EVOLUZIONE DEL THRILLER NEI ROMANZI KKK – 02

Il volto e la maschera

Silvano Alessandrini scrive nel 1969 un thriller gotico ambientato a cavallo tra Saint Cloud (che ricordiamo per l’editto del 1804 e per l’occasione da cui prese forma il carme “Dei Sepolcri” di Foscolo) e la Parigi dei salotti borghesi e nobiliari. Siamo nel Seicento, ma il tempo è un oblungo e indefinito non-tempo trascorso. Il protagonista della vicenda è un avvocato trentacinquenne, Philippe Villiers, che sperpera il denaro tra il tappeto verde e le donne, trascurando la carriera e svegliandosi alle dodici tutti i giorni. Dissoluto e istrionico, conduce una vita senza prospettive, tra notti brave, piccoli debiti contratti con ogni persona che incontra e insuccessi in tribunale. Viene incaricato da una vecchia ereditiera di assistere legalmente la frigida figlioccia nella separazione dal marito impotente. Ma la figlioccia ha un piano tutto suo per mandare all’aria il matrimonio: farsi cogliere in fragranza di reato dal marito, mentre si trova a letto proprio con l’avvenente avvocato. Tutto questo mentre a Saint Cloud un maniaco sessuale penetra nel cimitero, profana le tombe di alcune donne e abusa dei cadaveri.

Bastano questi elementi per mettere a fuoco quanto quel mondo editoriale e culturale si sia inesorabilmente decomposto alle nostre spalle. Il finire degli anni Sessanta e tutto il decennio successivo traboccano di figure di sperperatori seriali di soldi, tempo, talento. Una verve anti-produttiva domina le figure di quegli anni, così in netto contrasto con le sagome produttive, funzionalistiche della nostra triste epoca. Una tinta decadente faceva splendere del suo languore quei personaggi, quelle atmosfere, quelle storie. La decadenza fisica non veniva interpretata come un insuccesso, ma era al contrario una posa da suggerire, da imitare, da contemplare. Il senso ostinato della perfezione non aveva ancora invaso i nostri animi consumistici, l’insuccesso lavorativo, personale e perfino sessuale erano considerati facenti parte della natura delle cose e non venivano relegati in una dimensione intima, ma messi in scena, riletti, assorbiti.

In quale lercia cantina sono state riposte quelle splendide, nella loro rovina, figure di ciarlieri falliti, di dandy seppelliti dall’ignominia, di impotenti, di vecchie sepolte sotto il cerone, di antiche dive cadute nella polvere? Dov’è stato sepolto il fascino del vecchio, di ciò che è vissuto, dell’antico, l’attrazione nei confronti dell’insolito che non sia macchietta, ma espressione di una diversità che induca curiosità nell’altro?

La rappresentazione ostinata di personaggi emarginati, fuori da logiche di progresso e di produzione, è stata una prerogativa di certo cinema. Penso al cinema nostrano degli anni d’oro, ma penso soprattutto al cinema spagnolo, che ha saputo dare spazio e volto a figure emarginate ed escluse. Il thriller Gli occhi azzurri della bambola rotta ritrae tre sorelle con problemi psichici e fisici, emarginate e rifugiate in un maniero, che accolgono un protagonista reietto (Paul Naschy) che non ha più lavoro e che anche nelle fattezze fisiche è tutto fuorché l’incarnazione dello stereotipo della perfezione maschile. Un assassino che si aggira per cimiteri abbandonati e pedina coppiette nella notte si scaglia su ragazze dagli occhi azzurri e, dopo averle uccise, strappa loro i bulbi oculari. Il movente dell’omicidio sarà nuovamente una aberrante lacuna, uno strappo, nella vita dell’assassino necrofilo, che nasconde un tetro segreto…

Altra pellicola thriller iberica che si occupa della menomazione psico-fisica e ritrae un freak escluso dal mondo è la perversa El asesino de muňecas. La pellicola trasuda omosessualità e una passione feticistica per la diversità e per la paranoia. I tentativi infruttuosi messi in atto dal protagonista per cercare di essere “normale” lo portano a uccidere quelle ragazze che sono colpevoli, a suo modo di vedere le cose, di godere dei piaceri sensuali della vita. Un immorale apologo sull’invidia umana e sull’aberrante tentativo di essere accettato.

