ENIGMI DALLO SPAZIO E DAL TEMPO 14

7: GLI ENIGMI CHE NON ESISTONO – PARTE 02

La Stele di Palenque

Nel giugno del 1953 l’archeologo messicano Alberto Ruiz Lhullier ricevette dal suo governo l’incarico di effettuare operazioni di restauro a Palenque, un’antica città del popolo Maya.

I Maya sono, anzi erano, un popolo indio-mesoamericano che viveva principalmente negli altipiani del Guatemala e nella parte orientale dello stato messicano del Chiapas e anche nella penisola dello Yucatàn.

Nel 1773 frate Ordonez, il quale era un monaco della colonia spagnola del Messico, sentì parlare di un’imponente città, ora completamente deserta, nascosta nella foresta in un punto che non era molto lontano da dove lui aveva la propria missione. Il prete si fece accompagnare dai suoi fedeli e scoprì così, nascosta nella giungla, una grande città composta da piramidi, palazzi, strade e cortili e con le pareti coperte da misteriose iscrizioni. Ordonez chiamò la città Palenque, così come si chiamava il villaggio vicino, e gli studiosi dapprima pensarono che la città fosse stata edificata dai Romani, dai Greci o dai Fenici, se non addirittura dagli Atlantoidei finché non dovettero arrendersi all’evidenza: un popolo la cui civiltà si era evoluta almeno quanto quelle nominate, ma del tutto sconosciuto: la civiltà Maya.

Le loro prime tracce risalgono al 2600 avanti Cristo e, nei secoli successivi, essi presero a espandersi in tutta l’America Centrale creando delle città-stato legate fra loro dalle stesse leggi e religioni.

Nel tempo del loro massimo splendore, tra il 250 e il 950 dopo Cristo, essi occupavano ben più vasti territori e sono passati alla storia come fra le più avanzate culture indigene dell’America precolombiana.

Il contatto con la nostra civiltà fu deleterio per questo popolo orgoglioso, in quanto i conquistatori spagnoli e primi fra tutti, ovviamente, i preti i quali, continuando una tradizione deleteria che si sparse in tutte le epoche, e ritenendo un popolo solo perché diverso dal loro colpevole di eresia, fecero di tutto per distruggere i libri illustrati che contenevano gli scritti dei Maya, uno dei pochi popoli che avesse elaborato un linguaggio e una scrittura capace di esprimere una vasta gamma d’informazioni. L’opera di questi cosiddetti esseri civili e illuminati dal verbo di Dio fu così devastante che delle migliaia di manoscritti o codici geroglifici dei Maya, solo quattro ne sopravvissero.

Per fortuna, verso la metà del XIX secolo e per opera di un altro sacerdote, il francese Charles Brasseur, venne riportato alla luce una specie di dizionario dove degli altri preti spagnoli avevano descritto perfettamente il calendario Maya, i suoi simboli, con accanto la traduzione.

In questo modo si scoprì che i Maya avevano ben tre calendari di cui il primo misurava il tempo in cicli di 260 giorni che erano poi divisi in mesi di 20 giorni ciascuno; questo calendario interagiva con un altro di 365 giorni ed erano elaborati in modo che coincidessero ogni 52 anni per dare modo di elaborare quello che noi oggi chiameremmo secolo; ma nessuno dei due calendari era adatto per periodi di tempo molto lunghi, ragione per cui i Maya ne crearono un terzo, chiamato “lungo conteggio” il quale possedeva anche lui un ciclo di 52 anni ma scandiva il tempo in periodi corrispondenti a 5125 dei nostri anni. Fu in questo modo che essi poterono collocare eventi antichi della loro storia e questo sistema si basava su precisi calcoli e osservazioni sul pianeta Venere del quale erano in grado di seguire perfettamente l’orbita compiendo un errore di soli 14 secondi in un anno.

Il 21 dicembre 2012 è stata la data del calendario gregoriano nella quale secondo alcune credenze e profezie si sarebbe dovuto verificare un evento, di natura imprecisata e di proporzioni planetarie, capace di produrre una significativa discontinuità storica con il passato: una qualche radicale trasformazione dell’umanità in senso spirituale oppure la fine del mondo. L’eventuale catastrofe mondiale sarebbe dovuta avvenire nella medesima data alle 11.11 (ore italiane). L’evento tanto atteso veniva collegato temporalmente alla fine di uno dei cicli (“baktun”) del calendario Maya.

