DELIRIO ALL’ULTIMA PALLOTTOLA – TUTTO IL CINEMA DI MICHELE SOAVI 12

Ultima pallottola

E’ un ritorno al thriller per Michele Soavi che mette in scena atmosfere inquietanti e oniriche dirigendo questa fiction per adulti in due puntate.

A tratti la pellicola ci ha ricordato Deliria, vuoi per le numerose scene girate sotto una pioggia battente, vuoi per la figura dell’assassino seriale.

Ultima pallottola resta in ogni caso opera più matura.

La miniserie è stata trasmessa su Canale Cinque nei giorni di lunedì 24 e martedì 25 febbraio 2003, in prima serata, e ha registrato un buon indice di ascolto quantificato dai dati Auditel nel 20,69 di share, pari a 5.607.000 spettatori per la puntata conclusiva.

Vediamo la scheda tecnica. Il soggetto è di Pietro Valsecchi, la sceneggiatura di Daniele Cesarano, Paolo Marchesini e Michele Soavi, i costumi sono di Luciana Morosetti, le scenografie di Walter Caprara, il direttore della fotografia è Gianni Mammolotti, il montaggio è di Anna Napoli, organizzatore generale è Luciano Calzola, le musiche sono di Leandro Piccioni. Produttore è Pietro Valsecchi per la Taodue Film. Story editor è Stefano Rulli. La regia è di Michele Soavi.

Interpreti: Giulio Scarpati, Carlo Cecchi, Fabrizia Sacchi, Antonio Catania, Max Mazzotta, Nino D’Agata, Fausto Paradivino, Lavinia Guglielman, Patrizia Punzo e Alessia Giuliani.

La trama è molto articolata e va narrata in modo particolareggiato.

Il film entra nel vivo sin dalle prime sequenze. Sul treno diretto a Genova assistiamo all’incontro tra il capitano dei carabinieri Stefano Riccardi e la bella Nina. Riccardi è stato richiamato dal maggiore Fornari che lo vuole alla guida del gruppo di uomini che indaga su alcuni omicidi insoluti. Nina è studentessa all’Accademia di Belle Arti e nel tempo libero fa la cameriera in un bar. Un prete entra nello scompartimento di Nina e lo spettatore pensa che possa essere un omicida perché lei si spaventa. Subito dopo arriva anche Stefano. Nina si alza per andare al bagno e mentre si sta lavando il viso le rubano la borsa. In quel preciso istante fuori dal treno c’è qualcuno che spara a una prostituta albanese. Stefano soccorre Nina, cattura un piccolo ladruncolo ed è così che si conoscono e fanno amicizia. Riccardi chiese il trasferimento a Brindisi dopo la morte della sorella per overdose, quel tragico evento lo sentiva come una colpa e avrebbe voluto uccidere lo spacciatore che le aveva fornito la dose fatale. Nina ha lo stesso sorriso della sorella e con lei stabilisce subito un rapporto di affetto.

Il maggiore Fornari sa che Stefano è un esperto di crimini violenti e gli affida volentieri il caso. La procuratrice Landolfi ritiene che i delitti facciano parte di un regolamento di conti tra bande che controllano i giri delle slave e delle albanesi. Pure la ragazza uccisa sul treno era una prostituta e l’assassino l’ha fatta fuori con un colpo di pistola alla nuca dopo averle incappucciato la testa. Il capitano Riccardi accetta di occuparsi del caso, ma non vuole tornare a vivere a casa sua dove il ricordo della sorella lo tormenterebbe e decide di stabilirsi nella foresteria della caserma. Nelle scene successive lo vediamo al cimitero intento a sistemare la tomba della sorella, oppure insieme a Nina che quando sorride le ricorda la ragazza scomparsa. Tanti piccoli particolari ci fanno capire il carattere del capitano e tutti i suoi tormenti esistenziali.

