TORNA LA HAMMER, ARRIVA “THE WOMAN IN BLACK”

Debutterà nelle sale cinematografiche di tutta Italia dal 2 marzo, distribuito da Videa CDE, il film “The woman in black” di James Watkins che vedrà per la prima volta sul grande schermo Daniel Radcliffe in un nuovo ruolo dopo aver terminato la saga di Harry Potter, che per dieci anni lo ha tenuto impegnato.

Tratto dal famoso romanzo di Susan Hill, “The woman in black” è un’oscura storia di perdita, vendetta e lutto. L’acclamata sceneggiatrice Jane Goldman (“Stardust”, “Kick-ass”, “X-Men: l’inizio”) porta sullo schermo la storia della Hill adattandola per un pubblico del XXI secolo. Diretto da James Watkins e interpretato, oltre che da Daniel Radcliffe, anche da Ciarán Hinds, Janet McTeer e Liz White, il film è una produzione Talisman in associazione con Exclusive Media Group.

Quando, nel 1982, Susan Hill pubblicò il romanzo omonimo, non avrebbe mai immaginato che avrebbe suscitato così tanto interesse nei media. Dice la Hill: “Tu non scrivi per gli altri media. Tu scrivi soltanto un libro e poi gli altri se ne interessano”. È abituata a vedere i suoi lavori adattati, specialmente questo “The woman in black”, che è diventato negli anni un film per la TV, una serie radiofonica, un’opera teatrale e ora anche un film per il grande schermo.

“Il punto è che il libro è rimasto integro”, ha detto la Hill. “È l’arte dell’adattamento, che io non potrei mai fare. Con l’opera teatrale e ora con il film, chiunque abbia preso il mio libro gli è rimasto fedele nello spirito, nonostante dovesse reinterpretarlo per il differente strumento mediatico”.

È la prima volta che il romanzo della Hill – che risale a quasi trenta anni fa – è stato adattato per il grande schermo. Il progetto è partito dal produttore Richard Jackson, della Talisman Films, nel lontano 1997. A seguito del successo di “Rob Roy” della stessa casa di produzione, l’agente della Hills contattò Jackson per valutarne la possibilità di un adattamento per il grande schermo. “Confesso che mi era parsa una storia sorprendentemente complicata da adattare per il cinema”, disse. “Nel corso degli anni facemmo numerosi tentativi con diversi sceneggiatori per adattare la storia, ma non ero mai pienamente soddisfatto dei copioni che riuscivamo a ottenere”.

L’impulso iniziale che dette vita a questa produzione nacque durante una riunione con Simon Oakes, produttore, presidente e CEO della storica Hammer, che in quel periodo era in procinto di rilanciare. “Penso sia riduttivo dire che ero titubante nel pensare dove ci avrebbe portato tutto ciò, anche perché c’erano stati altri tentativi di riavviare la Hammer negli anni passati”, rivela Jackson. “Ma Simon ci fece capire che erano molto determinati e che c’era un livello di ambizione tale da assicurarci che avremmo realizzato un film di alta qualità, nel rispetto dello stile narrativo di Susan, e che, al tempo stesso, avrebbe attratto un pubblico contemporaneo”. “Fin dall’inizio Simon fu sempre molto chiaro con me sul fatto che la rinascita della Hammer avrebbe puntato su film horror di un certo livello”, continua Jackson, “e io sapevo che sarebbe stato qualcosa a cui anche Susan avrebbe risposto positivamente”.

Per Simon Oakes, “The woman in black” era il lavoro di maggior interesse a cui ci si rivolgeva la rinata etichetta. “Una delle cose di cui discutevamo quando all’inizio abbiamo dato nuova vita alla Hammer, era che l’horror è fatto di molti generi e sotto-generi, ma che recentemente la tendenza andava verso il “body count horror” (ovvero il numero delle vittime)”, spiega. “Noi invece volevamo esplorare un tipo differente di horror, e nonostante fossero stati realizzati un film per la TV e un’opera teatrale, vedevamo in “The woman in black” una grande opportunità di abbinare la ghost story di Susan Hill con un gusto moderno e realizzare un lungometraggio”.

