UN CANNIBALE DI NOME DEODATO: IL CINEMA THRILLER – HORROR DI UN REGISTA AMERICANO 11 – PARTE 01

Capitolo Undicesimo – Parte 01

Gli slasher movie e la sexesploitation

La casa sperduta nel parco è datato 1980 e viene girato in poco più di tre settimane tra New York e una villa di Roma, in coda a Cannibal Holocaust. I protagonisti sono: David Hess (L’ultima casa a sinistra di Craven) – che diventerà un attore feticcio per Deodato -, Giovanni Lombardo Radice, Annie Belle, Lorraine De Selle, Christian Borromeo, Gabriele Di Giulio e Brigitte Petronio. Scritto dal solito Gianfranco Clerici, che aveva realizzato la sceneggiatura di Cannibal Holocaust, e da Vincenzo Mannino. Le musiche sono di Riz Ortolani, che – su input del regista, proprio come in Cannibal Holocaust – accompagna scene efferate con musiche dolci e il tutto realizza un mix di rara efficacia. La fotografia cupa e notturna è di Sergio D’Offizi.

Il film nasce dalla volontà dei produttori Franco di Nunzio e Franco Palaggi che hanno appena realizzato Cannibal Holocaust. Il film cannibalico appena uscito non ottiene grandi incassi visti i continui sequestri e processi (ma il tempo sarà galantuomo). La trama è semplice ed è quella tipica dei rape e revenge sullo schema di Arancia meccanica e L’ultima casa a sinistra.

Un maniaco stupratore (Hess) e un amico ritardato (Radice) finiscono in una villa di ricchi e seviziano chi li ha invitati per puro divertimento. Alla fine i ruoli si ribaltano e i seviziatori si trasformano in seviziati. Non solo, si scopre che i presunti ostaggi sono i veri bastardi della storia. Uno dei ricchi è il fratello della prima vittima del maniaco e ha organizzato tutto per potersi vendicare. Pure se nel corso della storia espone se stesso e tutti gli altri a gravi rischi, compreso lo stupro della fidanzata e delle amiche. Ma tant’è.

La censura inglese nega il visto al film, uno dei più duri da digerire tra quelli girati da Deodato. Il regista si trova in un particolare stato di grazia e dopo l’inferno nella giungla ci trascina in un non meno terribile inferno domestico.

La casa sperduta nel parco è un film claustrofobico e inquietante, un film dove non si salva nessuno se ci basiamo sulla morale corrente. Non ci sono buoni e cattivi, non ci sono vittime e carnefici, incontriamo a ogni scena soltanto terrore, violenza e disgusto. Piena sexeploitation a base di sesso e violenza, genere esperimentato con successo da Wes Craven ne L’ultima casa a sinistra (la scelta di David Hess come protagonista non è casuale). In Italia il cinema di sexesploitation avrà come epigono l’ottimo Joe D’Amato, autore di alcune pellicole di culto.

Lo stesso Deodato ci ha detto dopo la visione della pellicola: “Non si fanno più film come questo. Adesso mi metterebbero in galera. Certo che anche allora qualche guaio lo passai. In Inghilterra non lo accettarono, in Italia la censura lo tagliuzzò prima di farlo circolare. Però adesso una pellicola così sarebbe impensabile. Troppo politicamente scorretta per trovare un produttore”.

Di sicuro è così. Non è più tempo di cinema estremo, almeno in Italia. Non ci resta che riscoprire qualche cult del passato.

Sempre a proposito de La casa sperduta nel parco il regista dice: “È un film che amo e che sento mio, tutto girato in una villa. Lo facemmo in poche settimane, in coda a Cannibal Holocaust, c’era un budget inadeguato e la sceneggiatura non è che fosse il massimo. Però rivedendolo oggi devo dire che è proprio un bel film. Sono riuscito a trasmettere una giusta dose di tensione e poi ci sono scene di un realismo incredibile…”.