Tornando alle indagini, Riccardi capisce subito che i delitti sono stati commessi utilizzando la stessa arma e che seguono un medesimo schema. La conferma arriva da un successivo omicidio avvenuto nella zona del porto: una prostituta viene ripescata dalle acque con una gru. Il rituale è identico: cappuccio in testa e colpo alla nuca. Stefano non è d’accordo con la tesi della procuratrice Landolfi e pensa di avere a che fare con un assassino seriale. Studia i vecchi delitti e scopre che la tecnica è la stessa: colpo sparato dalla solita pistola e traiettoria dal basso verso l’alto, la vittima ha il volto coperto, il tipo di proiettile è identico. Riccardi scopre anche che i delitti avvengono il sabato e che le donne sono sempre prostitute. Non solo: c’è pure una Mercedes nera che compare a ogni delitto ed è l’auto del killer. Il capitano risale anche al DNA dell’assassino grazie al liquido seminale rinvenuto sul corpo di una vittima. La voce di fare attenzione a un uomo che guida una Mercedes nera viene fatta circolare nell’ambiente della prostituzione, fino a quando una di loro riconosce il killer e avvisa la polizia. I carabinieri si mettono sulle tracce dell’assassino che però li semina, si apparta con una prostituta che aveva abbordato e uccide pure due metronotte intervenuti perché insospettiti. La ragazza viene ferita gravemente ma non muore ed è lei che in sala di rianimazione aiuta Riccardi a fare un identikit del killer (cinquant’anni, capelli grigi, voce roca) rispondendo alle domande con il movimento degli occhi. Purtroppo c’è una fuga di notizie per colpa di un giovane poliziotto e la stampa pubblica l’identikit e la notizia della Mercedes nera. Il killer adesso sta in guardia e il fatto di essere diventato famoso lo rende ancora più folle e imprevedibile. Prima di tutto brucia la Mercedes e la polizia scopre che era un’auto rubata e che il proprietario aveva ricevuto un buon numero di contravvenzioni per divieto di sosta sempre nella stessa zona della città. Il capitano è convinto di poter circoscrivere le ricerche e fa perlustrare dai suoi uomini il quartiere teatro delle multe con l’identikit alla mano. Ma non vengono a capo di niente.

Una mattina la postina del killer gli dice che somiglia molto alla foto del giornale, lui ha paura che la donna lo possa tradire e allora la segue in treno e la uccide nel bagno dopo aver aperto la serratura con una chiave di servizio rubata. Alla fine telefona al capitano per avvisare del delitto e il giorno dopo porta una busta al comando con la carta di identità della vittima, sfidando i carabinieri alla luce del sole. Qui si accorge che tra Stefano e Nina c’è un rapporto di affetto e inizia a seguire la ragazza scegliendola come prossima vittima. La prima parte dello sceneggiato si chiude con il killer che sale insieme a Nina sul treno diretto a Savona con l’intenzione di ucciderla. Riccardi fa di tutto per evitare il delitto ma non ci riesce e Nina viene ammazzata dentro uno dei bagni del treno con il solito rituale. Allora Riccardi si ricorda della sorella morta e questo nuovo delitto lo turba profondamente, tanto che aggredisce la procuratrice Landolfi e la accusa di aver ostacolato le indagini con le sue tesi assurde. Questa parte è recitata ad alti toni drammatici e ci sono scene che commuovono e appassionano. Qualcuno ha voluto dire che si scade nella soap opera ma non è vero, il film ne guadagna con una pausa di umanità che mette a nudo ancora di più il carattere dei protagonisti.

Il killer intanto telefona per annunciare un nuovo delitto. I carabinieri isolano i rumori di fondo dalla voce dell’uomo e comprendono che l’assassino sta chiamando da una cabina telefonica nei pressi di una stazione con una galleria. Individuano la stazione di Pegli e decidono di salire sul treno Pegli-Savona e di bloccare le entrate dei bagni. In realtà il killer è davvero sul treno, capisce di essere finito in una trappola e apre con la solita chiave di servizio la porta di un bagno. Riesce a fuggire dalla finestra proprio mentre i poliziotti lo stanno braccando.

Il killer pochi giorni dopo uccide un’altra prostituta con lo stesso rituale.

Le indagini proseguono e Riccardi scopre che la pistola (una Smith & Wesson) del killer è stata rubata a un croupier di una bisca clandestina. Riccardi capisce che l’assassino è un giocatore d’azzardo e che le contravvenzioni le ha prese nei pressi della bisca che frequenta.

