PUPI AVATI

Resistere al conformismo degli anticonformisti

Pupi Avati racconta la sua vita in due libri autobiografici fondamentali: Sotto le stelle di un film (con Paolo Ghezzi – Il Margine, 2008) e La grande invenzione (Rizzoli, 2014). Sono due testi nei quali il regista si confida e si mette a nudo, rivelando cose mai dette e sistemando in maniera organica informazioni interessanti.

Scopriamo che il suo vero nome è Giuseppe, detto Pupi per colpa del soprannome di un violinista salisburghese del quale la madre Ines si innamorò da giovane, prima di conoscere il futuro marito.

Pupi nasce a Bologna il 3 novembre 1938, primo di tre figli (Mariella nascerà nel 1941 e Antonio nel 1946), da una famiglia con grandi differenze sociali, perché il padre è un antiquario borghese di Bologna e la madre una contadina di Sasso Marconi. Conosce i nonni paterni solo grazie ai racconti e alle foto, ma diventeranno protagonisti di storie avvincenti. Il nonno si chiamava Giuseppe come lui ed era antiquario, mentre gli altri fratelli si chiamavano Aldo e Augusto, il primo era un grande architetto, il secondo un avventuriero.

La famiglia di Avati è di stampo borghese, di idee politiche moderate, formata da un mix di cultura cattolica e contadina. Il nonno paterno si lascia tentare dal demone del gioco e manda in fallimento la sua attività commerciale, subito dopo muore di crepacuore, ma secondo Avati è proprio lui a chiedere di morire, pregando la Madonna. Il nonno materno lo chiamavano l’americanino perché aveva trascorso l’infanzia in Sudamerica  insieme alla madre. La storia del viaggio in Brasile e di San Paolo ritorna spesso nel cinema di Avati, con l’idea di un nonno che ha fatto fortuna e che ha lasciato in dote una piccola somma. Così come torna la storia di un nonno traditore, che per un malinteso senso machista non riesce a essere fedele alla moglie. Pupi Avati ammette di essere cresciuto con questo tipo di complesso, di dover giocoforza essere intraprendente con le donne, perché nipote di un simile nonno.

Le storie di cinema scritte da Avati fanno spesso parte della sua vita, come la guerra e lo sfollamento, momenti vissuti dalla famiglia che si ritira in campagna, a Sasso Marconi, come vedremo in Aiutami a sognare! Ma persino le favole nere del suo cinema horror (La casa dalle finestre che ridono, Zeder, L’arcano incantatore…) derivano dai racconti d’infanzia che venivano narrati ai bambini – in mancanza di televisione – prima di mandarli a dormire terrorizzati.

Il padre di Avati muore nel 1950, in un incidente stradale, quando lui è soltanto un ragazzo. La madre diventa, dunque, molto importante nella sua formazione, perché lo asseconda in tutto e vuole realizzare le sue aspirazioni. La madre Ines voleva fare l’attrice ma non l’ha mai rivelato a nessuno, se non nei diari, è vissuta in via degli Angeli, ha gestito una pensione a Bologna e poi in via del Babuino a Roma, per fare in modo che il figlio – coadiuvato dal fratello Antonio – tentasse la via del cinema.

Pupi non è un ragazzo modello, tutt’altro, riferisce di essere stato un bambino scorretto e un adolescente perdigiorno; qualche anno dopo, s’inventa persino di aver sostenuto un esame universitario (Festa di laurea è ispirato a questo episodio di vita) e infine s’impiega alla Findus, lavoro che odia con tutto il cuore, prima a Milano, quindi a Bologna.

Pupi Avati si sposa a 25 anni, nel giugno 1964, con Amelia Turri, la donna della sua vita, una delle donne più belle di Bologna, come ricorda il regista, con la quale ha sempre vissuto un rapporto di amore conflittuale ma intenso. “Di storie ne ho avute tante, ma un innamoramento come quello per mia moglie, mai. Io ho capito che la donna della tua vita è quella di cui non sai dire perché è proprio lei. Se ti chiedono il motivo per cui la ami, e tu non lo sai spiegare, allora è lei”.

Nella vita del giovane Avati è stato importante il jazz, storia che ha narrato in diverse fiction e al cinema, arte che ha abbandonato dopo aver conosciuto un clarinettista bravo come Lucio Dalla. “Il suo arrivo nella band rappresentò per me lo scollamento tra il sogno e il talento. Avrei voluto ucciderlo…”, ricorda Pupi.