Nessuna di queste credenze ha mai avuto alcun fondamento scientifico e furono più volte smentite dalla comunità geofisica e astronomica. Anche la maggioranza degli studiosi della storia dei Maya confutò queste affermazioni. Comunque chi aveva osato sperare di saltare il venerdì di lavoro prenatalizio con la scusa dell’Apocalisse sarà rimasto deluso quando si concluse il Lungo Computo: uno dei tre calendari utilizzati dai Maya durava 1.872.000 giorni (5.125 anni circa) ed è “scaduto” proprio il 20 dicembre 2012.

Per gli antichi Maya giungere alla fine di un “ciclo” corrispondeva una grande festa, negli ultimi anni i profeti di sventura hanno ideato previsioni catastrofiche per la giornata della fine del calendario. Eruzioni vulcaniche devastanti, allineamenti pericolosi come quello di tre pianeti sulle Piramidi di Giza, o l’inversione dei poli magnetici, il caso del pianeta Nibiru, asteroidi impazziti in rotta di collisione con la Terra. Tutte bufale colossali, come ripetiamo da tempo, nate per alimentare un giro d’affari basato su paure e superstizioni. Ma se vi restassero dei dubbi una recente scoperta archeologica ha “spostato in avanti” le lancette del Lungo Computo, dimostrando che il calendario non comprendeva 13 baktun (intervalli di tempo della durata di 144 mila giorni) ma 17 per cui la sua durata non è di 5125 anni come previsto da alcuni “ricercatori”, ma di 6700 anni. Per cui se vi ostinate nel catastrofismo da ignoranti, sappiate almeno che vi resta altro tempo.

La società dei Maya era crudele e sanguinaria, dedita ai sacrifici umani, possedevano almeno 166 divinità le quali dovevano essere placate con tutta una serie di sacrifici i quali dapprima furono di animali e poi di esseri umani. I sacrifici, la lotta, il sangue, erano alla base di questa civiltà. Si consideri per esempio che essi praticavano un gioco per alcuni versi simile a quello della pallacanestro il quale infatti consisteva nel far passare una palla attraverso un anello, solo che per la squadra perdente c’era la morte. O le teste dei perdenti sarebbero servite come palle per la partita successiva, oppure tutti i componenti della squadra sarebbero stati legati strettamente gli uni agli altri in modo da formare una gigantesca palla di carne che veniva fatta rotolare dai gradini delle piramidi fino alla morte. Ancora oggi i discendenti di questo antico popolo amano seguire le proprie tradizioni e parlare la propria lingua rifiutando, o limitando al massimo ogni contatto con la nostra cultura.

La scomparsa di questa antica civiltà è ancora avvolta nel mistero, ma le loro vestigia, le loro antiche costruzioni piramidali parlano di un popolo molto evoluto e capace di complesse strutture economiche, sociali e religiose.

La città di Palenque fu uno di questi centri di civiltà e in essa penetrò Lhullier per assolvere il compito per il quale era stato assunto. Entrò nel tempio detto delle iscrizioni, una piramide a gradini (365, per la precisione, volutamente come i giorni dell’anno) e notò in un vano interno una pesante lastra di marmo che fu possibile sollevare unicamente a prezzo di molteplici sforzi.

Dovette penetrare in un vano che si era aperto dietro la lastra e che dava in uno stretto passaggio verticale a scaletta il quale immetteva, a sua volta, in un’ampia stanza posta a diciotto metri dal suolo e lì si rese conto di aver fatto una eccezionale scoperta: il posto dove si trovata era indubbiamente la tomba di un notabile o di un principe Maya. Nell’atrio di accesso, infatti, vi erano sei mummie di sacerdoti posti a guardia del sepolcro che era il primo mai trovato in una piramide messicana. All’interno della camera sepolcrale fu rinvenuta la mummia di un uomo il cui viso era coperto da una preziosa maschera di giada. Sulla tomba si trovava anche una lastra di pietra incisa e lavorata del peso di oltre cinque tonnellate.

L’archeologo non si preoccupò molto di quella pietra, tutto preso com’era dalla scoperta della mummia, ma quando le fotografie della lastra sepolcrale giunsero in mano agli ufologi e agli studiosi di archeologia spaziale, il clamore che ne derivò fece passare in secondo piano la scoperta del sepolcro tanto è vero che, ancora oggi, quando si parla di Palenque ci si riferisce a quella pietra tombale.

Sulla stele sono perfettamente visibili, con una precisione che ha della pignoleria, quello che ancora oggi viene considerata da molti una vera e propria sezione di cabina spaziale con tanto di astronauta immortalato nel gesto di pilotare il suo razzo cosmico. L’uomo, disteso al centro del bassorilievo nella classica posizione che ancora oggi assumono gli astronauti, indossa una specie di casco ed ha lo sguardo rivolto verso la prora della nave, verso una specie di portello-oblò. Le sue mani impugnano manopole e sembrano manovrare leve e interruttori, il capo è sorretto, nella scomoda posizione, da un sostegno e dal naso fuoriescono due beccucci che hanno l’impressionante somiglianza con un inalatore di ossigeno.