I carabinieri individuano la bisca e risalgono all’uomo: Vittorio Nobile, quarantasette anni, celibe, disoccupato, pregiudicato per furto. Lo pedinano e lo fotografano, ma per colmo di sfortuna l’unica teste oculare (la prostituta ferita) muore e quindi non c’è più nessuna prova contro di lui. Nobile intanto ha comprato un biglietto di sola andata per le Isole Cayman e sta per partire. Resta poco tempo e Riccardi ha l’intuizione del DNA, segue Nobile in un bar e sequestra la tazzina dove ha bevuto il caffè. Paragonando il DNA rinvenuto sul corpo di una vittima con quello prelevato dalla tazzina, si accorge che è identico. I Carabinieri riescono a far rinviare alla domenica successiva la partenza di Nobile per le Cayman, ma la procuratrice non autorizza l’arresto perché il DNA prova solo che Nobile ha avuto un rapporto con la vittima prima che fosse uccisa, non che sia lui il killer. Ci vuole qualcosa di più per evitare che un buon avvocato lo faccia uscire di galera in poco tempo. Va preso in flagranza di reato.

Riccardi allora intuisce che Nobile uccide soltanto quando perde al gioco e studia una trappola per incastrarlo. Ingaggia una poliziotta per fare da esca e recitare il ruolo della prostituta, mentre altri due poliziotti si accordano con il titolare della bisca per truccare i dadi e incastrare Nobile. La procuratrice Landolfi prende l’iniziativa di entrare anche lei nella bisca e quando Nobile la vede ne è affascinato e la vuole accanto perché dice che le belle donne gli portano fortuna. I dadi come sappiamo sono truccati, quindi il killer perde una grossa somma e se ne va sconvolto portando con sé la procuratrice invece della finta prostituta. Riccardi non si immaginava che la procuratrice volesse essere della partita e il suo piano subisce una battuta di arresto. Il killer si accorge di essere finito in una trappola quando scopre il microfono che i Carabinieri avevano inserito nell’auto. Tutto pare compromesso ma la Landolfi riesce a far capire a Riccardi dove il killer la sta portando. Il finale si svolge al porto nuovo di Genova sotto una pioggia battente. La donna cerca di fuggire, Nobile le spara due colpi di pistola e lei si salva soltanto perché ha con sé il giubbotto antiproiettile. Alla fine Riccardi bracca il killer tra gli scompartimenti di un treno in sosta e lo cattura. Avrebbe una gran voglia di ucciderlo mentre ripensa alla terribile morte di Nina, ma capisce che farebbe solo un errore.

“Assassino, tu morirai in carcere” gli dice.

Sotto una pioggia burrascosa Riccardi decide di restare a Genova e di tornare a vivere nella vecchia casa. Festeggerà con i suoi uomini la cattura del killer e adesso anche la procuratrice Landolfi fa parte della squadra.

Michele Soavi prosegue nel suo intento di portare la cronaca nera in televisione dopo le vicende della Uno Bianca e di Ultimo.

