IL CINEMA DI GENERE DI UMBERTO LENZI 04 – PARTE 02

Il cinema cannibalico di Umberto Lenzi – Parte 02

Prima ancora di questa pellicola c’era stata l’esperienza dei tanto esecrati mondo movies, lavori a metà tra la finzione filmica e il documentario. Sono opere datate anni Sessanta – Settanta che filmano con occhio gelido la violenza sui corpi e rendono la devastazione della carne e della mente umana con crudo realismo. Si tratta di finti reportages, spesso bollati come snuff e quindi accusati di filmare la morte dal vero per il realismo delle scene.

La critica importante ha sempre relegato i mondo movies nella sfera del trash (cinema spazzatura). Ma si sa che la critica che conta non apprezza il cinema di genere e caso mai si riserva di rivalutarlo alla morte del regista o dell’attore di turno (i casi di Mario Bava e Totò insegnano). I mondo movies esercitarono (ed esercitano ancora) un enorme fascino sul pubblico ed è riduttiva una bocciatura di stampo perbenistico. Tra l’altro ci sono stati film insospettabili che si sono presi l’accusa di snuff. Citiamo ad esempio Soldato blu (1970) di Ralph Nelson. Nelle sequenze finali i soldati americani attaccano un villaggio cheyenne e vengono filmati particolari così crudi e realistici davvero da snuff film. Assistiamo a scene con donne seviziate e mutilate, bambini decapitati e mattanze di giovani guerrieri. Si tratta di uno spietato ritratto della realtà, una ricostruzione precisa e documentata di un eccidio indiano tristemente accaduto. Snuff (1974) di Michael Roberta Findlay (coproduzione Usa-Argentina) invece ci racconta le gesta della famiglia Manson e nel finale una ragazza è condotta con l’inganno su di un set cinematografico. Qui viene torturata, mutilata e infine squartata. La scena venne spacciata per vera e in realtà non è stato mai chiarito se si trattava soltanto di pubblicità. Nell’incertezza la diffusione di Snuff venne bloccata e il film è diventato un cult rarissimo ricercato dagli appassionati del genere. A parte la digressione sugli snuff (sull’argomento si può leggere per maggiori dettagli un bel pezzo di Marco Castellini su Horror Cult vediamo alcuni mondo movies importanti come anticipazione del cinema cannibalico.

Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti è un documentario a tinte forti dove il regista propone immagini di vario tipo: una strana riunione di sosia di Rodolfo Valentino, gli effetti orripilanti delle radiazioni nucleari su uomini e animali, la cucina orientale che serve in tavola piatti a base di cani e serpenti. Sono solo alcuni esempi. La pellicola ebbe un notevole successo, tanto che nel 1963 uscì Mondo cane 2 realizzato dalla produzione con gli scarti del primo film. Jacopetti non ha mai riconosciuto la paternità della pellicola che pure gli viene attribuita. Il regista invece si ripete con Africa addio (1966), un documentario che contiene mattanze di animali a non finire. Vediamo elefanti trucidati per privarli delle zanne d’avorio, gambizzazioni di bestiame come ritorsione verso gli allevatori, rapimenti di piccoli animali per venderli agli zoo, eccidi di tranquilli ippopotami per portare la carne al mercato. Non solo: ci sono anche scene realistiche di fucilazioni di prigionieri e particolari efferati della guerra civile in Kenia. La telecamera si sofferma spietata sui corpi mutilati e scaraventati ai bordi delle strade. Jacopetti dipinge un quadro disarmante di un’Africa che passa dal colonialismo all’anarchia selvaggia. Si può accusare di qualunquismo e di sensazionalismo e poi pare che parecchie scene siano false. Però è un film sconvolgente che nel suo genere resta un capolavoro.

Nel 1975 esce Ultime grida dalla savana di Antonio Climati e Mario Morra con il commento esterno scritto da Alberto Moravia. Me lo ricordo come fosse adesso, quel film. L’ho visto che avevo solo quindici anni e due scene terribili le tengo ancora ben impresse nella memoria. La prima è quella della caccia agli indiani da parte dei bianchi con le conseguenti violenze dopo la cattura (castrazioni, decapitazioni e scotennamenti si sprecano). La seconda è la tragica fine di Pit Doenitz, un turista che durante la gita al parco naturale di Wallase ha la brillante idea di uscire per la savana e fotografare i leoni. L’uomo viene sbranato e la telecamera filma i particolari dell’esecuzione e dell’orribile pasto. Pare certo che la scena degli indios venne realizzata grazie a sofisticati effetti speciali. Non siamo altrettanto sicuri per quel che concerne la morte dell’uomo sbranato dai leoni. Il regista la presentò come una ripresa eseguita da uno dei turisti a bordo della jeep. “Ho solo aggiunto qualche effetto splatter”, disse Climati. In questi casi è difficile distinguere la pubblicità per creare interesse intorno alla pellicola dalla realtà. Il film documentario è un catalogo di scene più o meno raccapriccianti che tendono a creare un effetto disturbante nello spettatore.

