seguito di una morte violenta possa lì rimanere a lungo, quasi come se la rètina stessa svolgesse il compito dell’emulsione fotosensibile di una qualsiasi lastra o pellicola fotografica. Se così si potesse realmente ottenere – magari in un non lontanissimo futuro, perché no? – molti delitti compiuti da Serial Killer rimasti non identificati potrebbero essere indagati in una nuova luce. Cosa non darebbero i geniali detective delle fiction televisive “CSI e dintorni” – per non parlare, molto più realisticamente, dei nostri RIS! – se possedessero veramente il “Thanatoscopio” descritto nell’orrorifico film di  Stefano Bessoni intitolato  “Imago mortis”! Nella finzione cinematografica si descrivono i macabri esperimenti di un inesistente scienziato italiano, Gerolamo Fumagalli, ossessionato dall’idea di catturare l’ultima immagine fissata sulla retina prima della morte di un individuo. Poiché il metodo sperimentale è sempre il migliore… egli vi riesce uccidendo una persona e estraendo i suoi bulbi oculari, seriamente convinto di riuscire a “fermare il tempo” e così riprodurre su un supporto fisico quell’ultimo istante di vita. Se il Fumagalli non è mai esistito, probabilmente il regista di questo nostrano film gotico si è ispirato a quel geniale “tuttologo” del XVII secolo che risponde al nome di Athanasius Kirker, autore tra l’altro del mirabile testo Ars Magna Lucis et Umbrae, opera in cui esamina i fenomeni legati alle radiazioni luminose e alla possibilità di costruire una rudimentale lanterna magica, con la quale, grazie a una fiammella posta dietro ad un vetro, si può proiettare un’immagine su una parete,  anticipando così la fotografia e il cinema.

“Ars Magna Lucis et Umbrae” del gesuita Athanasius Kircher,

opera del 1673 in cui il dotto cultore di quasi ogni scienza

descrive i fenomeni luminosi e le leggi che li governano

 

Athanasius Kircher (1602 – 1680)

probabile inventore della camera oscura

Kircher inventa anche la camera oscura, in cui due parallelepipedi inseriti l’uno dentro l’altro riproducono, al buio, il paesaggio circostante mediante delle lenti, forse ispirandosi agli studi di Galileo Galilei, diventando così anche  un aperto sostenitore delle teorie ottiche dell’ “eretico” scienziato.

Sul poliedrico Kircher si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma – non avendone la possibilità in questa sede – esamineremo subito qualche esperimento, effettuato in passato, simile, troppo simile, a quelli immaginati dal regista Bessoni.

Locandina del film “Imago Mortis”, opera del regista Stefano Bessoni

realizzata nel 2008 e dedicata

al controverso fenomeno della persistenza

dell’ultima immagine impressa sulla retina prima di…

passare a miglior vita

Londra, 1863. Tale Warner, esperto di fotografia “non ortodossa” tenta di sostituire una lastra fotografica di vetro su cui era depositato un sottile strato “fotosensibile” di  collodio umido, con… l’occhio di un povero bovino passato da pochissime ore nel “paradiso dei bovini”! Procedendo nel macabro esperimento crede infatti di identificare nella retina le linee del pavimento del suo laboratorio.

