VISIONI MORTALI, LIBRI E THRILLING DEI ‘70

Avevo già accennato l’argomento, senza tuttavia sentirmi di averlo centrato, messo a fuoco una volta per tutte; non che col thrilling italiano – o italian giallo, com’è conosciuto all’estero – voglia chiudere i conti, tuttavia vorrei veder scritta nero su bianco una considerazione che mi frulla nel cervello da parecchio.

La considerazione è che, mentre il cinema dei ‘60 e ‘70 bruciava meraviglie, la letteratura (di genere e intendo “genere” senza alcun intento spregiativo) coeva restava quasi a guardare, incapace di costituirsi in un corpus organico altrettanto efficace. In passati articoli ho cercato di analizzare (alla meno peggio) il fenomeno editoriale legato ai KKK o ai Racconti di Dracula, filologicamente scoperti da Sergio Bissoli.

In quelle collane – quantitativamente numerose e artisticamente fallaci – è possibile scovare delle equivalenze col cinema di Bava, Argento, Fulci, Margheriti e compagnia cantando.

Lasciamo perdere gli altri generi (l’horror, il western, il gotico) e concentriamoci sul thrilling.

Cos’è stato scritto di thrilling nei ‘70, dopo cioè che Dario Argento aveva aperto il suo vaso di Pandora? E con thrilling non intendo quegli ibridi sexy-gialli alla Lenzi, bensì l’armamentario classico con la mano guantata, il maniaco nerovestito, i traumi, i colori e le luminescenze dei ‘70, ecco. Esiste, è esistito – allora – qualcosa di narrativo che si è confrontato con la rivoluzione aperta da Argento e ampliata da Sergio Martino, Bava, Cavara, Fulci, Bido, Miraglia, Dallamano, Ercoli, Bazzoni?

Nel biennio 1971/72, mentre le pellicole con la mano negra facevano il pieno ai botteghini, qualche scrittore se n’era accorto, innamorato?

Aveva veramente capito i meccanismi di modernità alla base del thrilling italiano, uno dei pochi generi (anzi credo l’unico) veramente originali, creati in Italia e esportati nel resto del mondo?

La mia considerazione è che no, quasi nessuno l’aveva capito. E su questo “quasi” mi gioco l’articolo.

Molti mi diranno che dimentico i due romanzi gialli editati da Paolo Levi, o l’esordio folgorante di Fruttero & Lucentini, tuttavia chi li ha letti veramente non avrà difficoltà a notare che tali opere (di squisita riuscita letteraria) hanno poco a che fare coi rituali estetici del thrilling così come andava configurandosi sugli schermi dei ‘70. Sia Fruttero & Lucentini, sia Levi (che come sceneggiatore si avvicinerà maggiormente ai canoni del giallo nostrano con l’avvincente Ritratto di donna velata) non ritraggono quelle situazioni di amori malati e abnormi che infestano le pellicole, soprattutto quelle minori, affidate ad artigiani esperti come Stelvio Massi, Demofilo Fidani o Andrea Bianchi. Non hanno bambini crudeli che infilzano lucertole o bambole fatte a pezzi dai ghirigori lunari di un rasoio. Non presentano personaggi dediti a un erotismo perverso e malsano, pure impotenti. E così i romanzi di Scerbanenco e Veraldi, attratti dalle derive del noir metropolitano, o quelli ironici e ripetitivi di un Macchiavelli. Nemmeno Pittorru & Felisatti (sullo schermo autori di script fortemente thrilling) ci riescono sulla carta. Perché? Non ho dati o conoscenze per rispondere, posso solo andare a braccio. Forse il genere, al botteghino intendo, è durato troppo poco per lasciare una traccia duratura nella narrativa. Forse i meccanismi estetici, di rottura e novità di un Argento, sulla pagina bianca non avrebbero funzionato come sul grande schermo; forse si sarebbe dovuto inventare un “nuovo linguaggio” e per farlo ci voleva gente che amasse veramente quel genere, che lo studiasse e lo capisse a fondo. I grandi letterati dei ‘70 come Calvino, Pasolini, Sciascia, difficilmente si interessavano ai generi e se lo facevano cercavano comunque di scrivere lavori dall’alto contenuto intellettuale. I thrilling, anche i più riusciti, parevano comunque delle schifezze, lontani dalle raffinate pastoie morali del neorealismo. Gli scrittori anonimi delle collane da edicola come i KKK o i Dracula, a differenza di un Montale premio Nobel, dovevano rispondere a dei ritmi editoriali durissimi, inoltre (i più) scrivevano per sbarcare il lunario e credevano poco nel valore di quel che facevano. I KKK inoltre finirono prima che il thrilling esplodesse e i Dracula erano maggiormente orientati verso l’horror e il gotico, generi già fuori tempo nei ‘70. Tuttavia in quelle collane è possibile pescare dei libri che si avvicinano abbastanza ad alcuni elementi estetici dell’italian giallo. Non torno sull’argomento, già discusso qui sulla Zona nell’articolo intitolato Nervosismi pop e strategie della paura, a cui rimando per chi fosse interessato.