Le nervature necrofile hanno attraversato tutto il cinema gotico e thrilling degli anni Sessanta e Settanta in Italia, ma anche in Spagna, Paese che più di tutti ha saputo rappresentare questa spinta fortemente distruttiva e tremendamente crepuscolare. L’aberrante fascinazione della morte, nei suoi aspetti più fattivi e carnali, è l’ennesima reincarnazione di uno spirito tremendamente decadente e crepuscolare, che permea di sé la cultura di quegli anni, come un’ossessione, come un monito. È come se la società che negli anni del boom economico era uscita dalla povertà reclamasse un suo istintuale e connaturato bisogno di urlare la propria esigenza di regressione. La modernità e il benessere sono portatori di turbe psichiche, di depressione, nevrosi e addirittura psicosi. I richiami a un mondo di esclusi, di cadaveri, di perversi e di morti messi in scena da quel cinema e da quei romanzi da edicola sono la sconcertante denuncia di un’esigenza regressiva, di ritorno a origini povere e scabrose, di inabissamento in un tempo di oblio.

Senza arrivare agli eccessi di certo cinema gotico spagnolo, facilmente rintracciabile, la pellicola thriller Macchie solari è un esempio di quanto certe fascinazioni per i corpi decomposti agitino lo spettro necrofilo nella nostra produzione filmica.

Altra pellicola thrilling che rappresenta le tendenze necrofile è Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile. Roberto Bianchi Montero rappresenta la figura di un emarginato, Gastone, infermiere dell’ospedale ossessionato dai corpi delle donne uccise da un maniaco che ha preso di mira le signore dell’alta società che intrattengono relazioni extraconiugali.

I KKK e i Racconti di Dracula sono l’equivalente su carta del cinema italiano di genere gotico e thrilling. Chiedersi se venga prima la produzione su carta o quella in celluloide è operazione fine a se stessa. L’humus culturale e sociale di quegli anni d’oro, i Sessanta e i Settanta, covava dentro di sé le risorse per il parto di questi lavori di genere, che erano diretta espressione della nostra società del tempo (un’espressione, vale la pena rimarcarlo, libera dall’assillante monitoraggio di editor, direttori di produzione, ma anche non contaminata dalla logica del politicamente corretto e del moralmente accettabile). Una società che per la prima volta nella sua storia poteva definirsi pienamente di massa, in seguito alla ormai decennale esposizione al medium di massa per eccellenza, vale a dire la televisione. Un contesto culturale prettamente influenzato dalla propaganda e dalle fattezze della cultura americana. Se il gotico come genere ha sempre avuto scarsa presa in terra statunitense, e ha fin dagli albori manifestato un’origine e una connotazione più prettamente inglese, lo stesso non può essere detto del thrilling. Se il thrilling su pellicola fu un fenomeno commerciale e di pubblico italiano, non può essere dimenticato che la figura stessa del maniaco omicida seriale, resa icona e messa al centro della scena così bene soprattutto da Dario Argento, sia una creatura intrinsecamente a stelle e strisce, come la criminologia ha avuto modo di appurare [1].

Non sorprende che il passaggio oltre oceano del nostro modello di fare thrilling sia avvenuto attraverso la fagocitazione da parte del cinema americano delle nostrane tecniche di espressione. La pellicola che segna la nascita dello slasher, Halloween di Carpenter, è fortemente debitrice de L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Nonostante si sia trattato per gli Stati Uniti di un’operazione di importazione, il terreno su cui seminare era giù presente nella cultura americana e va ricercato proprio nella figura stessa del serial killer. Agli statunitensi fu solo necessario forzare alcuni meccanismi testuali (aumento del numero di morti nella storia, adozione di una figura mascherata che fosse al tempo stesso assassino in carne ed ossa e mostro emerso dal buio, volgarizzazione degli elementi che nel thrilling italiano avevano una connotazione crepuscolare).

Colpisce il fatto che di quelle storie di genere su pellicola i romanzi da edicola ripropongano una doppia caratteristica fortemente pregnante. Per il cinema thrilling italiano si può parlare tranquillamente del fantasma della storia. Quelle pellicole che nascono con il Sessantotto e che si protraggono per tutto il decennio dei Settanta, sono una rappresentazione ideale della realtà sociale del tempo. La metropoli, luogo privilegiato di rappresentazione della scena, è un luogo smaterializzato dove prende forma la sagoma di un maniaco nero vestito. Scompaiono la contestazione studentesca, gli scioperi nelle fabbriche, gli scontri in piazza. Il mondo del thrilling è un cosmo che dimentica la cronaca, che altera la realtà dei fatti in cui quelle storie sono narrate, che cancella le idiosincrasie reali, in favore di un mondo ideale, modernista e iper-urbano. Il thrilling è un elogio della borghesia, è un canto sul trionfo della borghesia. Le città sono luoghi metafisici che rappresentano la città-tipo occidentale, dove personaggi dalla dubbia moralità consumano le loro vite spensierate fatte di viaggi, serate in compagnia di ragazze conosciute a un locale, giri in macchina a velocità elevate. Qualcuno potrebbe pensare si sia trattato di un’occasione sprecata, vale a dire la possibilità di rappresentare la storia, altri sono indotti a pensare che quei film fossero il disegno, attraverso una semplificazione, dell’ideale sociale voluto dalla classe dirigente, che, come sappiamo, predilige un contesto scevro di contestazioni e scontri ed è al contrario favorevole ad un appiattimento culturale e morale. Le eccezioni di questo teorema si contano veramente sulle punta delle dita di una mano. Emerge qualcosa della contestazione nelle università nella Perugia di I corpi presentano tracce di violenza carnale. Quasi un sottofondo fastidioso.