Realtà o illusione, analoghe ricerche  proseguono anche in ambito medico e, nel 1890, serissime pubblicazioni scientifiche riferiscono degli incoraggianti risultati condotti dal fisiologo Franz Boll, dell’Università di Roma e anche quelli del Khune, dell’Università di Heidelberg. Il Boll (1849 – 1879) si laurea in medicina nel 1869 e diviene subito assistente all’Istituto di Fisiologia ad Heidelberg ma viene successivamente nominato professore presso la Cattedra di Anatomia e Fisiologia comparata presso l’Università romana. Qui approfondisce i suoi studi sull’importanza della porpora retinica e sul meccanismo fisico-chimico della sua decomposizione nel processo di percezione delle immagini. Nel 1876 pubblica “Zur Anatomie und Physiologie der Retina e Zur Physiologie der Sehensund derFarbenempfindungen” in cui espone  i suoi esperimenti sul pigmento  esterno dei bastoncelli, caratterizzato da una costruzione a “placchette” e costantemente presente negli apparati visivi periferici sia dei vertebrati, sia degli invertebrati. Poco dopo, nei Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, annuncia la scoperta, nata dai suoi studi sull’occhio della rana, che “qualcosa” presente sulla porpora retinica, osservabile per brevissimo tempo dopo la morte dell’animale, successivamente scompare per azione della luce, ma  si rigenera al buio, raggiungendo in circa dodici ore un massimo non aumentabile neppure da una più prolungata permanenza nell’oscurità. Successivi esperimenti gli consentono di ipotizzare la possibilità che tale sostanza, sotto l’effetto delle radiazioni luminose, subisca effettivamente un processo di decomposizione chimica, in un certo senso, paragonabile a ciò che avviene sulle lastre fotografiche, le cui immagini sarebbero “recuperabili” successivamente alla morte della cavia. Purtroppo Boll muore giovanissimo – a soli trent’anni! – nel 1879. Anche il Kuhne (1837 – 1900) giunge a risultati simili, denomina “Optografia” la tecnica usata e “optogrammi” le nebulose immagini ottenute analizzando gli occhi delle sue sventurate cavie. “Corre voce”, inoltre, che a metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento qualche “scienziato pazzo made in USA” abbia immortalato la figura di un uomo nella pupilla di una vittima di un omicidio. E “corre voce” che anche la serissima Scotland Yard si sia occupata di tali strane tecniche investigative nelle indagini sul mai del tutto bene identificato “Jack lo Squartatore”…

Imago mortis?

Vediamo ora quanto possa esserci di vero, di scientifico in questi esperimenti. La retina è ricoperta da una sostanza chiamata porpora retinica o rodopsina, sostanza che si decompone sotto l’azione della luce, similmente all’emulsione fotosensibile delle prime lastre fotografiche o, se vogliamo, anche delle normali pellicole usate ancora nelle fotocamere “analogiche”.

Struttura della rodopsina che si trova

soprattutto nei cosiddetti “bastoncelli”,

cellule fotosensibili che permettono la visione

anche in condizioni di scarsa luminosità ambientale

ma non la percezione dei diversi colori, 

riservata ai “coni” 

 La rodopsina, a cui dobbiamo anche la percezione del mondo che ci circonda, si rigenera in continuazione durante il sonno, ad occhi chiusi. Quando un essere vivente – la vittima di un delitto – muore, rimane la porpora retinica decompostasi durante gli ultimi istanti di vita che, però, non viene più rimpiazzata da nuova, poiché è cessata ogni attività metabolica. Quindi – per ora solo in teoria! – pochissimo tempo dopo il decesso, sulla retina si potrebbe “recuperare” l’ultima immagine percepita dalla vittima di un crimine cruento. Però, considerando che la luce agente sulla retina continuerebbe a decomporre la rodopsina, dopo poche ore dal decesso non si avrebbe alcuna traccia delle ultime immagini percepite dall’occhio. Tutto ciò, ripeto, solo su un piano teorico. In passato, nel 1869,la Società Francese di Medicina Forense incarica il dottor Maxime Vernois di condurre esperimenti che possano essere di aiuto nelle indagini ove la vittima potesse avere guardato in viso il suo aggressore, ma il Vernois giunge – purtroppo! – a conclusioni sconfortanti. Comunque, il dottor Vernois pubblica lo stesso la sua relazione dal titolo “Applicazioni della fotografia alla relazione forense su una comunicazione dal Dott Bourion fatto al Forensic Society”. E lì terminano gli studi sulla “Imago mortis”… Però non è detta l’ultima parola, come spesso avviene in ogni settore della ricerca scientifica… Forse, come prima dicevamo, non tutto si sa su questo curioso fenomeno, poiché presso la Columbia University, il ricercatore Ko Nishino e il collega Shree Nayar, utilizzando una telecamera digitale, sono riusciti a “prelevare” le immagini rimaste su una sorta di pellicola lacrimale che protegge la cornea e, tramite un sofisticato software, hanno recuperato la scena percepita dall’occhio del volontario sottopostosi all’esperimento. Naturalmente…vivo!

La follia corre… nell’occhio!

