IL CINEMA SECONDO DI LEO – TRA EROTISMO PERVERSO E NOIR PRE TARANTINO 15

UN POLIZIESCO SU COMMISSIONE

La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975)

La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975) è il classico film su commissione scritto da Galliano Juso (una bozza di soggetto) e sceneggiato da Ernesto Gastaldi, Nicola Manzari e Fernando di Leo. Ci si rende conto che siamo fuori dalla consueta factory del regista perché il film non è scritto da lui, la fotografia è di un insolito Enrico Menczer e il montaggio di Sergio Montanari. Luis Enriquez Bacalov viene confermato alle musiche e realizza un’ottima colonna sonora. Le scenografie sono di Francesco Cuppini. Produce Galliano Juso, il promoter della pellicola, per Cinemaster. Distribuisce Medusa. Interpreti: Luc Merenda, James Mason, Valentina Cortese, Irena Maaleva, Marino Masé, Vittorio Caprioli, Daniele Dublino, Marco Liofredi, Francesco Impeciato, Loris Bazzocchi, Renato Romano, Enzo Pulcrano, Tom Felleghi, Flora Carosello, Serena Bennato, Pietro Ceccarelli, Giulio Baraghini, Angelo Bergamaschi, Salvatore Billa, Alessio Juso, Renato Baldini, Raoul Lo Vecchio e Giuseppe Colombini.

La trama della pellicola si sviluppa attorno al tema del sequestro e il regista punta su un’accurata ambientazione romana. Si comincia con un gruppo di banditi mascherati che sequestrano il piccolo Antonio Filippini (Liofredi) davanti a una scuola. Il bambino è figlio di un ricco ingegnere edile (Mason) che potrebbe pagare un cospicuo riscatto per averlo libero. Il caso vuole che venga rapito anche Fabrizio Colella (Impeciato), un compagno di scuola di Antonio figlio di un meccanico, che interviene per difendere l’amico. L’ingegnere tratta con i rapitori che chiedono dieci miliardi di lire, ma siccome tergiversa e cerca di ribassare la pretesa, viene ucciso il figlio del meccanico a scopo dimostrativo. Il padre di Antonio paga il riscatto e suo figlio viene liberato, ma per il ragazzo del meccanico è troppo tardi. A questo punto si inserisce un tema caro al cinema dileiano, quello della vendetta di un uomo sconvolto dopo essere stato colpito negli affetti familiari. Il genitore di Fabrizio (Merenda) rintraccia alcuni rapitori e li uccide, infine si impossessa del denaro e ricatta i mandanti del sequestro. Il meccanico si finge interessato a entrare in società con i rapitori, chiede metà dei soldi del riscatto e scopre che a capo della banda c’è un gruppo di finanzieri milanesi. La parte finale della pellicola ripercorre temi cari al regista e descrive una vendetta spietata compiuta da un uomo sconvolto che ha perduto il figlio. Merenda finge di trattare sul prezzo, ma quando apre la valigia che porta con sé non ci sono soldi ma un mitra con cui stermina la banda. La sua ultima vittima è il killer che ha eseguito l’omicidio del figlio, giustiziato lentamente per farlo soffrire nello scenario insolito di un Luna Park.

