ENRICO LUCERI… E IL GIALLO

Enrico Luceri è autore di genere giallo, vincitore del premio Tedeschi 2008 con “Il mio volto è uno specchio”. In questa sede ho raccolto alcune sue riflessioni sul genere giallo, per permettere al lettore un confronto con il pensiero di un giallista esperto.

CARO ENRICO, CI UNISCE UNA ORMAI LUNGA CONOSCENZA E UNA PROFONDA STIMA. IN PASSATO HO AVUTO IL PIACERE DI INTERVISTARTI E DI CONDIVIDERE CON TE MIEI PROGETTI EDITORIALI E RICEVERE TUOI CONSIGLI. IN QUESTA SEDE VORREI CONFRONTARMI CON TE SUL GENERE GIALLO. LA PRIMA DOMANDA CHE TI PONGO È UNA DELLE PIÙ DIFFICILI. QUEL È LA CONSIDERAZIONE CHE HAI DI TE COME SCRITTORE? RITIENI CHE I TUOI LAVORI AUTORIZZINO CHI SI CONFRONTA CON LE TUE OPERE A RITENERTI UN AUTORE DELLA LETTERATURA ITALIANA? O RITIENI CHE CHI SCRIVE DI GENERE VADA CONSIDERATO IN UNA CATEGORIA A SÉ?

Si può dire che io abbia sempre scritto, fin dall’adolescenza. Però non me ne accorgevo.

Sono stato un osservatore attento del prossimo fino dalla mia infanzia, e durante la mia adolescenza e giovinezza.

Mi sentivo attratto, interessato, dal comportamento degli adulti e dei miei coetanei. Ma non di tutti. Solo di coloro che volevano apparire forti, sicuri di sé, spavaldi, affascinanti.

Il mio carattere invece è stato sempre pieno di dubbi, scettico, diffidente, laconico e riservato. Credo che mi sentissi incuriosito da costoro proprio perché così diversi da me, e in fondo in maniera inconsapevole registravo ogni loro comportamento perché mi sembrava estraneo, ostile, mi colpiva e feriva. Il comportamento di personalità sbrigative, efficienti, determinate, che mi facevano sentire inadeguato, trascurato, ignorato, a volte perfino disprezzato. Che mi facevano soffrire.

Però sono riuscito sempre a nascondere la mia sofferenza, per evitare di dare soddisfazione al prossimo. Ad abbassare le tapparelle, a nascondere l’interno della casa.

E tuttavia, ricordavo.

A distanza di decenni, ho capito che i miei occhi sono stati una macchina fotografica, le mie orecchie un registratore, la mia memoria un archivio che ha custodito situazioni sgradevoli (e anche qualcuna piacevole, per fortuna!).

Così sono cresciuto con un desiderio nascosto: spaventarli! Far crollare le loro certezze, i loro solidi e banali modi di vivere, la spavalderia di facciata. Intuivo in loro delle crepe, sottili e quasi invisibili, e ho trovato l’espediente per allargarle attraverso le mie storie, dove una minaccia ambigua è sufficiente a far vacillare e poi a frantumare personalità forti in apparenza e mediocri nella sostanza.

Ancora oggi, quando incontro qualcuno che dimostra verso di me un comportamento sbrigativo, disinteressato, indifferente, provo le stesse sensazioni della mia infanzia e so che presto la mia immaginazione sarà ispirata da una sofferenza antica e nascerà un nuovo romanzo.

I TUOI TESTI SONO BEN IDENTIFICABILI, IN QUANTO IL NUCLEO CENTRALE DELLE TUE OPERE È SEMPRE BEN DEFINITO. CREDI CHE LA VEICOLAZIONE DI UN MESSAGGIO PROFONDO POSSA CONTRIBUIRE A ELEVARE UN’OPERA LETTERARIA, DI QUALSIVOGLIA GENERE SIA? QUALE SEGNO DI TE STESSO VUOI CHE SOPRAVVIVA NEL TEMPO?

Il mio obiettivo principale è coinvolgere i lettori, far provare loro le stesse emozioni dei personaggi delle mie storie.

E allora racconto situazioni che anche i lettori possono aver vissuto, e quindi conoscono. Camminare in una strada affollata, oppure per contrasto in una deserta, e avere la sensazione inquietante di essere seguiti, spiati, pedinati. Scendere alla fermata sbagliata dell’autobus e trovarsi al crepuscolo in un quartiere sconosciuto. Attraversare dopo il tramonto un giardino pubblico desolato. Trovarsi da soli in casa propria e temere che qualcuno sia riuscito a entrare e si nasconda in un’altra stanza. Quindi costruisco un’ambientazione e un’atmosfera dove le emozioni dei personaggi crescono d’intensità, e da inquietudine e ansia, si tramutano in angoscia, per diventare poi paura e terrore, e approdare infine al delirio vero e proprio. Così teorizza autorevolmente un autentico esperto della materia (e non solo) come Dario Argento.

