IL CINEMA DI GENERE DI UMBERTO LENZI 04 – PARTE 01

Il cinema cannibalico di Umberto Lenzi – Parte 01

Il paese del sesso selvaggio (1972) di Umberto Lenzi è in assoluto il primo film ascrivibile al sottogenere cannibalico e può essere considerato come una via di mezzo tra l’horror e l’avventuroso. Lenzi farà nuove incursioni nel cannibal movie con Mangiati vivi! (1980) e Cannibal ferox (1981). Lo stesso film, dopo il successo di pubblico riportato da Cannibal Holocaust di Deodato, venne editato di nuovo con l’ammiccante titolo Cannibal. Come ha detto lo stesso Umberto Lenzi a Luca Lombardini della rivista on line “Poisitifcinema.com”, il copione de Il paese del sesso selvaggio gli venne proposto niente meno che da Emanuelle Arsan, inventrice dell’omonimo personaggio letterario e filmico, e lui accettò di dirigerlo. “Fu un successo epocale, per la prima volta si vedeva una tribù di cannibali in azione” commenta il regista maremmano. L’idea originale del film è di Emanuelle Arsan, mentre Francesco Barilli e Massimo D’Avack si limitano a sceneggiarlo. Marco Giusti su “Stracult” afferma che la scrittrice era stata sposata con un diplomatico di stanza in Thailandia e quindi aveva una certa dimestichezza su riti e tradizioni di popolazioni tribali. Il critico romano non sa che Emanuelle Arsan era soltanto lo pseudonimo della scrittrice tailandese Marayat Virajjakam che non aveva certo bisogno di un diplomatico francese per conoscere le usanze della sua terra. Marco Giusti (e molti altri critici) sostengono che i riti documentati dalla pellicola sarebbero inventati da Barilli, D’Avack e dalla prolifica autrice erotica. Ho parlato con Umberto Lenzi che mi ha dato la sua spiegazione autentica: “I riti sono tutti veri, derivati da esperienze condotte da Emanuele Arsan e suo marito Luis Jacques Arsan (autori non accreditati del soggetto) presso tribù selvagge al confine tra Birmania e Thailandia”. Lo stesso Lenzi sostiene che la Arsan consegnò nelle sue mani soltanto un canovaccio, una traccia da seguire molto scarna e che la gran parte del lavoro è stata opera sua e degli sceneggiatori.

Il cast tecnico de Il paese del sesso selvaggio vede all’opera per la fotografia il diligente Riccardo Pallottini e per il montaggio l’esperto Eugenio Alabiso. Le musiche, suggestive e di atmosfera, sono di Daniele Patucchi. Produce Roas Medusa. Interpreti principali: Ivan Rassimov, Me Me Lai, Prapas Chindang, Chit Choi, Pipop Pupinyo e Prasitsak Singhara. Molti attori sono thailandesi e quindi per noi sconosciuti, a parte Me Me Lai che ebbe un momento di grande popolarità grazie a diversi film cannibalici e avventurosi.