I negativi risultati delle ricerche sulla possibilità che la fisiologia dell’occhio, l’azione della luce sulla porpora retinica, gli esperimenti alla “Dottor Frankenstein” potessero segnare una decisiva svolta nelle indagini di polizia, non scoraggia affatto gli scrittori e, nel  1897 viene pubblicato il racconto “L’accusatore: l’occhio del morto”, opera di Jules Claretie, mentre cinque anni più tardi il ben più noto Jules Verne non si fa sfuggire l’occasione per pubblicare “I fratelli Kip”, dove essi stessi vengono assolti da un’accusa di omicidio proprio grazie al recupero dell’immagine immortalatasi – ci si perdoni l’ossimoro! – sulla retina della vittima. In anni molto più a noi vicini – nel 1971 – Dario Argento dirige “Quattro mosche di velluto grigio”, dove le “quattro mosche” sono proprio le quattro immagini lasciate sulla retina dalle oscillazioni di un medaglione di ambra – indossato dall’assassina – in cui un insetto, una mosca, era rimasto imprigionato nella resina fossile.

Fotogramma del film di Dario Argento

“Quattro mosche di velluto grigio”

basato sul discusso fenomeno

della lunghissima persistenza delle immagini sulla retina.

Nella finzione cinematografica questa immagine

sarebbe rimasta impressa nella “porpora retinica” della vittima.

Forse, in un lontano futuro, sarà possibile

trasformare la finzione in realtà

e identificare l’autore di efferati delitti… 

Nel 1927 qualcuno uccide – sparandogli al volto, negli occhi! – un poliziotto, tale Guteridge. Qualche mese più tardi vengono arrestati due individui, Frederick Browne e William Kennedy i quali, incredibilmente, confessano non solo l’omicidio, ma anche di aver sparato negli occhi della vittima perché temevano che nella sua retina potesse rimanere l’immagine del loro volto! Infine, poco più di vent’anni fa, una giovane senegalese uccide la madre a colpi di martellate e, non contenta… le cava gli occhi temendo che sulla retina potesse rimanere la sua immagine!  

 

Un significativo fotogramma del film “Imago Mortis”

in cui una “vittima sacrificale” viene sottoposta all’esperimento

volto a dimostrare la tesi

dell’inesistente scienziato Girolamo Fumagalli.

Forse Fumagalli non è mai esistito

ma non è detto che l’ipotesi sia del tutto campata in aria… 

Ma se il killer ha fotografato la vittima…

Forse in qualche caso le tecnologie elettroniche più sofisticate applicate alla tecnica fotografica potrebbero mettere in difficoltà qualche killer che abbia avuto la pessima idea di fotografare – per qualsiasi motivo – la sua futura vittima e ciò non solo pochi secondi prima di aggredirla come nel caso dell’avveniristica Tanatographia… Qualche studioso, negli ultimi tempi, si è chiesto infatti se sia possibile riconoscere un volto e tutto ciò che gli sta accanto attraverso la sua immagine riflessa nella cornea dell’occhio del soggetto fotografato.

Con la tecnica messa a punto dai ricercatori Jenkins e Kerr,

con una fotocamera da 39 megapixel e software dedicato

è possibile ricavare l’immagine di chi ha effettuato la foto

poiché essa viene riflessa dalla cornea

In pratica, Rob Jenkins della York University e Christie Kerr dell’Università di Glasgow hanno cercato di abbinare la fotografia ad alta risoluzione a software dedicato ed hanno ottenuto interessanti risultati poi pubblicati su PloS One, Public Library of Science, seria rivista scientifica on line, in un articolo intitolato “Identifiable Images of Bystanders Extracted from Corneal Reflections”. Essi sono partiti dall’ovvia osservazione che l’occhio funziona anche come un piccolissimo specchio e hanno applicato alla loro fotocamera ad alta risoluzione dei filtri in grado di aumentare il contrasto dell’immagine ripresa giungendo alla conclusione che nel 70% dei casi è stato possibile riconoscere l’identità di volti da loro fotografati. Ai partecipanti all’esperimento sono state mostrate alcune “foto segnaletiche” realizzate ad arte e successivamente fotografie dei riflessi oculari di alcune persone facenti parte del repertorio delle foto in possesso alla polizia. Ma sono andati oltre ogni più rosea aspettativa, raggiungendo l’84%, quando anziché le foto di brutti ma anonimi ceffi è stato mostrato il riflesso di Barak Obama, presidente USA, poiché ben maggiori erano gli elementi di riconoscimento rispetto a volti anonimi.