La produzione si mise così alla ricerca di uno sceneggiatore che fosse in grado di superare gli ostacoli incontrati da quelli che avevano intrapreso lo stesso compito negli anni precedenti. “Ritenevamo che Jane Goldman fosse la persona adatta per questo lavoro”, dice Jackson. “E lei fu entusiasta fin dall’inizio. Era in grado di superare e risolvere il nodo centrale nel modo di raccontare la storia per il cinema”. Oakes dice: “Avevo letto di Jane e conoscevo il suo lavoro, e sapevo che sarebbe stata la persona giusta per questo. La sua sceneggiatura mise ogni cosa al suo posto. James Watkins, il regista, la lesse e gli piacque. Daniel Radcliffe la lesse proprio dopo aver ultimato Harry Potter e gli piacque. Jane svolse un ruolo importante nel coinvolgere le persone giuste”.

Susan Hill afferma di essere stata entusiasta del risultato: “Quando Jane mi spedì il copione lo lessi e dissi: Sì, va bene… ma… ma è spaventoso!! Jane penso credesse che avrei potuto sentirmi offesa per alcuni cambiamenti che aveva apportato alla mia storia, ma non era questo che avrebbe potuto crearmi preoccupazione. Mi sarei preoccupata se l’avesse trasformata in qualcosa di simile a una commedia, ma non fu così. Era stata estremamente abile. Era riuscita a renderla sua pur continuando a farla essere mia”.

La Goldman dal canto suo era preoccupata di non riuscire a trovare il tono giusto nello scrivere la sceneggiatura: “È difficile” È un magnifico romanzo, ed ha avuto un brillante adattamento, estremamente riuscito per il teatro. Penso sia sempre stato evidente che per funzionare al cinema avrebbe avuto bisogno di livelli aggiuntivi”. E aggiunge: “Per me si trattava di presentare “The woman in black” a un pubblico interessato al cinema. In un certo senso stavo cercando di fare in un linguaggio cinematografico ciò che Stephen Mallatratt aveva fatto per il teatro”.

Casualmente, nello stesso momento, James Watkins, regista di “Eden Lake”, aveva letto sulla stampa specializzata che Jane Goldman stava scrivendo la sceneggiatura e chiese al suo agente di informarsi sul progetto. “Stavo lavorando su una mia storia di fantasmi, ma non riuscivo a farla funzionare”, spiega Watkins. “Quando lessi il copione di Jane parlava di tutto quello che io volevo ottenere con l’altro progetto: c’era una sensazione di terrore ma possedeva anche un elemento emozionale. Mi commosse veramente e non appena lo lessi mi resi conto che volevo realizzarlo”.

“James è un giovane molto intelligente”, dice Simon Oakes. “È un grande regista che sa come raccontare una storia e al tempo stesso come renderla spaventosa”. Watkins ha un atteggiamento rilassato sul set, secondo l’attrice Liz White, che interpreta la spettrale Donna in Nero del titolo. “Ho provato la parte per circa due mesi prima di girare e da quel primo incontro James è stato davvero cordiale”, dice. “Ed è rimasto tale per tutto il periodo delle riprese. Mi sono sempre sentita la benvenuta nella famiglia di “The woman in black”.

Lavorando con Watkins, Jane Goldman ha cominciato un processo di perfezionamento del copione; un processo che lei ritiene abbia aiutato a conservare integro lo spirito del romanzo di Susan Hill. “Nelle prime bozze c’erano numerosi flashback che riguardavano la Donna”, rivela, “ma noi siamo stati in grado di risolvere questo meccanismo di continuo richiamo al passato. E proprio per questo ritengo sia molto più efficace: non c’è un’origine letteraria americana su come “The woman in black” sia diventata “The woman in black”. Non è Freddy Krueger! È piuttosto l’esperienza di Arthur che scopre questi orrendi segreti e il nostro scoprire quello che è accaduto attraverso i suoi occhi”.

Per il produttore Richard Jackson era inoltre importante che il film fosse accessibile a un pubblico generalmente restio ad apprezzare questo genere: “Noi stiamo cercando di assicurarci che il pubblico che vuole andarlo a vedere considererà “The woman in black” come un film di prima scelta perché fatto bene al punto tale da attirarli, a prescindere dal fatto che essi siano generalmente interessati agli horror. E che un più vasto pubblico, invogliato dalla presenza della star Daniel Radcliffe, sia incoraggiato a comprare il biglietto e godersi il film”.

Per l’assegnazione del ruolo del protagonista del film, Arthur Kipps, il regista James Watkins, ha individuato un giovane attore con il talento necessario a trasferire sullo schermo una giusta combinazione di tristezza e vulnerabilità. Per Watkins, Daniel Radcliffe, meglio conosciuto per il suo ruolo nella serie di grande successo Harry Potter, era una scelta ovvia. “Ho incontrato Dan e abbiamo parlato a lungo ed entrambi abbiamo visto il personaggio nello stesso modo”, ci spiega. “Arthur Kipps è una parte molto complessa da interpretare per Dan, una zona molto più oscura per lui da esplorare”.