Il cinema prende il posto del jazz, ma non è subito successo, la passione per Fellini e la visione di un capolavoro come Otto e mezzo - ma anche I pugni in tasca di Marco Bellocchio – lo convincono che deve tentare quella strada. I primi film sono Balsamus, l’uomo di Satana (1968) e Thomas (Gli indemoniati) (1969), due lavori grotteschi finanziati da un misterioso imprenditore, il cui nome è stato rivelato soltanto dopo la morte. “Il cinema ha pervaso e invaso totalmente la mia vita, è diventato la ragione della mia esistenza, un lavoro e insieme un piacere da interpretare con rigore assoluto, con totale dedizione, senza distrazioni”, afferma il regista. Vorrebbe fare un film su Luigi Tenco, sul mistero romantico di quel suicidio, ma il primo progetto della sua vita non va in porto. Firma le sceneggiature dei suoi film, spesso insieme al fratello Antonio e a Gianni Cavina, ma anche con Maurizio Costanzo. Scrive Il bacio (1974) di Mario Lanfranchi, il discusso Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pierpaolo Pasolini, per il quale viene pagato ma non accreditato.

Cifra stilistica dei primi lavori sono – per dirla con Roberto Poppi - grottesco ridanciano, esagerazione goliardica, voler a tutti i costi sorprendere con storie inusuali, fantastiche, strampalate. Le prime commedie della sua carriera sono La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1974) e Bordella (1975). Due film che anticipano tre lavori importanti come La casa dalle finestre che ridono (1976), Tutti defunti… tranne i morti (1977) e Le strelle nel fosso (1978). Il vero capolavoro del periodo è La casa dalle finestre che ridono, horror padano di una sorprendente originalità interpretato da un ispirato Lino Capolicchio che dimostra quanto Avati sia vicino alle atmosfere tenebrose e inquietanti del gotico italiano.

In ogni caso Pupi Avati è un regista del tutto fuori dalle regole, unico nel senso più alto del termine, non definibile né inquadrabile in un genere, riesce a centrare l’obiettivo sia come autore di commedie che come autore di film fantastici, intimisti, storici, grotteschi, biografici e parodistici. Avati collabora anche con Lucio Fulci scrivendo e sceneggiando una divertente parodia horror come Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza (1975) e ancora con Mario Lanfranchi sceneggiando l’erotico voyeuristico in salsa emiliana La padrona è servita (1976).

Il cinema di Avati resiste al conformismo degli anticonformisti, per dirla con le sue parole. L’orgoglio democristiano, cattolico, produce in lui gli anticorpi per non entrare a far parte della schiera degli intellettuali di sinistra, ma in ogni caso riesce a restare sempre sulla cresta dell’onda. “Sono frustrato per non essere riuscito a fare un capolavoro come Otto e mezzo, ma lavoro ancora oggi con la convinzione di poterlo fare”, afferma. “Racconto la Bologna non com’era ma come avrei voluto che fosse. E il mio è un cinema di sconfitti, di perdenti, sono loro i miei piccoli eroi. Ho passato gran parte della mia vita in disparte, a osservare, per colpa di un sconfinata timidezza, per questo sono capace di raccontare i caratteri che ho analizzato”, confessa.

Pupi Avati conclude i suoi ricordi nel volume Sotto le stelle di un film con un pensiero sull’aldilà: “Io penso che il mio paradiso sia così: un posto dove ci si innamora ancora delle ragazze con i calzettoni bianchi al ginocchio, il cappotto con i bottoni d’oro. Un luogo dove tutto permane, anche il desiderio, ma in modo molto civile, pacato, senza sofferenza e senza la sensazione che il tempo trascorra. Mi piace pensare che il paradiso di ognuno di noi sia il ritorno a casa in via San Vitale, perché è la casa del padre. Dove ti aspetta a cena”.

Non resta che far parlare il suo cinema, che sembra realizzato da una squadra di registi, tanta e tale è la varietà di idee e di ispirazioni che costella la sua carriera. Tratto d’unione indiscutibile è lo stile. Un film di Pupi Avati si riconosce tra mille. Ed è questo che qualifica un autore.

Gordiano Lupi

(tratto dal libro Tutto Avati di Gordiano Lupi e Michele Bergantin – Edizioni Il Foglio, 2012)