Di pari passo, nel gotico su pellicola degli anni Sessanta si può parlare di fantasma del folklore. In questo caso, a detta di chi scrive, la possibilità sprecata risulta ben più notevole. Perché, se si parla di assenza della storia nel caso del thrilling italiano, è necessario sottolineare che l’esistenza di trame complesse, come erano quei grovigli di personaggi e morti, necessitava di una quinta teatrale facilmente fruibile e per forza di cose semplificata. Inoltre, a fornirci testimonianza di quei tempi dal punto di vista della cronaca restano pur sempre i filmati storici, i documentari, i film d’autore. Lo stesso non si può dire del folklore. Il cinema degli anni Sessanta sceglie volontariamente di appiattirsi sullo stereotipo anglosassone del castello stregato, contornato da calessi, maggiordomi, dame imbellettate. Dimenticando che attorno esisteva un’Italia rurale arretrata, che conservava un fascino che sarebbe stato di massimo interesse rappresentare e portarvi lo spettatore alla scoperta. I saggi di etnografia culturale di Ernesto De Martino e di Luigi Lombardi Satriani raccontano di un Paese che nei centri periferici del sud conservava un patrimonio inestimabile di tradizioni locali, fitte di superstizioni, riti apotropaici, culti pagani sopravvissuti all’opera appiattente dell’evangelizzazione cattolica. Dare forma a questo folklore avrebbe elevato quel cinema e salvato quelle tradizioni nella memoria.

Il thriller gotico nei KKK e nei Racconti di Dracula possiede entrambi questi fantasmi, seppure in quegli anni, almeno su pellicola, avessero preso forma alcune piacevoli eccezioni alla regola. Due thriller gotici avevano intrapreso la strada del folklore e, decisi nel dismettere il consueto abito del castello e l’armamentario classico di stampo anglosassone, avevano percorso la strada della tradizione popolare locale.

Il più limpido esempio in questo campo è rappresentato da La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati. Vera e propria favola nera ambientata nel Polesine, con tanto di personaggi di paese e osterie.

Una seconda notevole eccezione è costituita da Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, vera e propria emanazione diretta degli studi di antropologia culturale effettuati sulle popolazioni del sud Italia e in particolare della Lucania.

Anche laddove si sia optato per ambientare le pellicole in piccoli centri, i registi del tempo hanno sempre trascurato di attingere a quel repertorio di superstizioni, di inquietanti malie che adombravano i nostri luoghi. Si pensi a pellicole come L’arma, l’ora, il movente: l’ambientazione piccolo-provinciale, seppure lodevole e caratterizzante, non è accompagnata da un corollario di storie che fossero di quel luogo la diretta espressione. Lo stesso dicasi per La polizia brancola nel buio. Eppure, proprio laddove i budget per la realizzazione dei film erano bassi, la scelta e l’utilizzo di storie di atmosfera avrebbe potuto agevolare la stesura delle sceneggiature, rendendo più pregevoli le pellicole allo spettatore.

Per concludere l’analisi, ritengo necessario affrontare un ultimo aspetto, necessario a mettere in luce la forte connessione tra questo romanzo e il thrilling italiano cinematografico, facendo riferimento agli studi di Antonio Bruschini e Antonio Tentori sul thriller del Belpaese. I due critici evidenziano, dal cinema di Argento in avanti, alcune “regole” non scritte e non dette che ritornano di pellicola in pellicola, anche in quelle di coloro che cercheranno di imitare il successo del regista romano. Le elenco sinteticamente.

Elementi del thriller italiano:

1-      il particolare rivelatore

2-      personaggi ordinari in situazioni straordinarie

3-      l’assassino guantato, inarrestabile, dappertutto, sadico

4-      ambientazione tipicamente italiana (città/provincia)

5-      la famiglia borghese/ il trauma infantile/ madre- padre – figlio

6-      le radici infantili (disegni, pupazzi, musichette)

7-      ritualità dell’omicidio, ovvero una particolare cura nella messa in scena delle varie morti violente

Chiunque abbia visto anche solo un film thriller dei Settanta/Ottanta, ritroverà alcuni degli elementi sopra riportati. Argento crea una vera rivoluzione, abbandonando progressivamente le tematiche gialle (vale a dire la logica e la razionalità), per calcare la mano sugli aspetti più forti, visivi e di tensione. Inoltre la figura dell’assassino mascherato, della mano guantata, del rasoio, diventeranno un leitmotiv per questo tipo di film.