Condividiamo il giudizio del regista. La casa sperduta nel parco, girato con poche lire e in tempi brevi, è un film che lascia il segno, che non si dimentica. I personaggi sono tipici del noir più estremo, molto tarantiniani, hanno spessore e sono ben tratteggiati. David Hess è un bullo di quartiere violento e sadico, un maniaco da manuale. Recita la sua parte di cattivo inquietante, come nella pellicola di Craven e come in Autostop rosso sangue (1976) di Pasquale Festa Campanile, una favola crudele senza eroi e senza morale con protagonisti una stupenda Corinne Clery e un ispirato Franco Nero. Giovanni Lombardo Radice è un ottimo amico ingenuo, quasi un bambinone in balia di un folle che prova per lui un affetto viscerale. Quando non riesce a stuprare Lorraine De Selle finiamo per provare quasi tenerezza e non riusciamo a vederlo nei panni del cattivo neppure quando tenta di compiere gesti efferati. Va da sé che anche questo personaggio trova ispirazione nel film di Craven, perché in quella pellicola accanto all’amico sadico e spietato c’è un ragazzo ingenuo abbastanza anormale che vorrebbe risparmiare le due vittime designate. Bella la scena in cui Hess colpisce a morte l’amico con il rasoio e lo piange, preludio alla sua stessa morte e alla vendetta finale.

La pellicola è stata accusata di misoginia. In effetti la storia dipinge un crescendo di violenza che vede come vittime designate le protagoniste femminili, seviziate, violentate e tagliuzzate a colpi di rasoio. Non solo. A differenza di lavori come Cane di paglia, che rendono con profondità il dramma della violenza carnale sulla donna, qui spesso la ricca borghese sembra consenziente allo stupro. Si veda Annie Belle, a suo agio nelle scene sexy ben girate da Deodato. I ricchi sono descritti in modo così altezzoso da renderli subito poco simpatici, tanto da mettere lo spettatore dalla parte degli stupratori. Le sequenze dello stupro con rasoio di Brigitte Petronio sono memorabili, forse tra le più violente ed esplicite di tutto il cinema pulp italiano. La scena è realistica e cruda, la macchina da presa scava in profondità, mettendo in primo piano i particolari della violenza. Il rasoio fa a fettine i seni della Petronio e lo spettatore prova disgusto, fastidio, ma al tempo stesso – dentro di sé – chiede al regista di andare avanti. “La Petronio era la moglie di Hess, solo per questo accettò di girare una scena simile”, afferma Deodato. Ma dopo interpretò un ruolo simile ne Il pornoshop della settima strada (1979) di Joe D’Amato. Nella pellicola è frequente l’uso della soggettiva, i numerosi colpi di scena danno ritmo a una storia raccontata con una fotografia sporca ma efficace, dai colori freddi e i tagli di luce in penombra.

Per inquadrare bene La casa sperduta nel parco dobbiamo dire qualcosa sugli slasher movie, sulla sexesploitation e soprattutto sul rape e revenge, sottogeneri del cinema horror ai quali si riconduce.