La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori è un film su commissione, il secondo realizzato con il produttore Galliano Juso, ma di Leo non lo gira sotto gamba e inserisce nella sceneggiatura alcuni temi apprezzati nelle precedenti pellicole. Il film segue di due anni Il poliziotto è marcio e possiamo definirlo un vero poliziottesco, anche se corretto con le varianti tipiche del regista. Il film non è molto amato da di Leo, come altri lavori eseguiti su commissione, ma è ben scritto e non presenta pecche di sceneggiatura. Da segnalare anche una bella fotografia della Roma anni Settanta, ripresa con toni luminosi e intensi, un affresco che riporta lo spettatore indietro di molti anni. Il ritmo è serrato e non è difficile farsi coinvolgere da una vicenda che tocca vette di drammaticità dopo la morte di un bambino rapito. Di Leo descrive con attenzione l’amicizia tra due ragazzini che provengono da classi sociali diverse ma sono ugualmente uniti e stanno bene insieme. La loro ingenuità non può far capire le differenze, sono del tutto estranei allo scontro sociale tra i due genitori e questo particolare è sottolineato dal regista quando il bambino ricco si chiede perché l’amico non sia stato liberato. Luc Merenda è ottimo nei panni di un uomo coinvolto in un dramma più grande di lui, disperato ma glaciale sino alla resa dei conti finale. La legge non tutela il cittadino dalla criminalità e l’uomo comune è costretto a farsi giustizia da solo. Sono molto interessanti alcuni flashback che illustrano la vita con il figlio dopo la morte della moglie e fanno capire che il bambino è tutto per il padre. La storia presenta un discorso antiborghese su ricchi e poveri, soprattutto quando mostra il genitore del bambino ricco che tratta con i rapitori e mette in pericolo la vita del povero. L’eroe della vicenda è un meccanico, ex corridore di motocross, uomo di umili origini che si trasforma in un angelo sterminatore. James Mason interpreta il genitore ricco, l’ingegnere edile che potrebbe pagare, invece tratta, cerca di ribassare il prezzo e mette in pericolo di vita i due bambini. Mason è un grande attore inglese di estrazione teatrale scomparso nel 1984, interprete di impostazione anglosassone, sobrio e misurato, ma in questo caso molto efficace. I suoi personaggi migliori rappresentano maschere interiorizzate e sofferte, come il terrorista irlandese braccato ne Il fuggiasco di Carol Reed (1947), ma regge anche toni melodrammatici come in Pandora di Albert Lewin (1960) a fianco di Ava Gardner. Mason presta il suo volto a personaggi indimenticabili come il nazista Rommel, il Bruto uccisore di Cesare, alcune maschere di marito fallito e padre di famiglia devastato dal dolore. Resta indimenticabile la sua interpretazione del professore di mezza età innamorato di Lolita nell’omonimo film di Stanley Kubrick (1962). Mason interpreta oltre centoquaranta pellicole e forse questa caratterizzazione del padre ricco ma avido che porta alla morte un ragazzino innocente non resterà tra le sue cose memorabili. In ogni caso, il conflitto tra Mason e Merenda che esplode all’obitorio davanti alla salma del ragazzino morto resta un momento di grande cinema. Merenda dà vita a una scena di straziante dolore interpretata con il cuore e raggiunge l’apoteosi quando affronta Mason per cacciarlo via come colpevole dell’accaduto. Merenda – intervistato da Nocturno Cinema nel documentario Città violente – afferma che dopo aver girato quella scena l’emozione era così forte che ha continuato a piangere per un quarto d’ora, anche perché in quel periodo aveva sofferto la morte del padre. Di Leo trova il modo di inserire nella storia il conflitto di classe e fa un discorso di sinistra che nel periodo storico è di grande attualità. Il povero venderebbe tutto quello che possiede pur di salvare il figlio, il ricco negozia, pure sulla pelle dei bambini e afferma che questo è un affare come un altro! Il commissario incaricato di seguire le indagini è dalla parte del povero, ma non può farci niente perché lo Stato protegge soltanto i ricchi. Vittorio Caprioli è bravissimo come sempre e interpreta un commissario dalla battuta pronta che si schiera dalla parte degli umili. Il suo sarcasmo tutto napoletano risolleva il film nei momenti più stanchi (Disturbatemi solo per la promozione e per Sofia Loren!) e quando viene ucciso il figlio del meccanico non trattiene la rabbia. Comprende che la legge non è uguale per tutti e che deve sottostare alle imposizioni che vengono dal potere dei ricchi. “Se in Italia non ci fosse chi ha la disponibilità di dieci miliardi i sequestri finirebbero” afferma. L’appuntato gli domanda: “Ma allora lei vuol fare la rivoluzione?” E il commissario: “No! Ma fossi nei panni di quel giovane farei un massacro!”