IL CINEMA SECONDO DI LEO – TRA EROTISMO PERVERSO E NOIR PRE TARANTINO 22

L’ESANGUE BESTIA E LA BESTIA(LITA’) DEL CINEMA

La Bestia Uccide a Sangue Freddo, ovvero l’irragionevole eredità del gotico (mal)celata nell’orgasmico pop dello sleaze-nurses

Cominciamo dalle cattive.

Liberiamo subito il campo dalle critiche superficiali e dalle solite dichiarazioni castranti degli scribacchini ufficiali, quelli che compilano i tomi annuali (leggi dizionari) stitici o votati all’autoriale caustico che va di moda, che triturano tutto senza contestualizzare storicamente la visione, fare un’obiettiva riflessione e collocazione nella carriera del regista.

Avremo così il franco commento dello stesso Fernando Di Leo: “Ovvietà e banalità spinte fino al cretinismo che ho riscattato (?) con un ritmo tale (?) da non permettere allo spettatore di riflettere su quale bufala stesse vedendo”. Il regista successivamente rivaluta alcuni elementi, difendendosi dalle accuse di noia e lentezza della sconclusionata storia che non decolla mai, nonostante l’eccellente polso dietro la macchina da presa e l’alta considerazione che ha nell’ambiente per le impeccabili sceneggiature nello spaghetti-western e persino come co-autore non accreditato della “trilogia del dollaro” di Sergio Leone, in ultimo il cast internazionale non certo da b-movie sprecato.

Assumere quindi atteggiamenti estremi, qualsiasi siano gli antipodi, ha contribuito a distruggere nel recente passato il cinema popolare italiano cosiddetto «di genere» invece che dargli il merito di svago senza pretese e di quel “piacere fanciullo” alla portata di tutti di coinvolgere ed emozionare, proprio perché La Bestia uccide a sangue freddo è l’eccezione nella filmografia di un riconosciuto Maestro del noir va analizzato per capire lo status di cult soprattutto oltreoceano.

Il film si inserisce, nella filmografia dell’autore foggiano, tra il violento I ragazzi del massacro e il perfetto Milano Calibro 9, due produzioni noir fondamentali, mentre esce nelle sale nel 1971, periodo del boom del giallo all’italiana di matrice argentiana che rilegge il genere classico enfatizzando la spettacolarità degli omicidi e le atmosfere cupe, sulla scia di decine di epigoni creati ad hoc nell’imitare il titolo zoologico promettendo nel migliore dei casi omicidi cruenti eseguiti in modo fantasioso, ma spesso lontani anni luce dallo stile inconfondibile di Dario Argento e del suo L’uccello dalle piume di cristallo (1970).

Stranamente però la pellicola in questione, in origine chiamata col più anonimo La lunga valle dell’assassino, guarda al passato, al decennio precedente e alla lezione del gotico.

Si avverte fin dai titoli di testa dal gusto retrò, che virano le immagini al seppia nonché dalla presentazione degli interpreti posata e dalle frequenti inquadrature fisse dell’esterno della casa-castello riutilizzate, visto che è quasi totalmente girato in interni. Nondimeno la scelta del castello stesso rafforza questa tesi, con annesso portone borchiato cigolante che invece di proteggere lascia libero arbitrio all’assassino di entrare e uscire quanto alle sue disinibite ospiti, e la sala d’armi, “salotto buono” dei giochi di dama e scacchi e self-service della Bestia d’armi medioevali: pugnali, balestra, scure e persino uno spadone.

Tra le morti è impossibile dimenticare la truce fine dell’autista che scola fondi di bicchiere, perché simile a quella che un anno dopo proporrà con migliore impatto visivo Mario Bava nel suo Gli orrori del castello di Norimberga (1972) impiegando l’omonimo sarcofago delle torture.