Ultima pallottola è un thriller ad alta tensione ispirato alla vicenda del serial killer della Liguria, Donato Bilancia, che tra l’ottobre del 1997 e l’aprile del 1998, uccise diciassette persone e venne condannato, nel 2001, a tredici ergastoli. Furono omicidi terribili, quasi tutti contro donne e a bordo di treni, tanto che in quel periodo l’Italia era scossa e si viveva con il terrore di salire sopra un treno. L’uomo che diede la caccia a Bilancia fu il maggiore dei Carabinieri Filippo Ricciarelli, promosso sul campo colonnello dopo la cattura. Ricciarelli lo inchiodò grazie all’esame del DNA effettuato su due mozziconi di sigaretta e giunse all’arresto il 6 maggio 1998 in collaborazione con il Ris di Parma. L’ufficiale dei Carabinieri ha confermato che molti particolari dello sceneggiato sono assolutamente fedeli, così come risponde al vero il grande spirito di squadra che c’era tra i Carabinieri coinvolti nel caso. Certo che molte cose le hanno inventate gli sceneggiatori, era impossibile rispettare fedelmente la vicenda e non sarebbe stato neppure giusto. Per esempio l’arresto non fu così eclatante come nella fiction ed esigenze di copione hanno voluto inserire un inseguimento mozzafiato e una sequenza finale con sparatoria al porto di Genova. Nella realtà Bilancia fu catturato davanti a un ospedale dopo un pedinamento durato otto giorni e rischi ce ne furono lo stesso, ma colpi di pistola non ne vennero sparati. C’è poi da dire che anche molti familiari delle vittime hanno chiesto di non essere citati e anche la cognata di Bilancia ha pregato di non rievocare fatti personali. Per esempio nel film non troviamo traccia del suicidio del fratello del killer dopo la separazione dalla moglie, che per molti psichiatri è stato l’elemento scatenante della follia e soprattutto dell’odio contro le donne. Nella fiction il motivo che lo porta a uccidere è la perdita al gioco. Il vero killer, Donato Bilancia, era un giocatore d’azzardo, frequentatore di prostitute e ladro. Nato a Potenza il 10 luglio 1951, ma genovese di adozione. Uccide per la prima volta il 16 ottobre 1997 soffocando il gestore di una bisca clandestina che lo aveva deriso. Da allora in sei mesi colpisce altre sedici volte e fa fuori: gestori di bische, orefici, cambiavalute, metronotte, prostitute e due impiegate che hanno il solo torto di salire sul suo stesso treno. Gli omicidi avvengono a Genova, Ventimiglia, Varazze, Novi Ligure, Sanremo e su treni che partono dalla Liguria. La sua identità viene accertata grazie alle ricerche degli specialisti: Marco Pizzamiglio, Luciano Garofano e Tiziano Floris del Centro investigazioni scientifiche di Parma, che ritrovano tracce del suo DNA su due mozziconi di sigaretta lasciati sul luogo del delitto di una delle prostitute uccise. Bilancia viene catturato alle undici del 6 maggio 1998 dal capitano dei carabinieri Filippo Ricciarelli che ha coordinato le indagini. Il 14 maggio comincia a confessare tutti gli omicidi, anche quelli che non gli erano stati attribuiti. Al termine di trentasei udienze, il 12 aprile 2000, la Corte di Assise di Genova lo condanna, dopo cinque ore di camera di consiglio, a tredici ergastoli e ventotto anni di reclusione. La sentenza è confermata in Appello e in Cassazione. Le perizie psichiatriche lo dichiarano sano di mente. Il serial killer delle donne (che si faceva chiamare anche Walter) avrebbe sparato sempre con la stessa pistola: una Smith & Wesson calibro 38.

Donato Bilancia non è stato interpellato per il progetto della fiction, perché non era intenzione degli sceneggiatori mostrare un cattivo affascinante ma celebrare il trionfo dei buoni. Per la sua personalità gli sceneggiatori si sono documentati sulle sette perizie psichiatriche redatte su Bilancia. Per evitare le fascinazioni di un eroe negativo gli autori hanno spostato l’attenzione sugli eroi positivi: i Carabinieri che hanno risolto il caso. Il tenente colonnello Luciano Garofano, il comandante del Ris di Parma (lo stesso delle indagini sul delitto di Cogne), ha raccontato la dinamica investigativa e ha posto l’accento sul decisivo collegamento a un’unica persona di diversi delitti. Inoltre ha raccontato come si sono svolte le indagini balistiche, che attraverso una rete internazionale di esperti hanno portato all’individuazione della famosa cartuccia finlandese “Lapua Patria C538”. “Bilancia è stato il primo caso di osmosi tra le diverse unità investigative operativa e scientifica”, ha detto Luciano Garofano che nella finzione filmica è interpretato da Antonio Catania.

In ogni caso il direttore di Canale Cinque, Giovanni Modina, ha imposto allo sceneggiato il bollino rosso, perché ci sono diverse scene cruente e il tema affrontato non è dei più adatti per un pubblico di ragazzini. Il produttore Pietro Valsecchi (noto per Distretto di polizia e per Il caso Soffiantini) si è lamentato di questa decisione parlando di “penalizzazione di un prodotto che non è stato adeguatamente promosso”.

Giulio Scarpati ha ricevuto molte critiche negative per questo suo primo film d’azione, forse perché eravamo tutti abituati a vederlo nelle vesti rassicuranti di maestro elementare (Cuore) o di medico dal cuore grande (Un medico in famiglia). In Ultima pallottola per la prima volta impugna la pistola, conduce inseguimenti e spara, ma soprattutto interpreta un ruolo inconsueto di personaggio tormentato dai rimorsi e dai ricordi. Scarpati si è calato con entusiasmo nella parte, esercitandosi al poligono di tiro e mangiando pizze in caserma con i Carabinieri del nucleo operativo. Ha ripetuto più volte le scene di azione per ottenere un buon effetto di suspense e si è dato un gran da fare per correre dietro a un malvivente come Carlo Cecchi che nonostante gli anni è pur sempre un ex centometrista. Scarpati ha detto che non vuole sentirsi chiuso in un cliché e che ha fatto volentieri la parte di Stefano Riccardi. Nel frattempo ha anche interpretato la commedia musicale Aggiungi un posto a tavola recitando il ruolo del prete, a dimostrazione che ama cambiare e fare di tutto.

