FANTASCIENZA STORY 122

IL RITORNO DI KING KONG (1976) – PARTE 01

La fantascienza cinematografica, superata la metà degli anni Settanta, sembra compiere almeno in apparenza un passo indietro: ritorna così l’epoca dei mostri, degli insetti giganti, degli esseri orribili, i quali questa volta in sgargianti colori, riprendono il posto che fu loro tipico di un’epoca che si credeva ben definita e irripetibile: gli anni Cinquanta.

Ritornano quindi le ancestrali paure dell’uomo, mai sopite; ancora una volta la “bestia, sempre più rabbiosa a ogni nuova sconfitta”, riemerge dai meandri del subconscio e si scaglia sullo schermo, ma adesso solo per il divertimento dei grandi e dei più piccini che, molto più smaliziati dei loro coetanei di vent’anni prima, osservano le gigantesche creature con occhio più critico e meno preoccupato dei loro genitori degli anni Cinquanta. Non deve stupire quindi il ritorno sugli schermi del “mostro” che più di tutti segnò un’epoca nel campo della cinematografia di fantascienza: il mitico, l’unico, grande King Kong.

KING KONG  (King Kong)

Quando Dino De Laurentiis decise di trasportare nuovamente sullo schermo le note vicende dello scimmione innamorato, non s’immaginava minimamente che avrebbe suscitato una serie di contrasti e polemiche. Infatti, due altre case di produzione, la Universal International e la RKO Radio Film, si dichiararono proprietarie dei diritti cinematografici del gorillone. Vinta questa battaglia si è passati alla complessa realizzazione della pellicola, costata peraltro cifre colossali.

Lo scenografo Mario Chiari ha dovuto, ad esempio, realizzare in studio centinaia di piccole figure in cartapesta e in stagno, interi villaggi indigeni e modellini di città altamente particolareggiate.

King Kong è stato materialmente realizzato dal ferrarese Carlo Rambaldi: il gorillone è alto più di dodici metri, pesa tre tonnellate e mezzo e ha, nel suo interno, ben 944 metri di tubi di varie dimensioni e 1371 metri di cavi elettrici. Soltanto per il pelo che ricopre il suo corpo sono occorsi 459 chilogrammi di crine di cavallo e speciali pelli d’orso, per una spesa complessiva di settanta milioni di lire. Sono stati realizzati anche il viso a grandezza naturale, un braccio e una parte del corpo (in alcune scene, in lontananza, Kong è stato impersonato da un uomo che indossava un travestimento). Un altro dato significativo si riferisce alla palizzata che separa il regno del gigantesco scimmione dal resto dell’isola: si tratta di un recinto lungo più di 120 metri e alto più di 15.

Una spedizione parte verso una semisconosciuta isola tropicale per conto di una compagnia petrolifera. Durante il viaggio, la nave incrocia una scialuppa a bordo della quale si trova una giovane ragazza bionda, Dawn (Jessica Lange), unica superstite di un naufragio; in più a bordo risulta esservi un clandestino: prima della partenza, è salito nascostamente un giovane paleontologo, Jack Prescott (Jeff Bridges) che vuole raggiungere l’isola per scopo di studio e per verificare strane, misteriose leggende che circolano attorno ad essa. Il vero scopo della spedizione è quella di controllare l’esistenza di un giacimento di greggio, eventuale futura fonte di sfruttamento per la società petrolifera.

L’isola appare alla fine circondata da un manto di nebbia; mentre una motobarca si avvicina il fitto velo si alza e si rivela la costa. Inoltratisi all’interno, gli esploratori giungono ben presto davanti a una immensa palizzata che sembra dividere in due l’isola, e assistono a una strana cerimonia propiziatoria da parte degli indigeni del luogo che, sopra un baldacchino, trasportano una giovane donna, mentre un altro, travestito da scimmia, le balla dinanzi. Accortisi della presenza dei bianchi, gli indigeni pretendono la bella naufraga per il loro rito; gli esploratori rifiutano e tornano sulla nave.

