MERIDIANI DI SANGUE, RAGIONAMENTI SU UN PO’ DI LETTERATURA WESTERN

Non sono mai stato un appassionato di western, ad essere sincero. Da bambino non giocavo coi soldatini della guerra civile, non avevo il fortino degli indiani e non leggevo Tex Willer.

Sono arrivato a 41 anni (quasi, ad agosto) percorrendo altri sentieri, in primis l’horror, il gotico, il thriller, il porno e, dai 30 anni in poi, il noir.

Adesso sono sinceramente a corto di fiato e rischio di morire anzitempo di consunzione: l’horror (quello di oggi) mi fa schifo, non riesco ad entrarci in sintonia, il thriller all’italiana è finito e quei film li ho visti troppe volte, li ho ri-scritti troppe volte e anche lì è finita; il porno invece sta benissimo, però se scrivo di porno tanto Longoni non mi pubblica, perciò devo seguire l’esempio di un maestro come Valerio Evangelisti e spingermi su sentieri inesplorati (almeno per me e sperando che Longoni mi pubblichi… detto, fatto – Longoni).

Questo il cappello introduttivo a questo articolo e alle motivazioni che lo muovono.

Sono arrivato al western per disperazione e mi sono aggrappato, come sempre alla letteratura.

Per prima cosa ho scoperto che, a differenza del thrilling – di cui non esistono equivalenti letterari -, sul western è stato scritto molto.

Per seconda cosa ho scoperto, leggendo, che i romanzi western sono fighi e acchiappano più di tante altre cose.

Per terza cosa sono finito per andare in giro coi cani, nelle sterminate praterie vercellesi, camminando come un pistolero scemo di 40 anni.

Il western.

Per orientarmi ho comprato un volumetto, tanto sottile quanto illuminante, di Alberto Pezzotta, l’uomo che ha scritto Il Castoro su Mario Bava.

Il western italiano, si intitola, edito da Il Castoro nel 2012.

Il libro aiuta molto bene a capire il contesto in cui è maturato lo “spaghetti western”, termine spregiativo per indicare quel diluvio di pellicole italiane fiorite dal 1964 fino ai primi anni ’70.

Pezzotta è bravo a entrare dentro quegli anni, tanto che il volume potrebbe benissimo essere un saggio di storia economica del nostro paese dopo il boom; l’autore ha cura di mettere a confronto il western americano e quello nostrano, evidenziandone le differenze.

Il western americano vive del paesaggio naturale mozzafiato, quindi della natura selvaggia da conquistare, dominare, controllare, esplorare.

Il rapporto tra l’uomo è la natura è uno dei cardini del western a stelle e strisce.

Subito dopo viene il rapporto tra l’uomo e la legge, il bisogno di trasgredirla e rispettarla, al fine di fondare una società, una nazione; il western è dunque per gli americani una mitologia per una società giovane che ha bisogno di eroi e di un passato da inventare.

Nel western italiano tutto questo non c’è.

Il western nostrano è zeppo di antieroi cinici e disillusi che rappresentano meglio di altri generi l’italiano medio superomista, ignorante e prevaricatore.

Il western italiano è un universo a-storico, ambientato in un mondo fittizio, qualunquista, quasi sempre a sud di ogni nord (un terzo mondo molto simile ai ritardi e alle arretratezze del nostro mezzogiorno), impregnato di violenza e anarchia.

Sull’anarchia spezzerei una lancia a favore del nostro cinema, molto meno ottimista di quello americano classico.

Inoltre il cinema western italiano è assai scanzonato e divertente, molto più pop e post, rispetto ai canoni classici, spesso vicino a certe cose sperimentali (Pezzotta spende i nomi di Warhol, Schifano e Franco Angeli).

Non mi dilungo oltre, visto che al cinema western di Cinecittà dedicherò un articolo intitolato Vento del West(ern).

Fin qui, quel che volevo dire è che il saggio di Pezzotta merita di essere comprato e digerito con calma.

Dopo mi sono buttato sui racconti di Elmore Leonard editi da Einaudi, Tutti i racconti western, 2004.