Contemporanei ai cannibal movies troviamo anche il filone di pellicole sugli zombies. Si tratta di un sotto genere horror che non ha dato prodotti italiani di alto livello. I film sugli zombies sono un po’ tutti uguali, prevedibili, noiosi e l’unica cosa che tiene desta l’attenzione è l’effetto splatter che alla lunga stanca. Salverei soltanto Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci e poche altre cose che fanno più o meno il verso ai capolavori di Romero del 1968 e del 1978 (La notte dei morti viventi e Zombi). Ai nostri fini è interessante citare Zombi Holocaust (1980) di Marino Girolami, che risente molto dei lavori di Deodato (soprattutto di Cannibal Holocaust) e che inserisce nella stessa pellicola zombies e cannibali.

Siamo arrivati al 1976 che vede l’uscita di Ultimo mondo cannibale, ben definito da Antonio Tentori come filiazione diretta dei mondo movies da cui riprende la descrizione dell’orrore in diretta, ma anche pellicola capace di fissare definitivamente le coordinate del filone cannibalico. Ecco perché mi sorprende sfogliare le pagine scritte da Mereghetti e da Cammarota e non trovare traccia di questo film che un critico preparato e senza pregiudizi come Tentori giudica di grande importanza per il futuro sviluppo del filone cannibalico.

È indubbio che Ultimo mondo cannibale si ispira ai mondo movies, però qui c’è una storia ben costruita a metà tra l’avventuroso e l’orrorifico, di certo debitrice nelle atmosfere da Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi, ma che contiene molti elementi innovativi. Primo tra tutti il cannibalismo esibito senza veli e falsi pudori e alcune scene forti che anticipano quella discesa negli inferi che sarà Cannibal Holocaust. In questa pellicola i vecchi mondo movies sono recepiti ed estremizzati con l’esibizione

Dopo aver visto Ultimo mondo cannibale ci rendiamo conto che è riduttivo ascrivere questo film al filone avventuroso. Possiamo avere dei dubbi su Il paese del sesso selvaggio, composto di scene meno forti e costruito con elementi tipici del cinema di avventura. Ultimo mondo cannibale è horror puro, cinema del terrore perché restiamo nell’ambito del possibile, ma pur sempre cinema che analizza la paura e gli istinti più bestiali dell’uomo. Il paese del sesso selvaggio è il precursore del sottogenere cannibalico, un film che indica la strada da battere, ma che ancora non si è liberato degli schemi avventurosi.

Il filone cannibale prosegue con alcune pellicole girate da Aristide Massaccesi (in arte Joe D’Amato), un grande contaminatore dei generi. Le prime sono inserite nella serie porno soft di Emanuelle nera, ma contengono elementi splatter e situazioni tipiche del cinema cannibalico. Emanuelle in America (1976) è un’indagine di Emanuelle sulle perversioni sessuali, che la porta a scoprire snuff film con scene di tortura e violenze su donne perpetrati da uomini in divisa. Qui c’è una contaminazione più con il filone nazi-film (vedi i nazi-porno della serie Ilsa, la belva delle SS di Don Edmonds) che con il cannibalico, ma citiamo la pellicola per completezza e perché contiene scene davvero efferate: seni tagliati, uncini nel ventre, stupri con falli di legno e chi più ne ha più ne metta. Il vero cannibal movie della serie Emanuelle è però Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977), un film erotico arricchito da sequenze splatter e cannibalesche (come saranno anche Porno Holocaust e Antropophagus nel 1980). Questa è una delle tante pellicole girate da D’Amato sulla scia del successo del film francese Emmanuelle (l’originale va scritto con due emme!) diretto da Just Jaeckin nel 1973 e interpretato dall’affascinante Sylvia Kristel. Il film era diretta filiazione dei romanzi sconvolgenti di Emmanuelle Arsan e fu l’iniziatore di una serie di pellicole francesi con protagonista una ricca e annoiata signora sposata con un uomo d’affari, che passa le sue giornate esperimentando le gioie del sesso. La serie italiana è apocrifa e per evitare l’accusa di plagio ribattezza la protagonista Emanuelle (con una emme sola) e la identifica con una bella giornalista di colore che gira il mondo a caccia di scoop e di avventure erotiche. L’attrice simbolo di questa serie è Laura Gemser, una stupenda indonesiana dal corpo perfetto, generosamente esibito pellicola dopo pellicola.