I capelli dell’uomo sono protesi verso l’alto, cioè verso il tettuccio della cabina, come se levitassero a causa dell’assenza di gravità. La scena esterna al modulo spaziale è perfettamente in tono con il resto, in quanto si vede un pappagallo in pieno volo in un cielo in cui spiccano il Sole e la Luna. L’immagine diventa, se possibile, ancora più angosciosamente perfetta quando si osserva il retro dell’abitacolo dal quale fuoriescono fiammate dovute a un mezzo di propulsione, ai getti di un missile come accade oggi a un razzo che si distacchi dalla rampa di lancio e si proietti nel cielo. La stele è stata ribattezzata dagli archeologi spaziali l’astronauta di Palenque e, a tutt’oggi, questo ritrovamento, fa ancora discutere e rende perplessi anche i più scettici.

La lastra misura più di tre metri e mezzo di lunghezza e due di larghezza ed è decorata con altorilievi che spiccano in maniera estremamente nitida su uno sfondo levigato in maniera perfetta. Le condizioni di conservazione della lastra sono ottime per cui si osserva nitidamente, al centro di essa, la figura di un uomo possente coperto di gioielli adagiato su una specie di trono. C’è una grande croce nel centro e dei geroglifici che indicano non solo il Sole e la Luna, ma anche Venere e la Stella Polare. Non era la prima volta che in una raffigurazione appariva la croce ed essa simbolizzava il desiderio dell’uomo in una vita futura, era il simbolo della cultura del mais, la ragione di nutrimento e vita dei Maya, per cui quest’uomo sepolto accanto a questa pietra tombale potrebbe essere un viaggiatore verso una seconda vita per ora inghiottito dalla terra nella quale riposa il cui sguardo si posa sulla croce simbolo del mais, come abbiamo detto e quindi della vita stessa.

Nemmeno colui che riposava coperto dalla maschera di giada è rimasto un mistero, egli portava un ornamento della stessa giada anche sulle mani, i denti erano dipinti di rosso ma non erano stati appuntiti, come era d’uso a quei tempi, la sua altezza era notevole per quella popolazione: poco più di un metro e settanta contro il metro e cinquantacinque della media dei Maya.

Ora bisognava scoprire se si trattasse di un “halac uinic”, cioè un “vero uomo” o, per meglio dire un re-sacerdote. E così si scoprì che si trattava di Pical (il cui nome, nella lingua Maya, significa Scudo), un monarca con funzioni sacerdotali che salì al trono all’età di 12 anni e 125 giorni nell’anno 615 e che morì alla ben tarda età di 80 anni e 158 giorni, nell’anno 683 dell’Era Cristiana. Tutte le traduzioni degli atti della sua vita rilevate dalle iscrizioni sono state pubblicate nei volumi: “Primera Mesa Redonda de Palenque: Conferenza sull’arte, l’iconografia e la Storia Dinastica di Palenque” che sono stati editi nel 1974.

L’archeologo sovietico Andranik Dzagarian, ha tentato di ricostruire il volto del monarca usando come base la maschera di giada dato che il teschio era stato abbastanza rovinato dall’umidità e potrebbe darsi che l’anomala altezza del re fosse dovuta a una discendenza bianca, ma un’altra cosa curiosa di cui pochi sono a conoscenza è che fu trovata nella Tomba di Palenque una seconda stele. Essa è conosciuta dagli archeologi e dagli ufologi come il Guerriero Armato. La ragione di questa denominazione è data dal fatto che il personaggio in questione regge, con la mano sinistra, quello che, in tutto e per tutto, sembra essere un fucile mitragliatore dalla cui canna escono pure delle fiamme.

L’idea che una civiltà proveniente dalle stelle sia giunta sul nostro pianeta e ne abbia forzato l’evoluzione sul nostro non è nuova né per l’archeologia spaziale e tantomeno per la fantascienza scritta e cinematografica. Lo scrittore svizzero Erich von Daniken cominciò, in una serie di libri, a presentare quelle che per lui erano le prove irrefutabili dell’arrivo di alieni sul nostro mondo nei tempi antichi.

Le teorie e le prove pindariche dello scrittore sono state giustamente confutate dalla scienza ufficiale, ma, nonostante questo, alcuni irriducibili ufologi, ritengono che al di là delle sue fantascientifiche dichiarazioni qualcosa di vero possa esservi e d’altra parte, ad infittire il mistero sull’eventuale visita di esseri di altri mondi, non c’è solo l’astronauta di Palenque.