Jane Goldman era stata coinvolta nel processo di adattamento per il cinema del romanzo della Hill molto prima che Radcliffe venisse scelto per la parte. “Io avevo sempre immaginato Arthur come un giovane”, dice lei, “sia per l’epoca in cui è ambientata la storia, sia per la sua posizione sociale”.

“I pianeti si allinearono davvero, nel senso di far arrivare il copione a Dan”, dice il produttore Richard Jackson. “Lo lesse, non appena lo ebbe ricevuto, durante un volo per gli Stati Uniti, e quando scese dall’aereo, telefonò ai suoi agenti e disse che voleva fare il film”. Per la sua parte, Radcliffe sentiva il bisogno di liberarsi dall’immagine del maghetto di Harry Potter, che lo ha reso famoso. “Io sono molto, molto fiero di Potter,” dice Radcliffe. “Ma ora devo dimostrare alla gente che sono un professionista e penso che il modo migliore per farlo sia cominciare con la scelta di materiale interessante”.

La sceneggiatura della Goldman e l’incontro con Watkins furono sufficienti a convincere il giovane attore che Arthur Kipps sarebbe stata la sfida giusta da accettare. “Arthur è così complesso ma in lui c’è anche una particolare serenità”, osserva Radcliffe. “Era molto interessante avere la possibilità di interpretare un personaggio così”. L’opportunità di recitare in una ghost story ambientata nell’epoca vittoriana, era allettante. “La prima volta che incontrai James, lui menzionò una citazione di Kubrick secondo cui tutti i film con eventi soprannaturali sono di per se stessi consolatori perché implicano la possibilità di una vita dopo la morte,” mi spiegava. “All’improvviso ecco questo ragazzo che ha perso la moglie, che arriva in questa casa e comincia a cercare il fantasma di una donna morta. La ragione per cui rimane in quel luogo e tenta di trovarla, sta nel fatto che in lui c’è un desiderio nascosto, un impulso, a cercare una sorta di conferma che sua moglie si trovi in un posto migliore”.

Per il regista James Watkins, Daniel Radcliffe rende più maturo il personaggio di Arthur Kipps e questo era esattamente quello che stava cercando. “Era così dedito al suo lavoro” spiega Watkins. “Lui ha riposto molta fiducia in me e mi ha permesso di condurlo in nuovi ambiti per quanto riguarda il ruolo e la recitazione. Penso che abbia davvero scavato ed esplorato alcuni aspetti della sua stessa personalità e si sia spinto come attore verso nuove direzioni”. Watkins ritiene che il pubblico sarà sorpreso dalla trasformazione di Radcliffe per questo ruolo. “È una reinvenzione di Dan: Dan, l’attore-adulto”, ci dice. “Penso che la gente resterà proprio senza fiato quando lo vedrà”. “Non penso di aver mai visto qualcuno buttarsi così totalmente in un lavoro”, dice Jane Goldman parlando dell’etica di lavoro di Radcliffe. “Ci siamo incontrati alcune volte nelle fasi iniziali per parlare del personaggio, e lui era entusiasta di dare tutto ciò che aveva”.

Quando Susan Hill sentì che Radcliffe era stato scelto per il ruolo, era entusiasta. “Non ho mai letto i libri di Harry Potter, né ho mai visto i film”, dice. “Ma sapevo chi era Daniel – non potevi non saperlo – e nel momento in cui lo conobbi mi resi conto che era quello giusto”. La Hill pensa che il pubblico sarà sorpreso dalla maturità che lui mostra nel ruolo di Arthur Kipps, giovane avvocato e padre. “Non penso che avremmo potuto trovare qualcuno migliore di lui, veramente”. E aggiunge: “Daniel ha detto in un’intervista che questo non è solo un horror pauroso. È anche lutto e sofferenza ed è ciò che accade alla gente. E ha ragione. È un elemento importante e lui lo ha colto. Lo ha compreso”.