Sebastiano Messina, su La Repubblica del 27 febbraio 2003, ha distrutto la recitazione di Giulio Scarpati e ha massacrato il lavoro di Soavi. Salva soltanto tre cose: “la riuscita suspense dell’assassinio sul treno, la magnifica faccia prestata da Carlo Cecchi al serial killer Vittorio Nobile e la dettagliata ricostruzione del lavoro oscuro ma decisivo del Ris, la squadra scientifica dei Carabinieri”. Tutto il resto non lo ha convinto. Di Giulio Scarpati dice: “ha fatto del suo meglio ma nonostante la barba lunga e il suo training autogeno questo capitano Riccardi non ha la faccia del duro, e le sue rampogne isteriche suonano forzate, fredde e false”.

A Messina non soltanto non è piaciuto l’interprete principale della fiction, ma addirittura scrive che la storia risulta raffazzonata e priva di trama. Per Messina si doveva stare di più ai fatti senza aggiunte da soap opera tipo la storia della cameriera Nina, la sfida tra il killer e i Carabinieri e la figura grottesca del magistrato Silvia Landolfi. Un altro appunto di Messina è che nella scena dove i carabinieri isolano una telefonata e scoprono che il killer sta parlando da una stazione nei pressi di una galleria, è stata copiata di sana pianta un’identica sequenza de Il fuggitivo di Andrew Davis.

Secondo noi è vero che l’interpretazione di Giulio Scarpati fa rimpiangere un attore più convincente come il Raoul Bova di Uno Bianca e del serial di Ultimo. Crediamo che ne sia consapevole lo stesso Soavi che nel frattempo era già al lavoro sul set della terza serie di Ultimo con Bova come protagonista. Però Scarpati svolge il suo compito con diligenza e impegno, anche se non ha le physique du rôle e soprattutto manca della grinta necessaria per interpretare scene di azione. Il suo sorriso da bravo ragazzo si nasconde male dietro una barba incolta ed è più congeniale per ruoli rassicuranti e familiari. Soprattutto Scarpati perde alla grande il confronto con un Carlo Cecchi che si cala a dovere nei panni del serial killer e ripete una notevole performance come fece con Pupi Avati ne L’arcano incantatore. Cecchi ha tutto per interpretare la follia lucida dell’assassino: sguardo magnetico, voce roca e portamento. La sua presenza buca lo schermo e nelle sequenze che vedono capitano e killer faccia a faccia l’attenzione dello spettatore è catalizzata dal cattivo. A nostro giudizio un altro attore fuori ruolo è Antonio Catania, troppo più bravo quando è chiamato a recitare caratterizzazioni brillanti. La sua interpretazione del maggiore dei Carabinieri è scolastica e poco convincente.

Per quel che concerne la trama il nostro giudizio è diametralmente opposto a quello di Messina. Bene ha fatto Soavi a sganciarsi dalla fredda cronologia degli eventi per raccontare e ricostruire invece il clima teso e l’ansia delle indagini. Ne è venuto fuori un film di tensione più che di azione, una pellicola incentrata sulla sfida tra il bene (il capitano) e il male (il killer), tra due identità contrastanti che finiscono per incastrarsi l’una nell’altra. Il film approfondisce le psicologie dei personaggi e non cade mai nel trabocchetto di spettacolarizzare la violenza. La macchina da presa è in perenne movimento, i primi piani si sprecano, le soggettive sono interminabili, la tensione è palpabile. I due personaggi principali sono uomini a tutto tondo, figure complesse con un passato alle spalle e problemi veri. Non si cade mai nel fumettistico con un capitano Riccardi teso e tormentato dal ricordo della sorella morta e poi colpito di nuovo al cuore dall’assassinio di Nina. Ma anche il personaggio di Nobile è ben tratteggiato in quella lucida follia da giocatore perdente e uomo solo che non sa entrare in sintonia con la vita. Riccardi si cala nella mente perversa del killer, pensa come lui, diventa una cosa sola con il suo nemico e lo sconfigge proprio perché riesce a capirne la psicologia. Accanto a questi due personaggi importanti è pur vero che c’è una procuratrice Landolfi poco credibile, che prima ostacola il lavoro di Riccardi e poi si getta a sorpresa nella mischia con un colpo di teatro un po’ forzato. Così come vediamo un maggiore dei Carabinieri privo di spessore e anche i colleghi di Riccardi sono figure molto marginali, senza una loro individualità, soggetti che non lasciano il segno.