In Emanuelle e gli ultimi cannibali Laura Gemser si finge internata in una clinica per malattie mentali dove sta cercando materiale per un articolo scandalistico. A un certo punto assiste all’aggressione di un’infermiera da parte di una ragazza antropofaga e decide di vederci chiaro. Conosce l’antropologo Mark Lester (Gabriele Tinti, suo marito nella vita privata) che a casa sua le mostra un filmato sugli orrori praticati dalle tribù africane (forse un mondo movie) che comprende scene di cruente evirazioni e riti tribali. C’è una sequenza in cui i parenti del marito mangiano gli occhi della donna e i parenti della moglie si cibano del membro del maschio come punizione per un caso di adulterio. I due partono alla ricerca degli ultimi cannibali, dopo che Emanuelle ha salutato alla sua maniera il fidanzato ormai più che cornificato (per fortuna che non siamo nella giungla). In Amazzonia l’antropologo fa un po’ di lezioni sul cannibalismo sociale e i motivi che spingono gli uomini a  cibarsi dei propri simili, parla del cuore che contiene le virtù e delle interiora che sono il cibo preferito dai cannibali. Poi i due incontrano una strana coppia che si scopriranno cacciatori di diamanti più che di animali feroci e un’improbabile suora. C’è una bella scena con l’uccisione di un pitone che stava soffocando Emanuelle ed è notevole pure la colonna sonora di Nico Fidenco, costruita con tamburi in sottofondo e una voce calda e sensuale di donna. Lungo il cammino trovano molti cadaveri putrefatti e mangiati da animali, una delle donne finisce nella sabbie mobili ma viene salvata, infine cominciano ad attaccare i cannibali. Da notare che le sequenze che anticipano l’arrivo dei mangiatori di uomini sono caratterizzate da una colonna sonora che si fa più intensa con dei colpi di gong e da una fotografia sporca. Le numerose scene di sesso stemperano la tensione narrativa e ricordano che il film è soprattutto erotico. Laura Gemser e Monika Zanchi hanno il loro da fare per mostrarsi vestite in più di due scene di seguito. A un certo punto poi si aggiunge anche Nieves Navarro che si concede una scappatella sotto gli occhi del marito con un robusto portatore negro. Certo, tra una scopata e l’altra, ci sono anche avventure esotiche, azione, splatter, voyeurismo…  soprattutto c’è la stupenda Laura Gemser che da sola vale il prezzo della VHS (reperibile nella collezione Avo Film). Ma gli ultimi venticinque minuti sono puro cannibal movie con un pasto a base di capezzoli, uno squartamento spettacolare frutto di un singolare tiro alla fune, coltellate al pube, banchetti con interiora e parti di vagina. Finale che ritorna alla commistione erotico-cannibalico con Monika Zanchi prima prigioniera in una gabbia di legno e poi posseduta da tutta la tribù in attesa del sacrificio finale. Emanuelle risolve la situazione uscendo dalle acque con il dio Tupinaba dipinto sul ventre e si porta via l’amica tra lo stupore degli indigeni, che si accorgono di essere stati beffati solo quando vedono le due donne nuotare. Si poteva evitare la ridicola scena finale dell’assalto alla barca da parte dei cannibali e soprattutto il sermoncino retorico della bella Gemser contro lo schiavismo e le meschinità del mondo. “Non è colpa nostra, è il prezzo della civiltà”, filosofeggia Gabriele Tinti mentre scorrono i titoli di coda e partono le note della suggestiva Make on the wing di Nico Fidenco (cantata da Ulla Linder). Questo film è girato interamente in Italia in quattro settimane, per la precisione a Mezzano Romano e non certo in Brasile come dice l’ingannevole scritta finale (dove sarà mai Tapurucuarà?).