Radcliffe descrive Arthur Kipps come un uomo “talmente distrutto dalla morte della moglie che ha trovato quasi impossibile vivere in questo mondo negli ultimi quattro anni”. Continua: “Arthur è incapace di comunicare con le persone, particolarmente con suo figlio. Lui lo ama, ma non è stato presente per lui come avrebbe dovuto. Non è stato in grado di dargli un’infanzia felice finora, perché non ha la capacità di essere felice”. Radcliffe ritiene la prima apparizione di Kipps nella sceneggiatura di Jane Goldman particolarmente indicativa del suo stato mentale. “Quando lo incontriamo all’inizio, lui è effettivamente un uomo in erba”, ci spiega. “La prima volta che lo vedi si è procurato un taglio con il rasoio sulla gola. Succede mentre si sta radendo, ma io ho sempre pensato che lui stava lì, in piedi, considerando la possibilità di uccidersi”. Per Radcliffe, la particolare sfida nell’interpretare il ruolo di Arthur è stata la peculiare tranquillità del personaggio. “Ci sono dei momenti in cui non dovresti essere sicuro di cosa sta pensando Arthur”, dice. “Sai che probabilmente non si tratta di pensieri felici, ma non sai il perché, o cosa passi esattamente nella sua mente. Questo gli consente di avere più spazio per relazionarsi con il pubblico che può supporre le sue emozioni. Penso che l’ambiguità lasci spazio alle emozioni”. “Lui davvero si cala nel personaggio”, dice James Watkins, riferendosi all’impegno di Radcliffe nella parte.” Eravamo arrivati al punto che eravamo talmente in sintonia che davo solo piccolissimi suggerimenti. Lui, in realtà, alla fine non aveva bisogno di alcuna guida. Aveva compreso esattamente chi era il personaggio e lo viveva realmente”.

Watkins sa bene che entusiasmarsi troppo per l’attore principale è un’impostazione comune, ma nel caso di Radcliffe, dice che è giusto: “È stata una grande gioia lavorare con lui”, rivela. “Lo so che le persone lo dicono sempre, e che raccontano parecchie bugie, ma in questo caso è vero!”.

Radcliffe dal canto suo dice che è responsabilità di un attore principale aiutare a rendere serena l’atmosfera di un set. “Ho visto set di film dove gli attori creano problemi e sono insoddisfatti”, ci confida, “e questo diffonde malumore. Ma a me piace stare sul set e amo il mio lavoro”.

Oltre a Radcliffe, il cast del film ha una varietà di attori tra cui Ciarán Hinds, Janet McTeer e Shaun Dooley, nel ruolo degli abitanti del sinistro villaggio di Crythin Gifford. “Con Karen Lindsay-Stewart, responsabile del casting, avevamo deciso di descrivere in maniera realistica gli abitanti del villaggio”, ci rivela James Watkins. “Non volevamo sottolineare la diversità rurale. Non volevamo che essi fossero dei bifolchi e non volevamo che sembrasse di passeggiare a Slaughtered Ram. Volevamo percepire la sofferenza per le loro perdite e la paura che caratterizzava i loro comportamenti”. Inoltre era importante che ogni personaggio avesse un suo ben definito percorso da seguire. Watkins dice in merito: “Mentre li sceglievamo facemmo con Jane delle prove, cercando di scoprire questi ruoli un po’ per volta. Volevo che ogni personaggio avesse veramente una piccola storia da raccontare”. Watkins era entusiasta per l’insieme che si era formato. ”Come regista talvolta è fantastico, perché ti chiedi, “Chi mi piace come attore che potrebbe essere adatto per questo ruolo?”. Mi piace Ciaràn Hinds come attore, mi piaceva da molto tempo e pensavo che fosse perfetto”. A interpretare il ruolo del giovane figlio di Arthur Kipp è Misha Handley, che è effettivamente figlioccio di Daniel Radcliffe nella vita reale. “Noi abbiamo visto moltissimi bambini per la parte del figlio, ma Dan e Misha avevano davvero un forte legame e io penso che questo si avverta realmente nel film”, aggiunge Watkins. “Misha è uno dei giovani attori più autentici che abbia mai visto”. Uno dei cambiamenti apportati alla storia originale dalla Goldman è proprio la precoce presentazione del figlio di Kipp, che nel romanzo nasce dopo il suo rientro a Londra da Crythin Gifford. Nella sceneggiatura appare invece già nelle scene di apertura e la battaglia interiore di Kipp per la separazione da Joseph, durante il periodo in cui rimane a Crythin Gifford, diventa un punto chiave della trama, che aggiunge un ulteriore senso di inquietudine quando il giovane avvocato apprende i segreti di questo strano villaggio. “Noi volevamo che questo elemento fosse presente per tutto il film”, spiega Watkins. “È fondamentale per comprendere ciò che guida Arthur. Come con la perdita della moglie; volevo esplorare la natura del suo lutto e non semplicemente usarlo come un’astrazione”.