      

A sinistra, una delle immagini riflesse nella cornea

e a destra il volto del personaggio sulla destra

ricavato con la tecnica ideata da Jenkins e Kerr.

C’è ancora molto da lavorare

ma l’idea appare molto promettente… 

La cosa interessante è il fatto che con tale tecnica è possibile riconoscere anche particolari del luogo in cui è stato fotografato il volto del soggetto. Cosa questa di notevole importanza poiché potrebbe dare un notevole contributo a capire in quali circostanze, in quale ambiente è stato perpetrato un delitto. Con le tecniche attuali qualcosa di interessante emerge anche da immagini fotografiche di dimensioni minime se realizzate con un’elevata risoluzione.

Gli occhi, lo specchio… del “killer” fotografo!

Permetteteci di parafrasare appena il noto detto che identifica negli occhi il riflesso interiore di colui al quale quegli occhi appartengono. Immaginiamo ad esempio un caso di rapimento in cui i sequestratori fotografino la vittima per inviare l’immagine ai parenti al fine di richiedere un congruo riscatto.

Molto probabilmente in veri casi di sequestro e violenze

perpetrate ai danni della povera vittima

come quello, fittizio,  qui mostrato si potrebbe identificare il rapitore

e, forse, anche il luogo di detenzione.

Il 16 marzo del 1978 – “caso Moro” –

la tecnica descritta era inimmaginabile…

Oppure consideriamo il tristissimo caso di un pedofilo che ami fotografare la sua piccola vittima prima di seviziarla e ucciderla. In queste circostanze, avendo a disposizione una fotografia del volto della “vittima”, applicando la metodologia ideata presso l’Università di Glasgow si potrebbero ricavare molte informazioni utili al fine di identificare l’autore del “delitto” – nella più ampia accezione del termine – e anche dettagli del luogo ove la foto è stata realizzata.

Non è infrequente il caso di pedofili

che ritraggano le loro piccole vittime prima di ucciderle.

In tal caso – se la fotografia è di buona qualità –

si potrebbe risalire al sequestratore…

 

 

In questo caso non sarebbe necessario ricorrere

alla tecnica oggetto di questo paragrafo

poiché è notissimo l’autore di una serie

di immagini di questo genere:

si tratta infatti di Charles Lutwidge Dodgson (1832 – 1898),

ovvero Lewis Carrol, matematico,

celeberrimo autore di “Alice nel Paese delle Meraviglie”

e appassionato di fotografia…

Nella foto a sinistra (del 1858) vediamo Alice Pleasance Liddell (1852 – 1934), una delle “modelle” preferite da Carrol, alla quale dedicò proprio “Alice nel Paese delle Meraviglie  e “Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò”. La fanciulla raffigurata nella foto a destra (del 1878) è invece Alexandra Kitchin (1864 – 1925), nota anche come Xie, una delle moltissime amiche-bambine e modella preferita da Lewis Carrol il quale la fotografò decine di volte, da quando ella aveva quattro anni fino ai sedici anni. A scanso di equivoci, sarà bene precisare che Charles Lutwidge Dodgson, ovvero Lewis Carrol, effettuò moltissime fotografie come quelle sopra riportate – che potrebbero far ipotizzare chissà quali reconditi e disdicevoli fini – soltanto perché esse rispondevano appieno ad una filosofia del tutto personale in cui egli quasi divinizzava il concetto di “bellezza”, caratterizzata da uno stato di grazia, di perfezione morale ma anche estetica, come quella rappresentata proprio dalle giovanissime fanciulle che amava immortalare. Insomma,  in tutti quei casi in cui sia disponibile una fotografia del volto della vittima di un rapimento, di un  delitto, di una qualsiasi azione criminale – mettendo a punto la tecnica di Jenkins e Kerr – in un futuro non lontano, sarà verosimilmente possibile avere una sorta di “identikit” del criminale di turno. Salvo questi non si mascheri prima di effettuare la fotografia!    

Anche gli Autori di queste monografie hanno voluto sperimentare

– con mezzi men che modesti! – la possibilità di individuare

l’immagine di chi ha scattato la fotografia

riflessa nella cornea dell’occhio del soggetto

ripreso con la fotocamera…

Roberto Volterri