Un anno prima di Cannibal Holocaust esce La montagna del dio cannibale (1978) di Sergio Martino. Il film, scritto con Cesare Frugoni, si avvale di un cast composto dalla bella Ursula Andress (resa famosa dai film di 007), Stacy Keach e Claudio Cassinelli. Gli effetti speciali sono del solito Paolo Ricci. Un buon film di avventura che mescola l’orrore a piccole dosi in un crescendo da incubo. Nel corso della pellicola vediamo: uccisioni sanguinarie, pasti cannibali, evirazioni e sul finire persino il corpo della statuaria Andress cosparso di liquami cadaverici. Nella pellicola confluisce tutta l’esperienza documentaristica dei mondo movies mescolata al sensazionalismo di Ultimo Mondo cannibale e alla pura avventura de Il paese del sesso selvaggio. Vediamo la trama. C’è una spedizione in Nuova Guinea sulle tracce di un etnologo scomparso (tanto per cambiare…) in un luogo tabù chiamato “la montagna del dio cannibale”. Ne fanno parte la moglie dell’etnologo e il fratello in compagnia di un’esperta guida e di alcuni portatori indigeni. Quando raggiungono l’isola misteriosa non c’è traccia dell’etnologo e l’accampamento è deserto. Vengono scoperti cadaveri e resti umani, poi gli indigeni cominciano ad attaccare e a uccidere. I nostri raggiungono una missione e vengono accolti ma le uccisioni continuano e sconvolgono il villaggio. Il capo della missione, convinto che gli uomini della spedizione siano causa dell’eccidio, intima loro di andarsene. Durante la scalata verso la montagna del dio cannibale si aggiunge al gruppo anche il medico Manolo, esperto della zona. Nel corso del viaggio il fratello fa morire deliberatamente la guida che chiedeva aiuto e Manolo comprende che c’è sotto qualcosa di strano. Una volta raggiunta la grotta tutto è chiaro: la moglie dell’etnologo e suo fratello in realtà cercano solo un enorme giacimento di uranio per rivenderlo a potenze straniere. I cannibali, dipinti per tutta la pellicola come uomini fangosi, attaccano ancora e il fratello viene ucciso. Manolo e la moglie vengono catturati. La scena più raccapricciante è quando i cannibali servono come pasto alla donna le carni del fratello. Degna di nota pure la parte in cui lei scopre che il marito è morto e il suo corpo putrefatto viene adorato dai cannibali come se fosse una divinità, per via di un contatore geiger attaccato al corpo ancora funzionante. Gli indios scoprono una foto che ritrae la donna con il marito e ritengono anche lei una dea. Per questo la costringono a cospargersi con i liquami del cadavere del marito in un rito che per i selvaggi ha un significato liberatorio. Alla fine di tutto Manolo riesce a liberarsi e a far fuggire la donna che comprende la stupidità di quel che ha fatto e si riscatta nel finale.

Sono pochi i personaggi positivi del film, forse solo il medico Manolo, difensore di un mondo naturale che non vuole essere contaminato dalla civiltà. Tutti gli altri hanno un passato da far dimenticare (la guida ha mangiato carne umana e ha rapito un ragazzino della tribù cannibale), oppure scopi inconfessabili che niente hanno a  che vedere con quel che dicono (la moglie fedele è in realtà un’avida cercatrice di uranio e suo fratello non esita a uccidere per denaro). La stessa natura è scrutata soltanto dal suo lato malvagio. Si riprende un pitone che divora una scimmia, un ragno gigante che aggredisce la donna, i pipistrelli che escono dagli alberi, un coccodrillo che fa fuori un’iguana. Poi ci sono gli infidi rumori notturni della giungla, i trabocchetti mortali, le scene rituali degli indigeni che squartano un’iguana e ne mangiano le interiora dopo essersi cosparsi di sangue il corpo. La filosofia spicciola di Manolo giustifica le uccisioni degli animali con la necessità: “Anche l’uomo uccide, ma lo fa ricorrendo alla menzogna e all’inganno”, dice. Saranno temi che torneranno in tutto il cinema cannibalico, sempre proteso alla ricerca di quel che di negativo si può esibire.

I cannibali di casa nostra sono meno britannici di Anthony Hopkins, non hanno la flemma di chi cucina caviale e carne umana, magari accompagnando il tutto con stufato di fave e vino Chianti d’annata. I nostri cannibali sono quasi sempre dei selvaggi mangiatori di uomini, tribù antropofaghe dell’Amazzonia che si sbarazzano di chi va a turbare la loro tranquillità. I film del nostro filone cannibalico sono girati tra Brasile, Perù e Colombia e vogliono portare sullo schermo riti tribali di mangiatori di carne umana.