Che dire, su internet ho trovato molto su questo libro e tutti propendevano per il capolavoro.

Sarà che sono un neofita, però non sono rimasto sconvolto dalla lettura.

Molti racconti (risalenti agli anni ’50, scritti da un Leonard non ancora super-star e che lavorava come pubblicista per la Chevrolet di Detroit) sono così semplici che li leggi e dici: e beh? Quasi come con Cechov.

Leonard parla di grandi ricerche storiche, però alla fine basta scrivere qualche nome suggestivo, il calibro di qualche arma e in corsivo due parole spagnole ed hai subito il western.

Perché il western, almeno sulla carta, non vive dei paesaggi visivi, bensì di uno stile, di un ritmo mentale, di un sapore atmosferico che è evocato, mediato dalle parole. Solo dalle parole.

Parole e proiettili, appunto.

E in questo Leonard è bravo assai.

Via via che la pratica aumenta (il grande merito del volume è quello di essere una sorta di corso di scrittura per principianti, un vademecum, una scatola di vetro in cui assistiamo alla nascita di un talento della scrittura noir contemporanea) i racconti si fanno più nitidi, scorrevoli, mossi non tanto dai plot – sempre minimi – bensì dallo stile, ossia dal modo in cui le parole evocano quello che devono evocare.

Esemplare il racconto Quel treno per Yuma, che inizia subito e sei già dentro un’azione. Leonard racconta il trasferimento di un pericoloso ricercato con dialoghi secchi, descrizioni stringate e scene d’azione limitate a poche righe, quasi dei flash mentali (Hollywood, di recente ne ha tratto un remake con Russell Crowe che fa veramente cagare).

Il libro di Elmore è una grande chiave d’accesso al genere, forse proprio perché lo stesso Leonard cerca di capire quali sono gli elementi primari con cui confrontarsi per evocare, sulla carta, le atmosfere del West mentale (qui quasi sempre un’Arizona solcata da canyon, gole, deserto, piste polverose e indiani a caccia di scalpi).

Chi si è confrontato con lo “spaghetti” è stato Valerio Evangelisti, autore monumentale di questi ultimi vent’anni (altro che quel poveraccio di zio Stephen).

Evangelisti ha inventato il personaggio del pistolero messicano mezzo stregone Pantera, evocato per la prima volta in uno dei racconti della raccolta “Metallo Urlante”. Pantera torna in un romanzo tutto suo con Black flag, un western all’ombra della guerra civile, solcato da una rappresentazione grafica della violenza che ricorda molto le pellicole degli anni ’60.

Anche i paesaggi dello scrittore bolognese sono polverosi, asciugati dalla calura, ridotti a povere baracche di legno.

Attorno mucchi selvaggi di predoni anarchici e individualisti, gente senza ideali o che, con la scusa di qualche causa persa, si abbandona a massacri di ogni genere, descritti fin nei particolari.

L’universo di Evangelisti fa sembrare Leone un’educanda di buoni sentimenti: la scrittura segue le ballate punk degli anni ’70 per rendere i dialoghi cinici e disincantati dei personaggi, in bilico con l’horror (la torma di sudisti irregolari è composta da lupi mannari!).

La vena polemica (e politica) di Evangelisti emerge meglio nel romanzo successivo dedicato alle gesta di Pantera, Antracite, uscito per Mondadori nel 2003. Qui l’antieroe Pantera (simile al Charles Bronson di C’era una volta il West) viene assoldato come sicario da una setta terroristica infiltrata tra i minatori irlandesi di una miniera; in realtà è in corso una lotta politica per il controllo economico e politico dell’America, già marcia e corrotta fin dalle sue fondamenta, retta da partiti e uomini politici collusi con bande criminali di pistoleros e sceriffi, industriali, uomini dell’esercito senza scrupoli. Il ritratto storico che si percepisce tra le righe è di rara potenza e amalgama con maestria il racconto. Libro molto bello.