Il termine slasher deriva da to slash (tagliare, squartare) e comprende tutte quelle pellicole politicamente scorrette che fanno della violenza con armi da taglio e simili la loro unica ragione di esistere. Si tratta di un genere molto giovanile, una sottocategoria (quasi inflazionata) dell’horror anni Ottanta – Novanta, che ha tra i primi esponenti proprio Wes Craven con La casa a sinistra nel parco (1972), cui Deodato volutamente si ispira, ma anche i successivi Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974) e Le colline hanno gli occhi (1977) sempre di Craven. Gli slasher movies sono una diretta filiazione del gusto per lo splatter e il gore. Infatti in queste pellicole le sequenze sanguinolente vengono inserite a piene mani. Forniamo una rapida definizione dei due termini che può tornare utile. Lo splatter deriva da to splatter (schizzare) e si differenzia dal gore che sta per sangue coagulato, caratterizzato da un gusto più eccessivo per le immagini di morte. Siamo in presenza di pellicole che amano l’orrore esibito e non soltanto suggerito, film che non si curano di valutazioni morali o educative ma che cercano di colpire e scioccare lo spettatore con immagini truculente. Abbiamo già visto come Deodato abbia un gusto particolare per il sangue, per l’assassinio violento, per l’esposizione in primo piano delle frattaglie. Vedere il proibito, esibire quel che non si può esibire è la parola d’ordine di tutto il cinema slasher e soprattutto della sexesploitation. Pensiamo a Lucio Fulci e Joe D’Amato, per restare in Italia e citare due grandi artigiani del cinema horror. Nel gore ciò che conta è soltanto la sequenza splatter resa al massimo del sanguinolento per arrecare disturbo e disgusto (vedi Blood feast di Herschell Gordon Lewis, 1963). D’Amato va oltre: contamina horror e porno lavorando a entrambi e realizzando sequenze altamente disturbanti ed eccitanti. Riportiamo e facciamo nostra la tesi di Susan Sontang per la quale la pornografia esibisce come lo splatter, con la sola differenza che nella pura pornografia la storia non serve mentre nello splatter può anche essere utile. D’Amato è originale e importante anche nel cinema porno, perché non realizza mai prodotti privi di storia e sposta la macchina da presa dalle pareti intime dei protagonisti per legare avvenimenti e trame con una sequenza logica. Lo stesso Fulci mette in scena un cinema di un disgusto consapevole che ha spesso la sola ragione di esistere nella sequenza splatter, ma non rinuncia mai a priori alla costruzione di una storia.

Torniamo in tema. Film come La casa sperduta nel parco sono ascrivibili più al filone della sexesploitation che agli slasher movie, anche se le differenze sono minime. La sexesploitation è un genere che mostra la violenza per la violenza, nuda e cruda, senza dare giudizi morali, senza accusare o condannare. Di solito in queste pellicole tutti i protagonisti sono da giudicare negativamente, ma l’errore è quello di farlo. Quando decidiamo di vedere un film di sexesploitation dobbiamo astenerci da ogni valutazione morale. Persino l’etichetta di film nazistoidi è un’assurdità, eppure quando uscirono pellicole come L’ultima casa a sinistra (1972) o Non violentate Jennifer (1978) accadde. Sarà stata colpa dei tempi particolarmente politicizzati, quando era d’obbligo assegnare un’etichetta a tutto. Di fatto sono film di stupro e vendetta particolarmente crudi che si limitano a rappresentare la violenza che esiste da sempre, anche se qualcuno ritiene che sia più utile nasconderla. Capostipiti del genere sono senza dubbio i classici La fontana della vergine (1960) di Ingmar Bergman e Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman. Non dimentichiamo Arancia meccanica (1972), dove tutti i personaggi sono violenti, perversi, idioti e dove il carnefice diventa vittima perché il mondo è più brutale di lui. Come non dobbiamo tralasciare tra i maestri del genere Roger Corman e Russ Meyer. Corman lo ricordiamo soprattutto per I selvaggi (1966), film sadico e anarcoide, violento e controcorrente. Meyer va citato per l’influenza che avrà su Joe D’Amato e affini, ma pure Deodato non ne è immune in certe pellicole. Il cinema di Meyer è puro cinema di sexesploitation. Si vedano come puro esempio The Immoral Mr. Teas (1960) e  Lorna (1964). Meyer apre le porte a una conquista del cinema underground e la rende praticabile anche nei circuiti ordinari. Tutto è potenzialmente rappresentabile, dal momento che fa parte della realtà. Se l’attenzione di Meyer si pone più sull’aspetto erotico di questa realtà, ci saranno altri che ne analizzeranno l’aspetto violento e altri ancora che mescoleranno le due situazioni (vedi D’Amato e Deodato).