Un altro elemento, sono le sensazioni che provano i personaggi.

Quanti lettori potrebbero identificarsi in un personaggio che è impegnato in una sparatoria, in un inseguimento frenetico di automobili, in una fuga sulla terrazza di un palazzo? Non lo so, nel mio caso credo pochissimi. Ma quanti lettori nel corso della vita hanno avuto la sgradevole esperienza di tagliarsi con un coltello o delle schegge di vetro, di soffocare quando qualcosa va di traverso. Sanno quanto fa male una lama che lacera la pelle, quanto spaventa non riuscire a respirare. Ecco perché gli assassini nelle mie storie usano rasoi, forbici, coltelli, oppure cordicelle, fazzoletti, foulard. Per tagliare e strangolare. Per uccidere provocando sensazioni che i lettori conoscono e possono condividere.

Poi ci sono i colpi di scena. E il principale di questi, in un giallo, è di solito la scoperta dell’identità dell’inevitabile assassino.

C’è una sorpresa che ai lettori fa più paura delle altre, perché li coinvolge personalmente, e distrugge, frantuma la certezza più rassicurante: quando il protagonista di un romanzo giallo scopre all’improvviso che l’assassino è qualcuno che vive accanto a lui/lei, e si rivela uno sconosciuto, che nasconde una personalità, delle emozioni e delle intenzioni ben diverse da quelle che conosciamo da anni.

Un marito o una moglie, un fratello o una sorella, un amico a un’amica affezionati.

Da anni, una presenza costante, disponibile, comprensiva, affettuosa, innamorata.

In apparenza.

In realtà, quella presenza è rabbiosa, vendicativa, allucinata, ossessionata.

Perché?

Forse le abbiamo fatto del male. Senza volerlo, naturalmente. Le abbiamo procurato un dolore insopportabile, vissuto come un’ingiustizia.

E allora ha deciso di vendicarsi.

Prima terrorizzare, poi uccidere.

Questa situazione aumenta la suspense in un giallo: costringere i lettori ad affrontare la paura che la persona al loro fianco diventi all’improvviso una sconosciuta. E un’assassina.

Questa situazione è una pietra scagliata contro una vetrata. Una superficie incrinata che dopo qualche minuto crolla e si frantuma in tante schegge.

Questa situazione è una lama infilata fra le quiete abitudini e le facili e banali sicurezze della vita.

Una pietra e una lama che costringono i lettori a vivere la stessa paura dei personaggi del romanzo. Una pietra e una lama che aumentano la tensione, anzi, la suspense.

“Non dovevo andare a cercare tanto lontano”, esclama Roberto Tobias nell’inevitabile colpo di scena del film “Quattro mosche di velluto grigio”, di Dario Argento.

IL GIALLO È UN GENERE MECCANICO. LA TUA LAUREA IN INGEGNERIA TI QUALIFICA COME UN BUON INTERPRETE DEI MECCANISMI LOGICI CHE LO DOMINANO. QUANTA PARTE, ALL’INTERNO DEI TUOI LAVORI, CREDI DI DEDICARE ALLA PURA LOGICA DEL MECCANISMO E QUANTA ALLA FANTASIA?

Credo di essere un dignitoso artigiano della narrativa gialla. Più che la mia professione tecnica, quando scrivo mi sento una specie di orologiaio.

Un vero romanzo giallo è infatti un meccanismo di precisione, proprio come un orologio a carica. Proviamo allora a entrare nei dettagli del congegno, a smontarne gli elementi uno per uno, osservandoli attraverso la lente dell’orologiaio, per capire come si costruisce un giallo.

Le principali ispirazioni narrative rappresentano la marca e il modello dell’orologio e contribuiscono a definirne lo stile.

Cassa e bilanciere sono la forma narrativa (romanzo o racconto) e la trama.

La suspense, l’atmosfera di tensione e inquietudine della storia, ricorda per analogia la molla principale dell’orologio. Suggerisce l’idea di spinta, di movimento impresso con decisione, proprio come la tensione che l’autore lascia calare inesorabilmente sul lettore.

Il bariletto è l’elemento di un orologio che contiene la molla di carica e trasmette la forza motrice al treno degli ingranaggi. Nella nostra metafora non può essere che l’archetipo del giallo presente nel romanzo, cioè una struttura ricorrente in storie di autori diversi in tempi diversi. Per esempio, dei personaggi costretti a convivere in un luogo da cui non possono fuggire, come in “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie.

Sollevare la corona di carica e poi muoverla avanti o indietro, porta le lancette sul quadrante all’ora desiderata. In altre parole, la corona permette di spostarsi nel tempo. In un giallo può avvenire con quelli che tecnicamente sono chiamati flashback. Quando la memoria rivive il passato, stimolata da qualcosa di semplice, quasi banale: una canzone, un volto, una frase, un quadro… Una sensazione che evoca un’emozione sopita nella mente.