. Ed è quel che accade, infatti. Interessante il discorso sui sequestri, al tempo di tragica attualità, presentati come un’industria redditizia, un modo come un altro per far denaro. Valentina Cortese  è la madre disperata e affranta del figlio ricco, moglie insoddisfatta dell’ingegner Filippini, maschera tragica realizzata con consumata esperienza da attrice di teatro. Il suo ruolo è quello della donna in disaccordo con il marito, che resta all’oscuro di tutto ma non vorrebbe trattare con i rapitori perché la vita del figlio è la prima cosa da tutelare. Daniele Dublino è l’avvocato Bonanno chiamato a trattare con i rapitori e svolge con diligenza un compito da personaggio secondario. Irene Maaleva è Luina, la segretaria di Filippini in combutta con i rapitori, unica nota stonata del film perché la sua recitazione è a livelli insufficienti. Marino Masè è il killer che uccide il figlio di Merenda, credibile in una parte da spietato che fa una brutta fine, giustiziato senza pietà dalle pallottole vendicative di Merenda. La pellicola è molto teatrale – come la maggior parte dei lavori del regista – e la trama prosegue ricorrendo a dialoghi girati nei teatri di posa Rizzoli Film. Non tutti i dialoghi sono all’altezza, si notano alcuni momenti morti e fastidiosi, come un pesantissimo faccia a faccia tra Caprioli e Merenda subito dopo il rapimento. Per fortuna che numerose scene d’azione risollevano il livello di un film decisamente buono che si fa guardare ancora oggi con piacere. La suspense raggiunge il culmine dopo l’uccisione di uno dei bambini, perché il regista è bravo a tenere sulle spine il pubblico fino alla scena madre in obitorio. Questa è la parte più intensa della pellicola che presenta toni molto vicini a un lacrima movie. Merenda solleva il lenzuolo bianco, vede il figlio morto, lo abbraccia, lo bacia, piange, infine affronta il ricco e grida: “È morto per colpa tua! Per i tuoi maledetti soldi! Per i tuoi sporchi soldi! Tu lo hai ucciso. Va’ via! Vattene!”. Un grave torto subito scatena la vendetta del padre distrutto negli affetti familiari, la reazione di un povero Cristo che si trasforma in una belva, secondo uno schema fisso del cinema dileiano. La caccia spietata ai rapitori comincia e prosegue senza sosta tra brillanti scene acrobatiche a bordo di una moto, inseguimenti, collisioni tra auto, testa – coda ed efferati omicidi. Tra le parti acrobatiche ricordiamo alcune scene girate in un paesino dei colli romani con Luc Merenda (la sua controfigura) impegnato a scendere scalinate con la moto mentre un’auto percorre strade impossibili. La vendetta del padre disperato assume toni tragici e al tempo stesso violenti, perché il meccanico non ci pensa due volte a uccidere a sangue freddo i responsabili della morte del figlio. Tutta la parte finale del film è un gioiello di cinema di azione e di tensione narrativa, che conduce alla resa dei conti in una Milano fredda e grigia tanto cara a di Leo. I rapitori sono un’impresa organizzata, gente in giacca e cravatta che tratta la vita delle persone come pratiche da sbrigare, ma per loro è finita, perché il meccanico – giustiziere ha bruciato i soldi ma ha conservato il mitra. Stupendo il finale tra i baracconi di un Luna Park di periferia, con Merenda che gambizza Masè e lo finisce con un colpo alla nuca, proprio come lui aveva ucciso suo figlio. La pellicola termina con un primo piano su Merenda che ha esaurito il suo compito di vendicatore, mentre sullo sfondo si odono le sirene della polizia. Molto bravo anche il maestro d’armi Gilberto Galimberti che ha avuto il suo bel da fare.