Di moderno c’è la violenza fisica e palese delle esecuzioni e l’arte del mostrare: decapitazioni, strangolamenti e fendenti di scure con una freddezza e una ritualità meccanica che esaspera e beffa la figura dell’assassino e al contempo ne mette in discussione lo stereotipo stesso dell’invulnerabilità quando si trova a dover rimandare un delitto e sfogare goffamente la rabbia sulla mobilia, questi viene ripreso sempre controluce come un’ombra, avvolto da una corta mantellina da supereroe o diavolo che sale e scende di continuo lo scalone e si aggira per i corridoi ansando, scegliendo una stanza per dispensare la morte subito o aspettando l’atto sessuale self-made della ninfa di turno.

Considerando anche l’insensato movente svelato nell’ultimo forzato dialogo, si possono ravvedere tutti gli elementi chiave di un genere che nascerà ufficialmente dieci anni dopo con Venerdì 13 e i suoi fratelli mascherati, ovvero lo slasher movie o sleaze.

Ma se la violenza è presente in centinaia di pellicole simili, cos’altro gli ha fatto guadagnare il gettone di cult?

Senz’altro ha contribuito il divieto ai minori di diciotto anni, restrizione amata dai registi che si incensano di aver “esagerato” e odiata dalla produzione che vede sottrarre una larga fascia di pubblico nelle sale, ovviamente vera calamita per il pubblico attirato dal proibito, sovente più promesso che mostrato..

Marchio che La Bestia uccide a sangue freddo si merita – nel 1971 e forse anche oggi – per la sessualità/sensualità esplicita dei nudi schiaffati in faccia con zoomate e primi piani senza paraventi.

Queste scene – e le loro interpreti – sono l’unico collante tra un omicidio e l’altro nell’effimero soggetto, motivo di pruriti all’epoca, oggi di curiosità per un cast femminile altisonante come la bellissima starlette Rosalba Neri, icona di un genere e di un cinema che non c’è più, che interpreta Anna, una ninfomane che non resiste alla tentazione di consumare l’amplesso nella serra con il virile garzone, spogliandosi integralmente a favore di camera, si contorce sul pavimento e finisce per sbollire gli ardori sotto una doccia fredda che ha una valenza onirica così com’è girata in campo lungo e fisso, simboleggia un eros violento tanto che la Neri sembra investita da getti laterali di idranti per “autopunirsi” (siamo ben lontani da quello che diventerà la doccia dieci anni dopo nella commedia sexy) oppure del corteggiamento lesbo-soft tra un’infermiera rossa (Monica Stroebel) e la paziente mulatta (Jane Garrett) che per curare l’agorafobia si concede a un massaggio con fondoschiena in primo piano sotto le mani di lei che più tardi la spia nella vasca da bagno, e ancora danzano e si strusciano nude al ritmo di musica afro prima che la Garrett venga trafitta alla gola da una freccia e nonostante tutto, manca di tensione, il sacrificio è annunciato.

La palma dell’eroina sexy è comunque assegnata al fascino di Rosalba Neri che fa del suo meglio anche nelle scene che confinano nella parodia quando all’uscita dalla serra fa la cascamorta con i due basiti infermieri venuti a cercarla – “Io voglio solo fare l’amore e basta!!” - o quando il killer sta per ucciderla a letto, cerca di dissuaderlo attirandolo fra le lenzuola mentre lui… ansima.

L’attrice, nata a Forlì, non è la madre di Francesca Neri come si pensa nonostante l’omonimia, ha lavorato con i più grandi registi italiani del dopoguerra, da Roberto Rossellini a Marco Ferreri, Lucio Fulci, Mario Bava, Sergio Corbucci, Fernando Di Leo, Jesus Franco e tanti altri, partecipando a decine di film e conoscendo la popolarità come “sosia” dell’allora celebre collega Barbara Steele in horror, peplum, spaghetti-western, commedie erotiche, quasi sempre nel ruolo di donna affascinante e talvolta crudele; della sterminata filmografia segnalo per gusto personale uno degli ultimi b-movie, un apocrifo di Dracula, dov’è generosamente svestita insieme ad altre grazie: Il plenilunio delle vergini (1973) di Luigi Balzella (firmato come Paolo Solvay) dove interpreta proprio la contessa Dracula… se non è stato ristampato in digitale, l’unica versione è la rara videocassetta edita dalla Magnum 3B.