Tutto sommato a noi la pellicola è piaciuta. Si tratta di un lavoro che tiene lo spettatore in tensione sino all’ultimo istante e non ci sono mai cadute di ritmo. Una Genova color pastello, con le sue zone portuali, la ferrovia, i vicoli fa da contorno a una vicenda cupa e ben girata da un regista che ama sperimentare anche nuove tecniche. Valgano per tutte le riprese dall’alto che inquadrano i bagni dei treni durante gli omicidi, ma anche i primissimi piani di particolari, le dissolvenze che fanno scomparire e apparire elementi importanti della vicenda. Le sequenze dei delitti sono eccezionali e Soavi ci mette tutto il suo mestiere di regista che viene dall’horror. L’uso della soggettiva fa immedesimare lo spettatore nella paura della vittima, la musica intensa di Leandro Piccioni sottolinea i momenti più crudi, il primo piano sugli occhi terrorizzati o sulla chiave che apre una porta è il tocco finale di un capolavoro di tensione. I delitti spesso avvengono nei bagni dei treni e il regista riprende il macabro rituale dall’alto senza concessioni alla violenza gratuita. L’assassino apre la serratura con la chiave rubata ed entra nel luogo dove celebra con freddezza il rito del colpo di pistola sulla testa incappucciata. Come sempre nei film di Soavi c’è un riferimento pittorico che qui è dato da René Magritte e i suoi famosi ritratti con la morte a volto coperto. Magritte era ossessionato dal suicidio della madre e quindi per tutta la vita ha dipinto volti velati che rappresentavano la morte. Pure il vero Bilancia era ossessionato dalla morte del fratello e questa citazione ci riporta alla vicenda reale che ha ispirato il film. Riccardi pensa che il killer non vuole vedere in faccia la morte e che ha un senso estetico nei delitti, inconsciamente vorrebbe essere fermato ma non ce la fa a smettere.

Tra l’altro nel velo che copre il volto delle donne assassinate abbiamo trovato analogie con alcune sequenze del film La setta, dove un panno malefico si attacca al viso delle vittime predestinate.

In un film di Soavi poi non possono mancare gli acquari e dato che siamo a Genova era inevitabile una scena ripresa all’interno del più grande acquario d’Italia con il killer che osserva le mosse della sua prossima vittima.

Molte sono le sequenze stilisticamente memorabili di una pellicola di gran lunga sopra la media di quello che è l’ordinario palinsesto televisivo. Un orologio in primo piano che inesorabilmente scandisce il passare del tempo e sullo sfondo le immagini dei Carabinieri all’opera. La dissolvenza sui dadi che scorrono sul tavolo verde in un terribile rallenty che aumenta il senso di tensione. Le riprese dal basso, quasi da sotto le rotaie, durante gli omicidi nei pressi della linea ferroviaria. Le scene sotto la pioggia battente che rendono bene la disperazione, l’angoscia e lo sconforto dei personaggi, che nelle sequenze finali si trasformano in gioia incontenibile a lungo repressa. Tutta la parte finale è da manuale per il crescendo di tensione in cui fa precipitare lo spettatore, sino al faccia a faccia tra Riccardi e Nobile sotto una pioggia incessante e la tempesta che non accenna a placare. Come in Deliria l’assassino è sconfitto in una scenografia allucinante e le parole di Riccardi: “Tu morirai in galera” ci fanno capire che l’incubo è finito per sempre.

Riferimenti bibliografici

-      Interviste a Giulio Scarpati e Michele Soavi – da “Il Tirreno” pagina degli spettacoli del 22 febbraio 2003

-      Sebastiano Messina “Caso Bilancia troppe aggiunte per un thriller” da Repubblica del 26 febbraio 2003

(12 – continua)

Gordiano Lupi, Maurizio Maggioni e Fabio Marangoni