Claudio G. Fava, un critico contemporaneo all’uscita del film, si occupa della pellicola e come consuetudine la stronca: Tutti i peggiori difetti del peggior cinema italiano si ritrovano prontamente ricomposti in questo film minuziosamente banale… Molto più equilibrato Paolo Mereghetti, che non ama il film, ma concede lo stesso una stella e mezza con questa motivazione: Parte come una (verbosa) variazione di Anatomia di un rapimento, e sfocia in un banale film di vendetta, che ricicla situazioni di altri lavori del regista. Ma resta curiosa l’impostazione di sinistra: il commissario Magrini (Caprioli), all’assistente che invoca leggi più dure contro i rapitori, obietta che questi crimini non si commetterebbero se non ci fosse chi fa i miliardi a palate. Pino Farinotti arriva a due stelle, ma senza motivare, anche se ritengo la valutazione corretta.

Nel bel documentario Città violente di Manlio Gomarasca e Roger Fratter si possono ascoltare interviste a Luc Merenda, Dagmar Lassander (irriconoscibile), Amedeo Giomini e Armando Novelli, sia su questa pellicola che sul lavoro in generale del regista. Sono molto interessanti le considerazioni di Merenda che definisce di Leo un mostro di cultura e ritiene impossibile che nella sua carriera non si sia dedicato anche a film intellettuali. In realtà di Leo ha inserito sempre momenti di riflessione nel suo cinema spettacolare, ma si è mantenuto fedele alla regola di realizzare soprattutto buoni lavori formalmente ineccepibili. Armando Novelli afferma: “Di Leo non si è mai interessato di produzione perché non ci capiva niente. Siamo sempre andati d’accordo perché lui parlava solo della parte artistica e lasciava a me i compiti produttivi. Di Leo era un vero autore, capace di mettere qualcosa di suo anche nel cinema più commerciale”. Merenda torna su di Leo: “Non si arrabbiava quasi mai, era un vero signore, facevi un film con lui ed erano nove settimane di vacanza”. Secondo Merenda il regista era “il capitano della barca e aveva sempre un po’ di tempo per tutti, dagli attori ai componenti più umili della troupe”. L’attore definisce La città sconvolta… “Un film limitato nelle ambizioni perché manca di psicologia, però è un film giusto su una persona che esce di testa per vendicarsi di un torto subito. Quando nessuno fa niente almeno c’è qualcuno che agisce. Certo, se si deve uscire di testa, meglio farlo al cinema che nella realtà. E poi è un film che contiene delle emozioni forti, ricordo la scena dell’obitorio…”. Interessante l’analisi di Merenda sul regista: “Fernando era un vero autore, viveva nel mondo che si era creato con la scrittura e in mezzo ai suoi personaggi. Mi sono sempre trovato bene con lui, pure quando mi ha fatto fare la parte di un poliziotto diverso dal solito, non l’eroe che ero abituato a interpretare. Quando di Leo ha scritto delle cose è andato sempre oltre e viveva in un mondo immaginario perché credo che in fondo la società gli desse fastidio. Faceva film per vivere nella sua bolla ideale, nel suo mondo. Ho cambiato pochi registi durante la mia carriera, proprio perché quando ne incontravo uno in gamba come di Leo cercavo di lavorarci molto”.

Fernando di Leo confida il suo giudizio non esaltante su Caccia spietata a Nocturno Cinema: “Si tratta di un film su ordinazione, fatto per Galliano Juso. Mi raccontò come voleva il film. L’argomento sequestri era all’ordine del giorno e parve ovvio a Juso confezionare una storia; avendo fatto con lui Il poliziotto è marcio mi richiamò e sceneggiai la sua idea. (…) Anche lì ci sono dei buoni pezzi, un film decoroso nel complesso, ma niente di più”.

Ernesto Gastaldi, autore della sceneggiatura, mi ha rilasciato una dichiarazione esclusiva sul suo rapporto con Fernando di Leo. Riporto per intero il pensiero di uno dei più grandi autori del cinema di genere italiano.