E i KKK?

Il libro di Alessandrini, Il Volto e la maschera, è appena precedente all’irruzione di Argento sugli schermi italici, eppure certe idee sembrano già nell’aria. Infatti il romanzo presenta un assassino mascherato che uccide all’arma bianca ed è spinto ad agire da un trauma che lo porta verso la necrofilia. Certo, l’immaginario di Alessandrini è molto gotico (e l’ambientazione è tutt’altro che metropolitana o contemporanea) e guarda al Freda di L’orribile segreto del dottor Hichcock o al Bava di Sei donne per l’assassino, ma alcune cose colpiscono. Ad esempio le lunghe sequenze descrittive dedicate ai momenti che precedono le incursioni del maniaco, simili a certe attese e sospensioni del thrilling cinematografico. Anche certi ambienti sono tipici, come la clinica per donne isteriche attorno a cui gravita la vicenda. Certo, su tutto, rimane il sapore necrofilo della vicenda, l’apparato funebre su cui Freda aveva costruito i suoi film [2].

Un’ultima riflessione la merita il finale del libro. Senza in alcun modo voler svelare il necrofilo assassino e il turpe movente che lo agita, vorrei qui richiamare alcuni elementi che lo caratterizzano, accomunandolo a una ben specifica pellicola di genere slasher. Vedremo nel corso dei romanzi successivi quanto un elemento, e mi riferisco al maniaco che evade dalla clinica per malati mentali, abbia contaminato e abbia proseguito la sua scia nel cinema di genere, divenendo un vero e proprio topos del genere thriller e slasher (un esempio per tutti: Halloween). Nel finale de Il volto e la maschera assistiamo a una miscela di perversione sessuale, necrofilia, impotenza e omosessualità. Quest’ultimo aspetto, in particolare, ci interessa per la sua declinazione del tutto particolare, tanto da poter parlare, più che di omosessualità in senso ampio, di transessualità, vale a dire di desiderio e spinta da parte di un soggetto di compiere il passaggio da un sesso all’altro. Il riferimento al cinema appare in tutta la sua evidenza, e i più esperti di cinema statunitense di genere avranno già capito a cosa mi riferisco: la pellicola Sleepaway Camp. Il film di Robert Hiltzik è del 1983 e sarà il primo di una breve saga (il fenomeno delle saghe a stelle e strisce è stato un tormentone del cinema anni Ottanta, basti pensare a Venerdì 13 e Halloween). Appartiene al sotto-filone degli slasher ambientati in campeggi sui laghi e porta con sé il bagaglio di liti, scherzi e fascinazioni sensuali in età adolescenziali tipico del sotto-filone. La particolarità di questa pellicola consiste nel presentarci protagonisti in età prepuberale. Un fratello tenta di difendere la sorellina dai soprusi delle compagne di campeggio, mentre un assassino fa scempio di corpi. Una scena all’inizio della pellicola mostra, sotto mentite spoglie, il passato traumatico che si agita sotto la famiglia dei protagonisti.

Il finale risulta forse il più sconcertante e raccapricciante dell’intera produzione slasher statunitense.

La forte connessione tra impotenza e tendenze necrofile è un argomento trattato anche dalla criminologia, nell’ambito degli studi sui serial killer, in particolar modo sui lust murder, vale a dire sui criminali seriali che uccidono a scopo di libidine.

Daniele Vacchino


[1] Richard Tithecott, criminologo, sostiene che il serial killer è una delle più potenti icone della cultura americana, qualcosa che ripugna, ma attrae allo stesso tempo. Le storie e le immagini con le quali vengono descritti gli omicidi seriali, sia reali che di fantasia, sono indicatori importanti della cultura di riferimento, dei valori, dei desideri e delle angosce di essa. La costruzione sociale del serial killer, secondo questo autore, è una figura tipica del mondo americano; Tithecott sostiene che è, in qualche modo, la società, con le sue contraddizioni e la sua competitività a favorire il verificarsi di comportamenti omicidiari seriali. Sintomatico è, senza dubbio, il morboso interesse dei media riguardo al “fenomeno serial killer“, che può spingere soggetti frustrati dalla vita quotidiana ed in cerca di affermazione del proprio Io, a uccidere barbaramente molte vittime per dimostrare qualcosa a se stesso e agli altri e per ricevere l’attenzione dei media, consolidando così la propria autostima.

[2] Davide Rosso, “Teofanie del gotico”, Novilunio Stampe Amatoriali.