Su altri lidi è il molto di moda Lansdale Joe e il suo La morte ci sfida, tradotto da Maurizio Nati per la Fanucci nel 2008. Il romanzo è del 1986 ed è un horror western con gli zombi, scritto come se fosse una sceneggiatura cinematografica (ricorda un pochino lo stile sintetico di Dellamorte Dellamore di Sclavi). Lansdale, da vero scrittore postmoderno, non si risparmia nulla e ci mette dentro tutto: gli zombi, il Necronomicon, un indiano sciamano, i ragni, un pistolero prete che avrebbe potuto essere interpretato da Gordon Mitchell, pornografia.

C’è chi si è stracciato le vesti per questo.

Io l’ho letto, carino, nulla di più.

Meglio (e di molto) il “western” di Giulio Questi edito da Einaudi nel 2014, pochi mesi prima della morte del regista/scrittore novantenne.

Parlo di Uomini e comandanti, un libro di racconti partigiani che oscilla dai primi libri di Calvino a quelli di Fenoglio.

Tuttavia Questi spoglia i suoi racconti (visionari) da ogni ideologia, rendendoli simili a quelli di Leonard; uomini, ragazzini, ignoranti trascinati sulle montagne e le valli del bergamasco a combattere per i fantasmi della libertà. Fantasmi di montagna e polvere. Ragazzini a contatto con la morte vera, le fucilazioni, le pallottole da estrarre dalla carne viva, i piedi congelati, eccetera. I soldatini di Questi assomigliano intimamente ai pistoleri dei western, buoni e cattivi, partigiani e fascisti dall’altra. E con questo libro l’autore stabilisce un contatto nuovo con un genere che ebbe una fortuna enorme sugli schermi, forse proprio perché evocò in molti spettatori di allora un bisogno di esorcizzare gli orrori di una guerra che aveva martoriato il paese, dividendolo in fazioni negli ultimi dieci mesi della stessa.

Il collare di fuoco, Mondadori 2005, sempre di Valerio Evangelisti, uno dei maestri del western italiano di sempre. Qui Evangelisti si confronta con quei film western politici incentrati sulla rivoluzione messicana. Evangelisti però è uno scrittore assai preparato culturalmente e costruisce un affresco storico degno dei kolossal di Sergio Leone. Il suo romanzo disegna un Messico di fine ‘800 attraversato da marshall americani al soldo del proprio governo o compagnie commerciali di dubbia moralità, peones, bandoleros tanto selvaggi quanto senza futuro, proprietari terrieri, latifondisti che affamano il popolo. Il Messico di Evangelisti non è lontano dallo splendido affresco che ne ha dato Damiano Damiani in Quien sabe?; un paese fantasma, anarchico e ingovernabile, forse nemmeno un vero paese, un miraggio inesistente come l’Italia unita a forza dai loschi traffici di Cavour. Giacobini, rivoluzionari, socialisti e radicali si danno il cambio in un girotondo di oltre 400 pagine ben scritte e gestite con un po’ di noia. Evangelisti si concentra su un pool di personaggi che cambiano, invecchiano e muoiono (quasi sempre male) nel tempo, pedine di un destino e di intrallazzi oscuri.

G. L. Bonelli, Il massacro di Goldena, ristampato dalla Bonelli nel 2008 in occasione dei 60 anni del personaggio di Tex Willer. Il volume ripropone il quarto romanzo di G. L. uscito per la casa editrice Audace nel 1951; ad accompagnarlo un’introduzione di Sergio Bonelli e delle splendide illustrazioni fatte per l’occasione da Aldo Di Gennaro. L’introduzione, riccamente adornata, spiega le origini salgariane e verniane di G. L., folgorato negli anni ’50 dalla letteratura hard boiled americana di Mickey Spillane: G. L. ha una scrittura colorita, serrata, fatta di descrizioni brevi e dialoghi ad effetto. Rispetto al personaggio istituzionale del fumetto, qui Tex è più violento, sboccato e spietato, calato in un mondo bidimensionale e pittoresco, tipico di tanta fiction pulp del periodo. Il romanzo rappresenta una via italiana al western, prima dell’esplosione degli “spaghetti”: G. L. non è vicino allo stile grottesco e parodico di un Leone e, come già detto, il suo West intrattiene rapporti con la letteratura poliziesca piuttosto che coi landscape tarocchi d’Almeria. Interessante e godibile.