Durante la notte i nativi rapiscono la ragazza, la drogano, la vestono per la cerimonia e la conducono oltre l’immenso portale, legandola a una specie di ara sacrificale. Il gigantesco scimmione arriva, la prende in mano e la porta via. Una spedizione guidata dal paleontologo si lancia all’inseguimento, ma solo questi riesce a raggiungere la ragazza: tutti gli altri sono scaraventati, dal gorillone Kong, in un precipizio; un secondo superstite torna indietro per cercare aiuto.

Kong tratta con delicatezza la sua preda: la lava sotto una cascata, l’asciuga con il suo alito e, la sera, la porta vicino a due enormi pinnacoli di roccia e comincia a spogliarla, realizzando così, almeno in parte, quella famosa scena che nel 1933 fu girata, ma tagliata dalla censura. L’arrivo di un gigantesco serpente distrae Kong e permette il salvataggio della ragazza da parte del paleontologo. Eliminato il nemico lo scimmione parte alla ricerca della sua preda, insegue i due fin oltre la palizzata, ma cade in una profonda buca colma di gas soporifero, opportunamente preparata.

Così addormentato è caricato e portato – all’interno di una nave cisterna – a New York per essere esposto alla curiosità del pubblico. Durante la prima apparizione, però, credendo che si voglia nuocere alla sua amata, Kong si libera e imperversa per le vie della città, riconquista la ragazza e, con essa, sale sopra l’alto complesso del World Trade Center, che gli ricorda i due alti pinnacoli della sua isola, scena ormai diventata ancora più storica dopo l’abbattimento delle due torri. Elicotteri armati cercano d’intercettarlo: per evitare che la ragazza sia colpita, Kong la adagia delicatamente al suolo e la allontana. È ormai un facile bersaglio e il suo corpo è crivellato di proiettili esplosivi. Kong riesce ugualmente ad abbattere due dei tre elicotteri, poi precipita dall’alto del grattacielo. Con un ultimo sguardo alla sua amata, muore.

La moderna trasposizione diretta da John Guillermin, come si vede, punta più sul sentimentale rispetto alla versione del 1933 e s’inserisce nell’attuale moda dei film spettacolari e catastrofici. È scontato che, almeno in apparenza, la seconda versione surclassi il suo predecessore dal punto di vista tecnico, ma senza volere nulla togliere alla poderosa opera di Carlo Rambaldi, vogliamo ricordare l’infinita pazienza e il lavoro di cesello che Willis O’Brien e i suoi collaboratori profusero per muovere fotogramma per fotogramma il primo King Kong. Nella versione del ‘33, infatti, non fu mai usato un attore o una comparsa, malgrado sia stato detto il contrario, ma sempre e solo dei modelli. In questa seconda versione, come si è già accennato, Rick Baker spesso vestiva i panni del gorillone, tanto è vero che lo stesso produttore Dino De Laurentiis ha chiesto che King Kong potesse presentarsi candidato all’Oscar nella categoria Miglior Attore. Il direttore dell’Accademia delle Arti Cinematografiche, James M. Roberts, ha opposto un rifiuto replicando che il gorilla deve essere considerato un effetto speciale.

A questo proposito è bene ricordare che, almeno da quanto è stato riportato da autorevoli fonti, il modello di dodici metri sarebbe stato usato solamente nelle scene del gorilla “imprigionato” e nella scena finale. Nei suoi espressivi primi piani era usato il gigantesco mascherone costruito da Rambaldi; mentre, per tutte le altre scene, si è trattato di un attore che si muove in mezzo a modellini che, anche se ben realizzati, sminuiscono in definitiva la mole di lavoro svolta.

È chiaro comunque che le differenze fra le due versioni non sono soltanto tecniche: mentre il film di E. B. Schoedsack trasuda, per così dire, erotismo da ogni scena, qui siamo di fronte più a una favola per bambini; nel primo King Kong, ogni immagine del mondo in cui il gigantesco scimmione viveva può essere considerata un quadro, un momento fermato di vita primitiva: qui, invece, non è che una ricca raccolta di colorate immagini. Insomma, si ha l’impressione di assistere a un gigantesco spettacolo commerciale e, in questo, i risultati concreti hanno dato ragione al fiuto del produttore: ma tutto il nostro affetto resta per il primo, unico, e ineguagliabile King Kong.

(1 – continua)

Giovanni Mongini