Più raramente il cannibale italiano è metropolitano e ha problemi psichici. Accade con Joe D’Amato in Buio Omega del 1980 (un uomo reso folle dalla morte della sua ragazza la imbalsama e poi le addenta il cuore per tenerla sempre con sé) o in Apocalypse Domani (1980) di Antonio Margheriti, dove i reduci dalla guerra del Vietnam contraggono un virus che li obbligano a cibarsi di carne umana. Una via di mezzo tra il selvaggio tribale e il folle la troviamo in Antropophagus e in Porno Holocaust (1980) di Joe D’Amato. Nel cinema cannibalico italiano è importante un’ambientazione tropicale ricca di immagini raccapriccianti con dei selvaggi antropofagi che le fanno vedere di tutti i colori a una spedizione di scienziati, antropologi o giornalisti. Sono film che stanno a metà strada tra l’horror e l’avventuroso.

In ogni caso dobbiamo dire che il cinema dell’orrore si limita a portare sul grande schermo i tabù diffusi e a esorcizzare un problema presente nel quotidiano. I cannibali sono sempre esistiti e continueranno a esistere. Con buon pace dei benpensanti. Il cinema cannibalico italiano fornisce un’immagine raccapricciante del mondo odierno, dipinto a forti tinte, spesso anche sadiche e scellerate. C’è una vera e propria apologia del selvaggio, senza però raggiungere mai i limiti estremi che ogni giorno la realtà ci presenta.

Ruggero Deodato è il regista più importante del sottogenere cannibalico soprattutto per merito di Cannibal Holocaust (1979), la sua opera più discussa e celebrata. Cannibal Holocaust è il cannibal movie per eccellenza e incarna tutta la filosofia di un genere costruito attorno al tema degli atti cannibali da parte di indigeni. L’ambientazione di queste pellicole è sempre nelle foreste inesplorate, dove una spedizione occidentale incappa in brutte avventure di stampo antropofago. Deodato porta nella pellicola l’esperienza di Ultimo mondo cannibale ed estremizza le atmosfere create da Sergio Martino ne La montagna del dio cannibale e da Lenzi ne Il paese del sesso selvaggio. Mereghetti assegna due stelle al film ed è un successo che il cinema di genere non ripete molte volte nelle pagine della monumentale opera del critico milanese. Riportiamo per intero il suo commento. Un’operazione gelida e sgradevole, ma a suo modo abile: l’espediente del film nel film non solo avvolge di un alone inquietante da finto snuff la violenza mostrata ma costituisce una precisa riflessione sulla prassi dei mondo movies, una pietra tombale e una satira del genere. Conclude Mereghetti che il film è un documento indiretto sul malessere dell’epoca e una tappa fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla rappresentazione della violenza.

Cannibal Holocaust è girato in modo realistico e soprattutto la parte del finto documentario gioca con l’espediente tecnico della pellicola graffiata per dare la sensazione del vero filmato non professionale. Poi, come fa giustamente notare Antonio Tentori, c’è anche un differente uso della fotografia e dello stile che contrappone la parte dedicata ai filmati della troupe al resto della pellicola. Tutto questo contribuisce a creare un notevole impatto emotivo nello spettatore,  ma al tempo insinuò in molti il sospetto dello snuff e portò Deodato a fare i conti con la giustizia. Il film venne sequestrato e condannato e sollevò un coro unanime di esecrazione. Durante il processo venne chiarito che le sequenze incriminate erano pura finzione e che non erano stati girati veri riti cannibali. Il regista e gli attori rischiarono ugualmente la galera quando venne fuori che le uccisioni degli animali erano vere. Deodato si difese abilmente asserendo che le mutilazioni agli animali erano state riprese con spirito documentaristico. Il film di Deodato non si limita a un esercizio sterile di tecnica di ripresa e alla esibizione della capacità di girare una storia spacciandola per vera. È molto di più. Cannibal Holocaust è un film disperato e lirico, indimenticabile nella sua incredibile rappresentazione della violenza. Un’opera di culto nell’exploitation italiana che non può lasciare indifferenti. I fotogrammi finali restano a lungo scolpiti nella mente dello spettatore e raggiungono lo scopo di sconvolgere e disturbare. Il finale recita una morale che può sembrare banale ma che non lo è se la storicizziamo. Cannibal Holocaust, come dice lo stesso Deodato, è un film di denuncia e vuole mettere alla berlina gli scoop sensazionalistici, i mondo movies, i documentari che dovevano sconvolgere per forza. Deodato sconvolge ancora di più con una crudele e spietata rappresentazione della violenza. “Mi domando chi siano i veri cannibali” dice nell’ultima scena del film il dottor Monroe.

(4/2 – continua)

Gordiano Lupi