La storia si rifà a Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliot Silverstein con le dovute variazioni di epoca e di ambientazione. Si comincia in perfetto stile mondo movie con un’avvertenza sulla crudeltà di certe situazioni e sui riti dei popoli della giungla tailandese. Il clima da mondo movie si continua a respirare con un’ottima fotografia di Bangkok tra case di legno e piroghe, strade affollate e corsi d’acqua in mezzo alla città.  Il regista si sofferma sulla violenta boxe locale, una sorta di wrestling ante litteram, dove quasi tutto è consentito, persino calci e colpi bassi. Ivan Rassimov è Bradley, un fotoreporter inglese che uccide per legittima difesa un uomo che lo aggredisce con un coltello alla fine dell’incontro di pugilato. Bradley, dopo aver commesso l’omicidio, è ricercato dalla polizia locale e quindi pensa bene di far perdere le sue tracce rifugiandosi nella  foresta tailandese. Lenzi ne approfitta, con l’aiuto del bravo fotografo Pallottini, per mostrarci interessanti squarci di vita locale: treni affollati e malandati, elefanti che passano vicino alla ferrovia, autobus scoppiettanti e pieni di gente che grida e si agita. Il regista gira una bella scena di inseguimento stile poliziottesco, solo che i protagonisti sono un camion di passeggeri e un bicitaxi guidato da un ragazzino. L’autobus esce di strada dopo una serie di movimenti rapidi condotti dal ragazzo che fa perdere il controllo del mezzo all’autista. La fotografia di questa parte è stupenda, con ottime sequenze al tramonto sul fiume, una location esotica ben rappresentata tra scimmie che saltano da un albero all’altro, uccelli marini, frutta tropicale e dialoghi tra Rassimov e un indigeno. È da questo momento che il clima da mondo movie si modifica in puro cinema d’avventura, perché arrivano i selvaggi che sgozzano l’indigeno e catturano Bradley mentre nuota con la muta subacquea. Il fotoreporter viene portato al villaggio, percosso con bastoni e tenuto per giorni esposto dentro la rete, dalla quale assiste al crudele rito con cui gli indigeni tagliano la lingua ai nemici. Tutti credono che Bradley sia una sorta di uomo – pesce, perché lo hanno preso quando indossava la tuta, e quindi continuano a gettarlo in acqua per farlo mangiare e lo trattano come una bestia. Nel film avventuroso non può mancare una storia d’amore ben congegnata ed è per questo che presto entra in gioco la bella Me Me Lai. L’attrice tailandese è Maraya, la figlia del saggio capo dai capelli bianchi che con l’aiuto della sua governante fa capire al padre che Bradley è un essere umano. Per questo il fotoreporter viene tolto dalla scomoda prigione aerea e messo a lavorare come uno schiavo. L’uomo continua a vivere dentro una gabbia puzzolente, non sa comunicare con i suoi carcerieri, mangia putride schifezze e solo l’aiuto di Maraya e della governante lo fa sopravvivere. La ragazza si innamora dell’uomo bianco ed è bella la sequenza in cui lei assaggia una sua lacrima e fugge via nella notte. Da citare altre ottime sequenze in pieno stile mondo movie con i guerrieri che intingono le frecce nel veleno di un cobra, dopo aver svuotato il sacco del terribile liquido. Gli indigeni afferrano il serpente per la bocca e gli fanno mordere una corteccia per far uscire il veleno. L’amore tra Bradley e Maraya cresce, ma la figlia del capo è promessa a un guerriero del villaggio che prende in odio il bianco di cui teme la concorrenza. Le parti sui riti degli indigeni si fondono bene alla storia principale e a questo punto si innesta il rito funebre di un uomo morto prima di sposarsi. Viene acceso un falò in riva al fiume tra foglie di palma e un baldacchino di legno, nel corso d’acqua si notano diversi crani umani infilati nel fondo con un palo e si comprende che quello è il loro cimitero. Il rito più incredibile è quello della vedova, con i fratelli del morto che devono avere un rapporto sessuale con la donna per rompere il rapporto di parentela. Rassimov tenta la fuga, ma viene acciuffato dai selvaggi e deve affrontare in combattimento il  promesso sposo di Maraya. Al termine di una bella scena di lotta, uccide il guerriero e sviene per le conseguenze di una freccia avvelenata. Bradley diventa a pieno titolo un guerriero del villaggio perché ha provato di avere fegato e di saper combattere, per questo deve sottostare ad altri rituali che Lenzi descrive con grande perizia. Il corpo dell’uomo bianco viene dipinto con strani disegni, lui viene legato a un palo e di notte altri guerrieri lo bersagliano con piccole frecce. Bradley durante il giorno viene sposto al sole cocente e deve superare prove ai limiti dell’umana sopportabilità per essere ammesso tra i guerrieri. Al solito le scene di vita quotidiana si mescolano con sapienza tecnica alla sviluppo della storia ed è così che vediamo uno dei divertimenti del villaggio. La lotta tra un cobra e una mangusta scatena il tifo degli uomini che assistono all’incontro cruento e incitano le due bestie  fino alla morte del serpente che viene addentato più volte dal roditore. Tra le usanze sportive del villaggio vediamo anche un combattimento di galli che è meno sanguinoso ma abbastanza selvaggio. Un’altra sequenza che disturba e che sta a metà tra vecchi mondo movies e nuovi film cannibalici è lo scoperchiamento della testa di una scimmietta con un colpo di machete. Un altro rito che fatichiamo a riconoscere come autentico (ma secondo Lenzi sono tutti veri) è quello per la scelta di un nuovo sposo di Maraya. La donna viene fatta sedere all’interno della capanna nuziale e gli scapoli del villaggio le palpano il corpo da una feritoia esterna. La donna sceglie il compagno dal modo in cui la tocca e gli consegna una ghirlanda di fiori come simbolo di unione. Rassimov è l’unico che usa delicatezza e che invece di palparle il seno e le gambe le stringe la mano in segno di affetto. L’amore tra i due giunge a coronamento e il matrimonio, celebrato dal capo del villaggio, apre una parte degna del miglior cinema esotico – erotico. Vediamo un romantico rapporto sessuale sul prato in mezzo a fiori e farfalle, un bagno nel fiume molto sensuale e infine il rito con il sangue di serpente per la fertilità. Bradley insegna la sua lingua a Maraya, la chiama “piccola selvaggia”, ma alla fine il civilizzato londinese si innamora davvero della bella indigena. Per stemperare un clima troppo sdolcinato Lenzi pensa bene di inserire una sequenza piuttosto dura con gli indigeni armati di coltelli che squartano un povero coccodrillo e subito dopo gli tagliano la testa. Maraya è incinta e Bradley capisce che la sua nuova vita è ormai in quel villaggio sperduto nel cuore della foresta tailandese. “Un piccolo selvaggio ribelle” sta nascendo dal ventre della sua donna e lui rompe un vaso in segno di buon augurio e si concede un nuovo rapporto sessuale in mezzo alla farina. La terza parte del film inserisce l’elemento cannibalico, mostrando un gruppo di selvaggi brutti e sporchi mentre stuprano al fiume una donna del villaggio e subito dopo se la mangiano. Bradley e alcuni guerrieri uccidono i cannibali dopo un feroce combattimento che termina con il rito del taglio della lingua di un nemico, questa volta praticato dall’uomo bianco. La parte cannibalica è tutta qui, ma è molto cruda e disturbante, soprattutto credibile e ben realizzata tecnicamente. La contaminazione dei generi non si ferma, perché abbiamo la parte finale della pellicola che ricorda molto il lacrima movie. Maraya si ammala in modo grave e Bradley sa che solo portandola a Bangkok potrebbe salvarla, ma il villaggio si ribella e non glielo permette. La fuga di Rassimov e Me Me Lai viene fermata lungo il fiume e costa la vita alla governante che li aveva aiutati. C’è appena il tempo per un nuovo assalto al villaggio da parte dei cannibali che mette ancora una volta in mostra un buon cinema d’avventura che Lenzi sa fare bene. La malattia progredisce e la ragazza sa che dovrà morire, ma chiede solo che nasca il loro bambino ed è molto toccante la parte in cui lei partorisce e subito dopo muore. Il padre di Maraya realizza tra lei e Bradley un legame di sangue che va oltre la vita, quindi viene sgozzato un capretto in segno di buon augurio. “Devi aver cura di nostro figlio. Lo spirito della morte mi sta portando via…” dice Maraya mentre vede farfalle nere volare in cielo. Molto bello. Bradley alza al cielo il suo bambino, promette aiuto per il suo popolo, piange la donna amata, sfoga la sua rabbia e infine si mette a ricostruire il villaggio distrutto dai cannibali. Lui è ormai uno di loro e un elicottero che sorvola il cielo non scuote neppure la sua attenzione perché orami la  sua vita è tra quella gente.