Un volume prezioso e originalissimo è quello Gaberscek, pubblicato da La Cineteca del Friuli Edizioni Biblioteca dell’Immagine e intitolato Sentieri del western, dove il cinema ha creato il West. Il volume è uscito nel 1995, tuttavia credo sia ancora possibile ordinarlo. Gaberscek è uno studioso curioso: docente, studioso di oreficeria d’età longobarda, appassionato di western ha messo a punto un metodo d’indagine nuovo, che si concentra sul rapporto che intercorre tra i film e il paesaggio, lo spazio, in questo caso americano. Gaberscek intuisce come il paesaggio dei western classici sia dotato d’una forza arcaica, suggestiva e spettacolare, capace di assorbire l’elemento umano all’interno di uno scenario naturale che crea il mito. Gaberscek, in innumerevoli viaggi nelle terre del West autentico, ha scritto un volume unico che raccoglie e cataloga con precisione i luoghi in cui sono stati girati i film sul West. Gaberscek ricostruisce la storia dei luoghi naturali, dei set, ci spiega che fine hanno fatto, eccetera. Ne esce una nuova geografia del West, costruita per frammenti. Leggendo il volume, di grande formato e corredato da splendide fotografie, scopriamo come molte location naturali sono state inglobate dalla speculazione edilizia, smantellate o vendute all’esercito. Molti dei ranch in cui si girava erano stati costruiti da attori famosi, o privati allettati dall’idea di affittare i set a quelli del cinema. Scopriamo che il deserto piatto e infinito di Ombre rosse è, in realtà, un lago prosciugato o che molti paesaggi semiaridi venivano spacciati per film di fantascienza, o per le Indie, l’Africa e altro. Il paesaggio monumentale e prosciugato di tanti western sulla/della frontiera potevano insomma essere perfetti per film d’avventura pieni di agguati, sparatorie, inseguimenti, come per mille altri generi. La geografia americana, varia e spettacolare, porta già dentro, i semi d’uno spettacolo archetipale e pittoresco, destinato a rimanere nelle/sotto le palpebre sognanti di milioni di noi. Un libro da leggere e avere. Così come il suo seguito, Sentieri del western 2, edito nel 2001 sempre dalla Cineteca del Friuli. Qui la ricerca dei luoghi reali trasformati in frontiera immaginaria si concentra sugli stati del Sud-Ovest (Arizona, Utah, New Mexico), per poi allargarsi alle aree del Texas, Oklahoma, Kansas, Nebraska, fino alle Montagne Rocciose del Colorado, Wyoming e Idaho. Un libro ancora una volta ricchissimo di dati e immagini, sempre concentrato sull’analisi, per frammenti, del paesaggio, dotato d’una forza poetica ed evocativa. Conclude il volume un capitolo dedicato alle altre frontiere del West: si tratta di un piccolo saggio sulla storia dell’eurowestern, dai primi film dei Lumiére in Francia, passando per quelli inglesi, tedeschi e, infine, italiani. Gaberscek passa in rassegna le località spagnole più utilizzate dai nostri registi e dalle molte produzioni americane desiderose di sfruttare il successo delle pellicole “spaghetti”.

Segnalo. Brevemente, altri libri.

Luca Barbieri, Five fingers, edito nel 2008 dalla meritoria Edizioni il Foglio. Si tratta di una antologia di racconti western scritti da un autore italiano appassionato di fumetti, capace, come sottolinea acutamente la prefazione di Vincent Spasaro, di concepire un equivalente letterario dei nostri “spaghetti” film degli anni ’60; il West di Barbieri è un po’ straccione e immaginario, un non-luogo che non si trova in nessuna cartina geografica, bensì nella mente di noi lettori/spettatori. Barbieri scrive con grande facilità e in questo ricorda un Lansdale, però meno sbracato e trash, e un Pantera/Evangelisti, però meno storico e senza lungaggini. I suoi racconti sono delle pepite di trovate, sequenze, che triturano tutto, da Leone a Ford fino all’universo Bonelli. Un libro prezioso e unico.