Ultime, ma non meno importanti, sono le ruote dentate del meccanismo di un orologio. S’incastrano l’una nell’altra proprio come i rapporti fra i personaggi. Il più affascinante e allo stesso tempo inquietante dei quali è l’assassino. Essere attratti dalla paura è una sensazione che i lettori di gialli conoscono bene, come la tentazione di sporgersi oltre l’abisso, senza dimenticare, come sostiene Nietzsche, che subito dopo sarà l’abisso a fissare noi.

SE DOVESSI SALVARE UN TUO TESTO, QUALE SALVERESTI? PER QUALE MOTIVO?

Tutti o nessuno. Non potrei preferire alcuno di loro agli altri. Perché in un certo senso la trentina di romanzi e la novantina di racconti che ho scritto finora sono un’unica storia: rappresentano la scelta deliberata di coniugare la struttura narrativa del giallo classico con le atmosfere e le ambientazioni del cinema thrilling all’italiana.

Uno dei romanzi di Agatha Christie che preferisco è “Il ritratto di Elsa Greer”, l’indagine che Poirot svolge per scagionare la moglie di un famoso pittore, incriminata, condannata e morta in carcere per l’omicidio del marito. Oggi sarebbe definito un cold case, perché è la figlia della coppia a chiedere a Poirot di dimostrare l’innocenza della madre, tanti anni dopo il fatto. Ebbene, è proprio il personaggio della vittima, il pittore Amyas Crale, l’elemento centrale della vicenda. Un artista, un uomo che crea grazie al talento e alla maestria, ma soprattutto un egoista, egocentrico, cinico e spregiudicato manipolatore delle coscienze altrui. Per uno scopo ben preciso: realizzare la sua opera d’arte. Nulla per lui è superiore all’esigenza di completare ciò che considera il suo capolavoro. Una spiegazione, forse per qualcuno un’attenuante, se considerata dalla prospettiva di un artista. Questa è la sostanza della mia considerazione. Un autore vive un rapporto personale con ciò che crea, sia esso scrittore, musicista, pittore, scultore o altro genere d’artista. Un rapporto interiore esclusivo e assoluto, che non lascia spazio in quel periodo di fertile creazione a nessun amore, affetto, amicizia e nemmeno attenzione alle altrui presenze. Credo che questa relazione così profonda e totalizzante valga per ogni opera di un autore e per l’insieme delle stesse. Come accade a me.

TI SEI SEMPRE DICHIARATO UN AMANTE DEL GIALLO ANGLOSASSONE DI AGATHA CHRISTIE. QUALI SONO I TUOI REFERENTI ITALIANI?

Scelgo un autore per ogni epoca: Augusto De Angelis negli anni ’30, Giorgio Scerbanenco nel dopoguerra, Renato Olivieri e Gianni Materazzo negli anni ’80, Carlo Lucarelli e Andrea Camilleri fra i contemporanei.

CREDI CHE ESISTA UNA DIFFERENZA TRA LEONARDO SCIASCIA E AGATHA CHRISTIE? E TRA FRUTTERO & LUCENTINI E CONAN DOYLE? SPIEGACI IL TUO PUNTO DI VISTA.

Credo che sia Sciascia che la “ditta” Fruttero & Lucentini (aggiungerei Piero Chiara, Umberto Eco e altri ancora) abbiano mutuato le strutture narrative del giallo per raccontare una storia, e lo abbiano fatto benissimo e legittimamente. Se Sciascia racconta la realtà della provincia siciliana e come la comunità convive e si confronta con la criminalità organizzata attraverso un’indagine dai ritmi narrativi del giallo, arriva a un pubblico maggiore di quello che leggerebbe un saggio o un romanzo di denuncia sociale. E questo vale anche per gli altri autori che ho citato. E a maggior ragione per Gadda, perché “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” si conclude senza una soluzione, quindi esclude deliberatamente uno dei cardini del giallo, cioè rivelare ai lettori la verità. Quindi la differenza sostanziale fra la Christie e Doyle da una parte e gli italiani dall’altra è questa: i primi scrivono una storia per raccontare un giallo, i secondi scrivono un giallo per raccontare una storia. Nel primo caso il giallo è un fine, nell’altro è un mezzo. E il giallo è autentico solo quando è un fine.

SE DOVESSI CONSIGLIARE IL LETTORE ODIERNO E GUIDARLO ALLA RISCOPERTA DI TRE GIALLISTI ITALIANI DIMENTICATI, CHE NOMI FARESTI?

Più che dimenticati, direi che sono in parte trascurati e considerati a volte come superati o datati: Augusto De Angelis, Renato Olivieri e Franco Enna.