Il tema della pellicola è di sicuro più avventuroso che cannibalico: ci sono le prove rituali, c’è la love story tra il bianco e l’indigena, il finale con l’uomo che decide di restare con il suo nuovo popolo… però non mancano scene efferate e cruente. Gli interpreti de Il paese del sesso selvaggio, Ivan Rassimov e Me Me Lai, torneranno spesso come figure simbolo del cinema cannibalico. Molto importante è anche la contaminazione dei generi che Lenzi realizza e che è una cifra stilistica dei nostri migliori artigiani. Si parte con sequenze tipiche dell’esotico-erotico con un occidentale come Ivan Rassimov che sbarca a Bangkok, tra scene di colore locale e momenti di vita tailandese. L’avventura comincia con le peripezie del personaggio principale in mezzo alla giungla, che si ciba di serpenti fatti a pezzi, uccide per legittima difesa e fugge dai selvaggi che lo perseguitano. In questa situazione tipica del cinema d’avventura vengono inserite scene a base di animali uccisi (davvero o per finta) come coccodrilli, capre, serpenti e scimmie fatti a pezzi. Va segnalata anche la lotta (reale) tra una mangusta e un cobra che finisce in modo macabro. Quando il protagonista viene catturato dai selvaggi subisce ogni genere di violenza ed è questa la parte film che ricorda di più Un uomo chiamato cavallo. L’esotico-erotico torna a far capolino quando sboccia l’amore tra Me Me Lai e Rassimov, che giunge a coronamento con l’ingresso nella tribù dell’uomo bianco. Il cannibalico è in primo piano durante un eccessivo finale che ci mostra una tribù di orribili cannibali che prima stuprano una donna, la massacrano e infine la divorano. Aggiungiamo che c’è pure un pizzico di lacrima movie nel toccante finale tra Me Me Lai e Rassimov.  Per quanto riguarda le scene relative a uccisioni di animali Lenzi mi ha confidato: “Sono quasi tutte docu-fiction, ossia ricostruzioni incruente, salvo la lotta tra il cobra e la mangusta e poche altre. Anche la spremitura del veleno mortale dalle ghiandole di un cobra è stata girata dal vero, con un certo pericolo, dovendo il cameraman stare vicinissimo al serpente”.

Il cinema cannibalico italiano comincia proprio da questa pellicola ed è bene ricordare che molte di queste scene verranno riutilizzate da Lenzi per il successivo (e inferiore) Mangiati vivi!

(4/1 – continua)

Gordiano Lupi