Sottotono invece l’interpretazione dell’istrionico Klaus Kinski, musa e feticcio di Warner Herzog e prestato a tanti western all’italiana, è “girovago” e poco presente sul set, secondario al cast femminile e relegato nel banale ruolo del finto cattivo e sospettato numero uno che lascia poco spazio complici dialoghi fumettistici messigli in bocca: non può fare di meglio.

Eppure in tutto questo si evince l’interesse del regista per tematiche collegate alla “devianza sessuale” – così com’era intesa al tempo – e per l’indagine continua sul lato oscuro della borghesia italiana e i rapporti degeneri che sviluppa nella coppia.

Tecnicamente Di Leo si dimostra all’altezza, la regia non è mai svogliata come penserebbe una situazione scarsamente empatica ed emotiva per i suoi gusti, è un riuscito esercizio di stile la ripresa iniziale del dialogo nel parco tra la Stroebel e la Garrett con continui cambi di angolazione e primi piani ben fotografati o il montaggio rapido fronte/retro dell’assassino sullo scalone, il vagare nei corridoi e certe zoomate e fuori-fuoco tipiche dei Settanta; purtroppo manca la tensione fondamentale in un thriller ed è pretenzioso l’uso del flashback per tutte e quattro le protagoniste femminili, un sovrappiù che dà l’impressione di rimontare il «già visto» per raggiungere i canonici novanta minuti. 

Il tutto ci porta allo scioccante epilogo e alla vera scena cult (più del film stesso) che ripaga della visione altrimenti persa nella marea di produzioni altalenanti del periodo.

L’assassino ormai scoperto in preda alla disperazione fugge inseguito, rifugiandosi nell’ultima stanza dove trova un gruppo di infermiere. La camera indugia sul primissimo piano sconvolto dell’uomo, passa a quello stupito delle donne colte di sorpresa, poi è la mazza ferrata che tiene in pugno ad avere il sopravvento ed è un delirio di colpi – e corpi – di dettagli in soggettiva dell’arma medievale che fende l’aria e strazia le carni bianche, del volto stralunato e delle vittime ammassate l’una sull’altra, mette la parola fine al massacro solo l’irruzione della polizia, la canna alzata di una pistola e gli spari che rimbombano scuotendo l’uomo in calzamaglia, spinto sullo sfondo di un muro grigio pieno di sangue sgocciolante al quale si aggiunge la faccia colpita a bruciapelo della bestia abbattuta.

Forse il regista pugliese si è ispirato al caso di Richard Speck che nel 1966 uccise un gruppo di studentesse infermiere nel loro alloggio. Di sicuro hanno notato la somiglianza tra cronaca e cinema i distributori USA poiché hanno lanciato la pellicola con questo slogan: “The Slasher Massacre of Eight Innocent Nurses!” (“L’efferato massacro di otto innocenti infermiere!”)

Da qui l’appartenenza al sottogenere nurses o clinical, tipico dello slasher che vede le gesta dell’assassino compiersi in ambiente ospedaliero o cliniche frequentate da giovani e discinte infermiere che poco hanno a che vedere con la professione e molto con la facile nudità e situazioni morbose che sconfinano nel porno-soft come accadde ne La Bestia uccide a sangue freddo che vide aggiunte alcune sequenze hard nella versione estera girate con una controfigura della Neri. Eros e Thanatos insomma.

Senz’altro deve aver visto la celebre carneficina l’onnipresente Quentin Tarantino, dichiarato cultore del nostro cinema di genere, sarà un caso che nel citazionista Kill Bill vol.1 la terribile lolita e guardia del corpo personale di O-Ren Ishi, Go-Go Yubari affrontala Sposa con una mazza ferrata?

Il film è noto all’estero con titoli emblematici e facendo una rapida ricerca in rete si scopre che è citato spesso nei blog e nelle cineteche di tanti appassionati come Slaughter hotel o Cold blooded beast o Asylum erotica o Hotel erotica o Hotel: Cold blooded beast (in USA e UK), Les insatisfaites poupées érotiques (in Francia), Der Schloss der blauen Vogel (in Germania).

(22 – continua)

Fabio Marangoni