Per lungo tempo, sulle bancarelle, nelle discussioni al bar, ho cercato dei libri, dei racconti, dei romanzi, che mi restituissero l’originalità di quel cinema giallo.

Inoltre mi sono incaponito di rintracciare lavori scritti mentre quei film uscivano, e non editati in seguito, sull’onda del revival odierno, dove i thrilling italiani sono imbalsamati in splendide edizioni blu-ray per il mercato inglese o tedesco. Oggi è facile per un Andrea Biscaro (faccio un nome a caso, senza animosità) spararsi un libro al mese in omaggio a questo genere o a quello (anche se ho i miei dubbi che i libri di tali autori siano dei “veri” thrilling)[1]. Oggi è di moda. Si può tentare di ri-attualizzare il genere, metterlo al passo col jobs act di Renzi. Allora, nell’afa dei lacrimogeni dei ‘70, chi c’era a tenere il fortino letterario, mentre i grandi discettavano sulle delicate trame del potere eversivo e di colpi di stato al petrolio?

E qui torniamo al “quasi”.

I libri thrilling si contano sulle dita di una mano.

E ne avanzano pure parecchie di dita.

Comincio da Tiziano Sclavi.

Daniele Bertusi, nel saggio fondamentale sull’autore pavese, Dellamorte e altre storie, ci spiega che il giovane, e ancora sconosciuto Sclavi, scrive nel 1975, forse sotto l’effetto dirompente del Profondo Rosso di Argento, Un sogno di sangue, racconto/romanzo breve chiaramente ispirato al cinema thrilling del periodo. E’ probabilmente il secondo lavoro di Sclavi, dopo l’esordio di Film (1974) e il primo di ampio respiro. Nella sua analisi Bertusi individua, unico studioso a farlo, alcuni referenti precisi al testo narrativo. Uno nel film di Mario Caiano del 1972 L’occhio nel labirinto, dove la protagonista “vede” in sogno la morte del proprio psicanalista e da questo evento parte l’azione del film. Anche lo scritto di Un sogno di sangue si concentra sulle “visioni” del protagonista, un professore liceale di matematica, che vede alcuni orrendi omicidi, nel momento stesso in cui questi accadono. Bertusi individua anche delle connessioni con Una lucertola con la pelle di donna (1971) e con I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino, dove troviamo delle somiglianze in alcuni caratteri dei personaggi, oltre che nella comunanza dell’ambientazione (nel film una Università, nel libro un liceo). Sempre Bertusi ha il merito di aver studiato per primo i caratteri dirompenti del lavoro letterario del giovane Sclavi. L’autore pavese, come abbiamo appena detto, conosceva abbastanza bene il cinema di quegli anni e non disdegnava i generi, in particolare l’horror e i thrilling. Argento, da sempre, è un idolo di Sclavi, tanto che, Un sogno di sangue uscì nelle edicole per l’editore Campironi, con lo pseudonimo di Francesco Argento. Sclavi insomma non ha paura, a differenza dei “grandi” della letteratura, di sporcarsi le mani coi generi, col thrilling in particolare. Per farlo, però, ha bisogno di trovare delle equivalenze, oltre che tematiche, anche nello stile. Argento, in particolare, ha un modo di raccontare assai riconoscibile e moderno, fa un uso delle immagini e della musica come non si vedeva ancora in Italia, gioca coi primi piani degli oggetti, utilizza nuove macchine da presa, insomma inventa un suo “linguaggio”, che verrà ripreso e adattato da altri registi. Sclavi capisce questo discorso e non cade nell’errore di Nanni Balestrini, che in una raccolta intitolata Profondo Thrilling aveva trasposto su carta i primi tre film di Argento. Ciò che colpisce di questa operazione (chiaramente di mercato) è l’assenza di un linguaggio dirompente, com’era nello stile di un autore sperimentale e originale come Balestrini, esponente di spicco del Gruppo 63. Le trasposizioni sono fiacche e assomigliano a uno dei tanti anonimi libretti da edicola del periodo. Sclavi fa un’operazione diversa. Inventa una prosa leggera e superficiale, quasi una pre-sceneggiatura, si concentra sulle descrizioni scheletriche del testo, gioca col linguaggio del fumetto (ricco di blow up, primi piani, iperbole) e scrive un libro “visivo”, costruito su capitoletti brevi, incalzanti, innervati sui dialoghi ironici, surreali che troveranno tanta fortuna nella collana di Dylan Dog. Sclavi asciuga il linguaggio e prosegue – direi estremizza – le esperienze finali dello Scerbanenco di Traditori tutti, o di Hammett nel noir. Descrizioni brevi ed efficaci che si stampano nella mente, dialoghi e un uso sapiente della punteggiatura. Con questo bagaglio grammaticale, il nostro affida la trama a personaggi facilmente ascrivibili a quelle pellicole: un commissario dolente e riflessivo (che ricorda molto gli antieroi impersonati da Giancarlo Giannini e Michele Placido nei due thrilling di Paolo Cavara), un professore tormentato e inetto, corteggiato dalla bellezza di bambole delle proprie allieve. Le scene degli omicidi sono curate come balletti e presentano tutte le stigmate del genere, con l’assassino dal guanto nero, il rasoio che taglia e il plic fumettoso del sangue. Sullo sfondo, cosa non secondaria, la città, Pavia, che rimanda alle tante città italiane ritratte nei thrilling nostrani. Pavia, come Roma, Milano, come Venezia, Firenze, eccetera.