“Incontrai la prima volta di Leo sul finire del 1968 tramite, mi pare, Antonio Racioppi che aveva in quel periodo tre sorelle per amanti, dettaglio importante perché di Leo stava girando un film sul sesso, un film che con quell’accento che aveva, annunciava come Brocia, ragazzo, brocia. Fu un incontro breve e divertente, proprio per quella buffa pronuncia del regista pugliese, che Tonino Valerii gli faceva ripetere continuamente fingendo di non aver capito il titolo. Nel 1972 uscì, diretto da di Leo, Milano Calibro 9 tratto da un libro di Scerbanenco che fece un buon incasso e così Luciano Martino si buttò sul genere come uno sciacallo, come usava fare all’epoca, e mi chiese di scrivergli qualcosa sulla polizia ambientato a Milano. Carta bianca, nessuna idea di partenza. Venne fuori un copione un po’ politico, con qualche sapore antisessantottino, tanto che mi dissero che sembrava di destra (allora per destra si intendeva fascista) che spaventò Goffredo Lombardo che avrebbe dovuto distribuirlo. Annacquai un po’ il copione ma la Titanus si tirò indietro lo stesso. Martino aveva già messo in piedi il film e  dovette farlo lo stesso: invece di pagarmi mi diede una percentuale, mi pare del 2% sull’incasso e piange ancora! Incassai più o meno dieci volte quello che allora era solito darmi (poco perché io ero un amico!). Era Milano Trema, la polizia vuole giustizia (1973). Fu solo nel 1974 che incontrai di nuovo di Leo, chiamato stavolta da Galliano Juso, con cui c’era stata una buffa trattativa per un film scritto da me che doveva dirigere Vittorio Salerno, che si chiamava I primi tre cominciano a mordere, titolo cambiato poi da Lombardo in Fango bollente (1975). Juso doveva essere il produttore e ci aveva fatto tanto di contratto per la sceneggiatura. Invece Lombardo, chissà perché, aveva deciso di produrlo lui. Per farci liberare dal contratto disse a Juso che il copione era brutto e che non lo avrebbe distribuito. Galliano fece il furbo: non ce lo disse e tergiversò. Io e Salerno sapevamo tutto da Lombardo stesso e così gli proponemmo di restituirgli l’anticipo e liberare il copione. Galliano Juso aderì con grande entusiasmo e non appena avuto i nostri assegni in mano, ghignò che quel copione ci sarebbe rimasto sulle croste perché nessuno voleva distribuirlo. Al che gli avevo dato una pacchetta sulla spalla: Oh Galliano, se uno sceneggiatore ti restituisce i soldi vuol dire che l’ha già venduto a un altro! Ci rimase male ma non serbò rancore e così eccomi con di Leo nell’ufficio di Juso per un film d’azione sul tema dei sequestri che andavano tanto di moda. L’accento del regista era rimasto sempre lo stesso e io lo trovavo irresistibile. Juso aveva una mezza idea di una storia e la accennò. Io me ne tornai a casa a scriverla di notte, come facevo all’epoca, visto che di giorno con tre figli in casa non restava molto per la concentrazione. Era quello un anno di moltissimo lavoro: stavo scrivendo La pupa del gangster (1975) per Sofia Loren e Marcello Mastroianni, avevo le correzioni di Un genio, due compagni e un pollo (1975), il film poi rovinato dal regista Damiano Damiani che mandò in bestia Sergio Leone che ne era il produttore, e per Ponti scrivevo un thriller che poi si intitolò Morte sospetta di una minorenne (1975) o qualcosa di simile. Quindi in due o tre settimane buttai giù una stesura di quella sceneggiatura che poi consegnai a Galliano Juso senza più incontrare di Leo, né mai vedere il film. Pochi mesi fa, l’ultimo dei miei figli mi ha regalato il dvd, uno di questi giorni lo guarderò. Ora vedo che avrebbero messo mano alla mia sceneggiatura anche di Leo, e questo è facile che sia vero, e Nicola Manzari, il commediografo, che conoscevo benissimo e che mai me lo disse. Vero è che a quei tempi nessuno badava molto ai titoli di testa: i film giravano per cinque anni nelle sale cinematografiche e poi finivano al macero. Così andava il cinema commerciale prima dell’uragano televisivo di Berlusconi”.

(15 – continua)

Gordiano Lupi