Stefano Jacurti è uno sfegatato del western, uno che arriva a vestirsi come se fosse in un western. Ha pure diretto un film western. Inevitabile per lui il confronto con la letteratura. Di suo ho letto solo un romanzo edito dalla Emil nel 2012 e intitolato Bastardi per sempre, storia di due famiglie di allevatori che si combattono a vicenda. Jacurti ha una scrittura veloce, ben calibrata, scorrevole come quella di Barbieri. Ad accomunarli è il medesimo retroterra culturale: anche Jacurti mescola con felicità le moltitudini di visioni accumulate negli anni e sparge nelle pagine decine di citazioni letterarie che spaziano dagli “spaghetti” alla grande lezione americana del western crepuscolare di Pechinpah ed Eastwood.

Vorrei lasciarvi con una piccola scorsa a certi fumetti western usciti in questi ultimi anni. Anche qui non vi è alcun intento di esaurire un argomento inesauribile.

Segnalo la serie del Collezionista di Sergio Toppi, rimessa in circolazione con tiratura limitata dalla Kingcomics nel 2001.

Il Collezionista si compone dei seguenti episodi:

La lacrima di Timur Leng

Il calumet di pietra rossa

L’obelisco abissino

Lo scettro di Muiredeagh.

Toppi sceneggia e disegna con grande originalità un western anomalo che spazia dalla frontiera del grande West americano (con puntatine nel senza futuro del Little Big Horn), alle coste dell’Irlanda, fino agli indigeni/indiani ribelli dell’Africa coloniale. Toppi ci mostra come l’intero spazio geografico del pianeta possa divenire un ideale orizzonte selvaggio, popolato da rinnegati, vigliacchi e indiani identificati con tutti i primitivi del globo che cercano di resistere alle potenze capitaliste. C’è molta magia sottopelle nel western di Toppi, fatta di credenze, riti pagani, non lontani da quanto andrà a costruire Valerio Evangelisti con la saga del pistolero Pantera.

Non sono, a differenza del mio capo Longoni, un bonelliano. Trovo il fumetto Bonelli troppo perbenista, politicamente corretto, francamente fastidioso come una fiction di Don Matteo. Lo dico a scanso di equivoci. Detto questo non è possibile liquidare con stizza un universo della carta stampata che da così tanti anni domina il panorama dei fumetti italiani da edicola. Andando dal mio rifornitore dell’usato di fiducia, il signor Enio Bozzi di Libroccasioni, mi sono fatto consigliare l’acquisto di alcuni Texoni disegnati da certi maestri dell’illustrazione; tra gli acquisti c’erano anche due volumi di grande formato, alla francese, di Tex. Storie affidate ad autori come Serpieri o il fido Boselli coadiuvato da Mario Alberti e Angelo Stano.

Boselli/Alberti su Frontera!

Boselli/Stano su Painted desert.

Le grandi tavole si appropriano dei paesaggi classici del West americano e presentano storie più secche, concentrate su singole scene. I Tex di questa nuova collana sono dei doppi rispetto a quello della serie regolare: presentano un eroe più giovane, spietato, immerso in un contesto popolato da figli di puttana che non sfigurerebbero anche in un western italiano degli anni ’60 o in uno moderno di Rob Zombie.

Boucq & Jodorowsky, Il Bouncer, edito in Italia dalla Magic Press in tre volumi. Jodorowsky torna al western mistico dopo El Topo e sceneggia un universo razzista e iper-violento che gravita attorno a un saloon gestito da un bouncer, un buttafuori senza un braccio. Boucq (della grande scuola franco-belga, che tanto ha dato nei ’70 al western disegnato) estroflette l’ambientazione mentale di Jodo in grandi tavole che contornano i personaggi da “spaghetti” in un panorama non immune al fascino di John Ford. Ne esce un fumetto originale, una strana mescolanza di realismo visionario ed epica, svuotata però dal grande disegno d’una nazione da costruire.

Davide Rosso