Una scultura giapponese Dugu, per esempio, risalente a circa 5000 anni fa, mostra un individuo ricoperto da una specie di casco il quale potrebbe ricordare quello di un astronauta, in particolare quelli che sembrano essere dei grandi occhiali protettivi; poi abbiamo il disco di Lolladoff, un piatto risalente a 4000 anni fa e che sarebbe, almeno secondo alcuni ufologi, la riproduzione di un disco volante e l’essere alieno che si vedrebbe sul bordo sarebbe il classico E.T. Presso il Museo di Ica, in Perù, è conservato un teschio di circa tremila anni, la sua forma allungata, stando almeno a un’altra delle trovate di Daniken, fu volutamente ottenuta per poter assomigliare a quella delle figure aliene che sarebbero raffigurate su bassorilievi egiziani. Quindi abbiamo una pittura rupestre australiana di cinquemila anni fa la quale rappresenterebbe degli astronauti con attorno un casco spaziale e c’è da dire che un’immagine simile, risalente a seimila anni fa, è stata trovata anche nel deserto del Sahara. Ritorniamo in Egitto per parlare di geroglifici rinvenuti nel Tempio di Abydos e risalenti al tremila a.C., che mostrerebbero un elicottero, un sommergibile, un carro armato e una pistola.

E si potrebbe continuare ancora a lungo con le citazioni e con gli esempi, anche se alcuni di essi lasciano veramente perplessi e ci conducono tutti, se fossero veri, alla stessa domanda: “Se esseri di altri mondi sono giunti sul nostro pianeta in epoche remote, come hanno affrontato un viaggio interplanetario, con che mezzi?”.

Nel film Contact (Contact – 1997) di Robert Zemeckis, tratto da un romanzo dello scienziato e divulgatore Carl Sagan, il problema viene risolto in modo attualmente incontestabile, seppur fantasioso: dei tunnel spaziotemporali che attraversano l’universo da un punto all’altro. la teoria, pur ritenuta fantasiosa, fu sviluppata in modo matematico dai colleghi scienziati di Sagan, i quali iniziarono a studiarne le reali possibilità.

Noi non siamo attualmente a conoscenza di sistemi per poter percorrere lo spazio velocemente da un punto all’altro, le nostre attuali conoscenze permettono solo di pensarlo fantasiosamente, di teorizzarlo aggiungendovi un pizzico d’immaginazione, di sperare che, data la nostra limitata conoscenza dell’universo e dei suoi fenomeni, che anche se noi ancora non sappiamo ancora come fare per andare da un punto all’altro della nostra galassia, questo sistema esiste, si tratta solo di scoprirlo… Facile, no?

Se invece ci atteniamo, cinematograficamente parlando, alla Profezia Maya ecco che dobbiamo citare dapprima un episodio del serial X-Files e, precisamente, l’ultimo episodio della nona serie trasmesso in TV il 25 agosto 2002 intitolato La Verità – Parte 2 (The Truth 2), una creazione di Chris Carter per la regia di Kim Manners: Mulder evade dalla prigione con l’aiuto di Skinner, Reyes, Doggett, Scully e Alvin Kersh, dopo aver subito un processo sommario che lo aveva condannato a morte. Mulder e Scully si mettono in viaggio per il New Mexico, in un pueblo nascosto tra rocce di magnetite. Dentro troveranno l’Uomo che fuma, che rivela anche a Scully la verità suprema e finale, e cioè che gli alieni invaderanno la Terra il 22 dicembre 2012, (il giorno successivo al giorno d’inizio del prossimo Lungo Computo) senza che nessuno possa opporsi.

Il film Apocalypto (Apocalypto) del 2006 di Mel Gibson ci parla sia dei Maya sia di quella che potrebbe essere considerata la tomba di Palenque: ci troviamo nella fase finale e più turbolenta della grande civiltà Maya. Un uomo, la cui idilliaca esistenza è stata brutalmente sconvolta dalla ferocia degli invasori, intraprende un viaggio irto di pericoli in un mondo dominato da paura e oppressione. Quando gli eventi precipitano, quest’uomo, spinto dall’amore che nutre per la sua donna e la sua famiglia, tenterà di tornare a casa per riuscire a salvare il suo mondo e la sua vita.