Proprio a Pavia Stevio Massi, poco prima, aveva ambientato un efficace thrilling: Cinque donne per l’assassino. La città non rimane inerme, bensì vive e sogna i suoi cortei, i suoi scioperi, i suoi scontri. Senza dilungarsi, Sclavi disegna un mondo dei ‘70, inquieto e violento, non dissimile da quello inscenato in tanti poliziotteschi del periodo. L’assassino si muove nell’ombra, mentre il commissario Straniero legge i suoi fumetti e la moglie porta avanti la lettura di La vita istruzioni per l’uso di Perec. La costruzione del giallo è classica, imperniata sulla ricerca del colpevole, sicuramente celato tra i personaggi. Nei momenti più riusciti, l’autore riesce a costruire un fraseggio quasi senza struttura, totalmente visivo, che sembra strappato allo schermo. Per questo motivo il giovane e sconosciuto scrittore riesce dove aveva fallito Balestrini e consegna ai posteri il lavoro thrilling più riuscito della letteratura italiana dei ‘70. Ossia di sempre.

Trovare un altro Sogni di sangue sarebbe arduo.

La consapevolezza e la lucidità semantica di Sclavi è oro. Gli scrittori dei Dracula hanno una prosa vecchia, tirata via, poco visiva, al massimo scopiazzata da certe involuzioni e lentezze degli autori romantici e gotici inglesi. Peccato che Sclavi non si sia proposto alle collane del periodo. Sarebbe stata una rivoluzione. Invece Sclavi andrà a bussare alla Bonelli e buonanotte!

Comunque nel 1973 c’era già stato qualcuno che aveva provato, riuscendoci, a dare alle stampe un thrilling coi fiocchi. Mi riferisco a Vieri Razzini, traduttore, critico e giornalista, che pubblica per la Fabbri il romanzo Terapia Mortale, da cui Fulci si sarebbe ispirato per Sette note in nero. Chiarisco subito che col film, il libro non c’entra praticamente nulla, se non per le suggestioni parapsicologiche. Razzini, allora sconosciuto, pubblica nella collana Sottoaccusa, diretta da Raffaele Crovi, amico e sostenitore di Sclavi. Ciò crea un legame non da poco coi due testi, scritti a pochi anni di distanza. La copertina del volume cartonato è di Carolus Thole, il grande illustratore di Urania. Razzini non sembra rifarsi a un film particolare, bensì anticipa certe derive fantastiche del genere. Tutto ruota attorno alla parapsicologia e a certi strani suicidi, forse indotti da qualcuno nell’ombra. I personaggi sono studiosi o sperimentatori di metapsichica e si trovano coinvolti in una vicenda complicata e folkloristica, ambientata in una Roma nevrotica e arcana, non lontana dalle suggestioni di uno sceneggiato come Il segno del comando. E proprio ai tempi e ai ritmi dello sceneggiato di allora sembra rimandare il testo di Razzini, scritto con uno stile meno originale rispetto a quello di Sclavi, non per questo meno efficace. Lo scrittore fiorentino scandisce il racconto su capitoli brevi e incalzanti, che s’accumulano verso un finale d’azione che rimanda alle prime sequenze del film che Fulci farà nel 1977. Razzini non risparmia violenze, allucinazioni e ambienti borghesi cosmopoliti e annoiati, altra caratteristica di molti thrilling di allora. I personaggi rimandano alle colonie di stranieri (inglesi) affascinati dalla dolce vita romana, simili ai miliardari e alle belle donne impersonate da attrici e attori come George Hilton, Susan Scott, Dagmar Lassander e Caroll Baker. Rispetto a Sclavi, inedito nello stile e meno nei contenuti, Razzini abbassa il livello “visivo” del racconto, per costruire un’atmosfera che oscilla tra l’indagine scientifica e il fantastico. Non è un caso che il libro è arricchito da un breve lessico del mondo occulto curato da Alberto Cesare Ambesi. Altro thrilling letterario di caratura, purtroppo non seguito da nessuno.

E ho finito le dita della mano.

Davide Rosso


[1] Lo ripeto spesso, comunque per me l’unico scrittore di oggi che è riuscito a trasmettere compiutamente sulla pagina il nervosismo pop del giallo italiano dei ‘70 è stato Giovanni Buzi. Riscopritelo e non ne rimarrete delusi!