La violenza raggiunta da L’ultima casa a sinistra di Wes Craven resta ineguagliabile. Due sadici sanguinari appena usciti di galera, una folle teenager e il figlio di uno dei due aguzzini torturano, violentano e uccidono due ragazze scatenando la vendetta di una delle famiglie delle poverette. Si tratta di un film violento e disturbante, a tratti sadico, che supera davvero i confini del rappresentabile. La pellicola teorizza il genere e David Hess si ritaglia un ruolo che lo accompagnerà a lungo. Le scene terribili di squartamenti e dissezioni cadaveriche, affiancate da stupri e uccisioni brutali, ne fanno una pellicola che scatena allo stesso tempo un senso di repulsione e di fascinazione voyeuristica. La casa sperduta nel parco si pone sulla stessa linea ma i risultati sono meno disturbanti. Ed è tutto dire.

Il genere non si ferma al capolavoro di Craven. Citiamo altri film di rape e revenge: Non violentate Jennifer (1978) di Meir Zarchi, L’angelo della vendetta (1981) di Abel Ferrara, Oltre ogni limite (1986) di Robert M. Young e molti altri epigoni minori.

In Italia il genere è stato sperimentato da Duccio Tessari (La morte risale a ieri sera, 1970), Ernesto Gastaldi (La lunga spiaggia fredda, 1971), Aldo Lado (L’ultimo treno della notte, 1974), Franco Prosperi (La settima donna, 1978), Pasquale Festa Campanile (Autostop rosso sangue, 1978), Umberto Lenzi (Milano odia: la polizia non può sparare, 1973 seguito da altri poliziotteschi violenti), Eriprando Visconti (La orca, 1976), Ferdinando Baldi (La ragazza del vagone letto, 1980) e persino Dario Argento (La sindrome di Stendhal, 1998). Citiamo infine il modesto Irréversible (2002) di Gaspar Noé, un film montato al contrario che contiene una scena realistica di violenza carnale ai danni di Monica Bellucci – mai così sexy e tanto estrema – della durata di ben otto minuti.

In Italia la sexesploitation e il rape e revenge, che poi sono due facce di una stessa medaglia e subiscono contaminazioni con gli slasher movie, trovano un loro rappresentante efficace in Joe D’Amato. Abbiamo già visto che Aristide Massaccesi fa di odio e violenza dei veri punti di forza del suo cinema, basti ricordare le cose già dette su Buio omega, Porno Holocaust, Antropophagus ed Emanuelle e gli ultimi cannibali. Una pellicola come Rosso sangue non è da meno ed è il più classico degli slasher movie con un folle serial killer che uccide nei modi più truci. Ma è soprattutto il ciclo di Emanuelle a presentare una serie incalcolabile di stupri e vendette, per non parlare di Hard Sensation (1981), forse la pellicola più importante in questo sottogenere. Non dimentichiamo Emanuelle e Françoise, le sorelline (1975), Emanuelle – Perché violenza alle donne? (1977) e Il pornoshop della settima strada (1979). In molte di queste pellicole la situazione è simile e ricorda L’ultima casa a sinistra di Craven e La casa sperduta nel parco di Deodato. Ci sono alcune ragazze tenute prigioniere in un luogo chiuso (una spiaggia isolata, una prigione, una villa) da un gruppo di sadici aguzzini che ne approfitta ripetutamente e nei modi più fantasiosi. In questi film di D’Amato, come in quello di Deodato, compare una buona dose di misoginia, le donne vengono presentate come partecipi di una violenza che accettano passivamente (addirittura con gusto). Il problema della misoginia del cinema di genere italiano è troppo ampio per essere affrontato in questa sede, ma di sicuro cavalca il gusto degli spettatori di sesso maschile, vero pubblico di tali pellicole.

(11/1 – continua)

Gordiano Lupi