Andiamo avanti e portiamoci in zona “fine del Mondo” con 21-12-2012: La Profezia Dei Maya (Doomsday Prophecy) di Jason Bourque del 2001, dove un editor e una archeologa cercano di rintracciare l’autore di alcuni libri profetici. Quando lo scrittore viene trovato morto, l’editor entra in possesso di uno strano manufatto che gli consente di vedere il futuro: un imminente catastrofe geologica che distruggerà la Terra…

Sempre nel 2001 abbiamo 2012 – L’avvento del Male (Megiddo: The Omega Code 2) di Brian Trenchard-Smith nel quale veniamo a sapere che Stone Alexander è un uomo malvagio, impersona il diavolo che vuole impadronirsi del mondo diventando così l’uomo più potente della Terra, usando sia forze militari, sia radio, tv, internet e stampa. Suo fratello David, diventato Presidente degli Stati Uniti, contrasterà questa azione diabolica con tutti i mezzi. Il nostro pianeta viene colpito da calamità bibliche e profetiche. Il 21 dicembre 2012, sul monte Meghiddo, viene combattuta una battaglia apocalittica fra il bene e il male, rappresentati dai due fratelli, ma fortunatamente la temuta catastrofe globale viene evitata.

Entriamo direttamente nel 2012 con 2012: Doomsday (2012: Doomsday) di Nick Everhart: il 21 dicembre del 2012 quattro stranieri si trovano ai piedi di un antico tempio inesplorato nel cuore del Messico. Quello che per i Maya è l’ultimo giorno del calendario, per gli scienziati della NASA è l’inizio della fine a causa dell’inversione dei poli magnetici della Terra…

Terminiamo con il più spettacolare di tutti e cioè 2012: La Fine del Mondo (2012) di Roland Emmerich che inizia riferendosi alla Profezia Maya la quale, secondo il suo calendario, l’attuale Età dell’Oro (la quinta), terminerà il 21/12/2012. Le quattro precedenti erano: Acqua, Aria, Fuoco e Terra e tutte sarebbero terminate con degli immani cambiamenti ambientali e infatti è quello che accadrà quando nel 2008 uno scienziato americano incontra un suo collega il quale avrebbe fatto una scoperta sconvolgente: delle enormi tempeste solari avranno un effetto catastrofico sulla Terra. Si parla addirittura di inversione del campo magnetico dei poli e tutto questo potrebbe portare alla distruzione della nostra civiltà. I due cercano di comunicare con il Presidente degli Stati Uniti per informarlo ma vengono fermati dal suo capo dello staff. Siamo adesso nel 2010 e il Presidente è venuto a conoscenza della minaccia per cui organizza un G8 in Spagna per parlare di questo pericolo e trovarvi la soluzione. Intanto, nel Tibet, i cinesi stanno cominciando a costruire una enorme diga. Ora siamo nel 2011 in mezzo ad avvenimenti misteriosi come il fatto che la figlia del Presidente stia gestendo una fondazione d’arte che sta sostituendo i capolavori artistici con delle copie e li sta accumulando segretamente in un luogo nascosto e fortificato sotto le Alpi. Nel 2012 comincia a verificarsi una serie di terremoti nella costa Ovest degli Stati Uniti. Nel frattempo, un uomo il cui incarico è quello di fare l’autista di limousine, va a prendere i suoi due figli dalla moglie divorziata per portarli al parco di Yellowstone. Un altro fatto strano si verifica quando la figlia del Presidente riceve una telefonata dal direttore di un museo francese che riesce a dirle, prima di saltare in aria con la sua auto un istante dopo, che la sua fondazione è tutta una messa in scena. La donna quindi scopre le vere ragioni del suo incarico e, ancora più sconvolgente, è il venire a conoscenza che il padre era al corrente di tutto. Intanto, una volta arrivato al parco, il nostro autista scopre che esso è stato occupato da militari e da uno scienziato, tra gli scopritori delle tempeste solari. Le ragioni di questa occupazione è che la catastrofe sta per verificarsi: una serie di terremoti e spaccature partirà dalla California verso Yellowstone per poi estendersi e sconvolgere tutta la Terra. Esiste però un piano di salvezza per i grandi della Terra. Nel Tibet non si sta costruendo una diga ma delle enormi arche astronavi dove essi prenderanno posto per navigare in un mondo coperto dalle acque fino a quando non troveranno un posto dove approdare. Il nostro autista torna a Los Angeles per cercare di salvare la ex moglie e il suo nuovo e spocchioso compagno, quindi tornano a Yellowstone per scoprire che è diventato il più grande vulcano attivo del pianeta. Dopo una serie di altre disavventure che comprendono tempeste di sabbia, altri terremoti e sciocchezzuole del genere, finalmente raggiungono il Tibet…

(2 – continua)

Giovanni Mongini