QUAL È IL COMPITO DELLA NARRATIVA DI GENERE? INTENDO DIRE A LIVELLO UMANO, SOCIALE, CULTURALE, PSICOLOGICO. UNA TUA OPINIONE IN MERITO.

Credo che sia soprattutto indagare il complesso e non ancora del tutto chiarito rapporto fra noi e la paura. La paura che dorme un sonno leggero dentro ognuno di noi.

Per scovare il nascondiglio della paura facciamo una breve indagine di tipo giornalistico. Questa è un’inchiesta che si svolge dove comincia la notte.

Quando: due o tre secoli fa.

Dove: in una casa sperduta nella campagna italiana.

Chi: una famiglia riunita davanti al camino acceso, in una fredda sera d’inverno.

Cosa: una storia raccontata da qualcuno, che a sua volta l’apprese per tradizione orale da qualcun altro. Una storia che spaventa, dove si annida il male.

Perché: non certo per conciliare il riposo, semmai una veglia angosciosa, o un sonno popolato da incubi.

Se fosse un film, questa situazione somiglierebbe a una analoga del film “Le strelle nel fosso” di Pupi Avati, dove il cacciatore di topi Zenasio racconta una storia stravagante e inquietante, su cui aleggia l’ombra della morte.

Anche il nostro narratore racconta una storia spaventosa sul male, piena di magia, sortilegi, streghe, diavolerie e altre creature macabre.

Lo abbiamo detto, chi lo ascolta è una famiglia riunita. Quindi anche i bambini? Perché raccontare storie così truculente e violente (oggi diremmo splatter) anche a loro?

Risposta: perché queste storie hanno un fine pedagogico. Insegnano, ammoniscono, minacciano. A diffidare delle lusinghe del male, a evitarlo. Cedere alla tentazione, sarebbe punito severamente. Questa è la lezione impartita dalle voci notturne attorno al camino, e chi la insegna deve essere convincente, incisivo. Può esserlo solo terrorizzando chi lo ascolta.

Fin qui ci siamo. E ora la nostra inchiesta deve scoprire dove sia il male che fa paura.

Risposta: fuori da noi. Il male è sempre qualcun altro, o in qualche altro posto.

Una conclusione rassicurante, in fondo. È proprio così? Forse sì.

Io però credo che la paura del male sia stata nascosta in leggende, miti, esoterismo e superstizione per confondere le acque. Per negare una verità ben più spaventosa. Il nascondiglio della paura è un altro.

Per scovarlo, basta spostarsi nella stanza accanto e spegnere la luce.

Da sempre il buio fa paura.

Eppure le cose, al buio come alla luce, sono sempre le stesse. E allora cosa cambia? Che al buio, quelle cose, non le possiamo vedere. E allora le immaginiamo. È la nostra mente a renderle spaventose. Quell’impasto di rancori, rimorsi, rimpianti, in una parola emozioni, custodito in un ricordo freddo e doloroso in fondo alla memoria, o all’anima se preferite. Un nascondiglio vigilato da una sentinella che per convenzione chiamiamo coscienza, e sguinzaglia i suoi fantasmi non appena scende il buio.

Siamo arrivati alla fine della nostra inchiesta, alla radice della paura. Il male non è scatenato dalla superstizione o dell’esoterismo, ma da ciò di cui dovremmo pentirci, e non riusciamo, o non vogliamo, mai farlo. Da un’emozione custodita in un ricordo.

SE POTESSI RUBARE UN ROMANZO GIALLO A UN AUTORE ITALIANO DEL PASSATO, QUALE RUBERESTI?

Non toglierei alcuna opera ad altri autori, ma continuerei a cercare in ognuna l’ispirazione per scrivere una storia personale che sia autenticamente gialla. Sono grato a tanti autori e registi italiani, di cui leggo e rileggo, vedo e rivedo, romanzi e film, perché nelle loro opere trovo sempre un nuovo e diverso incentivo per raccontare una storia nata comunque dalla mia fantasia.

PER CAPACITÀ LOGICA E DI INTRICO, QUALE REPUTI ESSERE STATO IL PIÙ GRANDE SCRITTORE ITALIANO DI GENERE GIALLO? E PER CAPACITÀ NARRATIVA?

Scelgo solo i principali, perché l’elenco sarebbe più lungo. Apprezzo molto Augusto De Angelis, Giorgio Scerbanenco, Mario Coloretti, Gianni Materazzo, Renato Olivieri e Giuseppe Pederiali. Sono autori vissuti in epoche diverse e con sensibilità diverse e distanti fra loro, che hanno in comune la capacità di costruire e raccontare un giallo di genuina ambientazione italiana, dove i personaggi e le trame rappresentano un’immagine realistica della nostra terra.

Daniele Vacchino