“Il romanzo funziona magnificamente perché è nello stile di una classica ghost story in epoca vittoriana, dove non ti poni il genere di domande che ti faresti quando vedi un film”, spiega Jane Goldman. “Perché Arthur non lascia il villaggio immediatamente?” Ci sono convenzioni cinematografiche che avevamo bisogno di indirizzare. Era fondamentale rispondere a domande su che cosa influenzi questo personaggio e perché è così importante per lui rimanere nel villaggio”. Sebbene il romanzo di Susan Hill – ed anche il suo adattamento da parte di Jane Goldman – racconti la storia di “The woman in black” nella celebre tradizione delle ghost story nell’epoca vittoriana, per la Goldman trovare il fulcro del film comportò la ricerca di alcune fonti cinematografiche alternative. “La storia è tremendamente paurosa e al tempo stesso colma di una reale, commovente profondità emotiva”, aggiunge. “E nell’adattamento ho fatto riferimento ad alcuni dei migliori esempi di J-Horror degli ultimi anni”. Il genere horror giapponese soprannominato J-Horror e reso popolare da film come “The Ring” e “The Grudge”, ha molto in comune con le classiche ghost story vittoriane”, dice la Goldman. “Queste sono spesso devastanti per quanto riguarda la sfera dei sentimenti, ma sono anche puramente paurose. Le due cose non si escludono a vicenda. In Giappone c’è un enorme interesse per la cultura dell’epoca vittoriana, ed era curioso vedere che quei film mantenevano questo equilibrio”.

Per James Watkins, realizzare un film di ambientazione storica era un’interessante contraddizione. “Intrecciarlo con il mondo dell’horror è stato molto interessante e attuale”, ci spiega. “Ho parlato a lungo con Tim Maurice-Jones del linguaggio dell’intero film. Non volevo che apparisse come un’opera d’epoca. Volevo girarlo con un linguaggio molto moderno, nel modo in cui si muoveva la telecamera, nel modo in cui decidevamo le scene e “la mise-en scene” dell’intero lavoro”.

Per quanto riguarda l’ambientazione, nel definire l’aspetto di Eel Marsh House, la casa in cui si svolge la storia, isolata dal resto del villaggio di Crythin Gifford da una strada rialzata, resa impercorribile dall’alta marea, Watkins non voleva usare lo stereotipo della solita casa. “Volevo che desse un senso di decadimento, ma non volevo usare il solito cliché monocromatico”, dice. “Con il responsabile del dipartimento artistico Kave Quinn, ha cercato invece di fare uso di una ricca varietà di colori, che ha dato come risultato un aspetto decisamente molto più saturo di quello che la consuetudine suggerirebbe. Il film ha un look molto ricco”, continua Watkins. “Noi abbiamo questi tipi di colori lividi. I colori del decadimento e della morte: viola, nero e un intenso rosso cremisi. Volevo che trasparisse quella sensazione di bellezza della casa. Allo stesso tempo, si tratta di una casa infestata dai fantasmi, deve avere crepe e ripostigli e fessure e spazi bui”. L’illuminazione poi in questi casi è una delle cose più importanti. Quinn spiega che il procedimento di creazione di Eel Marsh House è cominciato con la ricerca della location per gli esterni. “All’inizio del film, avevamo un fantastico “location manager” che era alla ricerca della casa giusta”, dice. “C’era bisogno di trovarne una con personalità tale che appena la vedevi sapevi che era in sintonia con il film. Quando vedi la casa che abbiamo trovato sembra quasi che ti guardi. Si tratta di un edificio giacobino e il timpano gli conferisce un incredibile aspetto satanico”. Trovata la casa, Quinn si incontrò con Watkins per mettere a punto i disegni degli interni basati sulla bozza degli esterni: “Ho raccolto un sacco di materiale di ricerca su cose come scalinate e rivestimenti a pannelli, e ho capito in che modo avrei dovuto usare i colori. Abbiamo usato gradazioni di viola scuro e verde-muffa per dare un senso di decadimento”.

Trovare poi un luogo reale che rappresentasse lo strano villaggio di Crythin Gifford era una sfida ancora maggiore. “Nel XXI Secolo, ovviamente, qualunque posto avessimo cercato, sarebbe stato caotico, pieno di macchine, di segnali stradali e di palazzi moderni che bisognava nascondere”, spiega Quinn. “Volevamo trovare un qualcosa che fosse rimasto pressoché incontaminato dal tempo. E il villaggio che trovammo, Halton Gill, era proprio al centro dello Yorkshire Dales, fuori da ogni rotta comune e tutte le case avevano mantenuto la loro struttura originale da circa 400 anni”.

Il direttore della fotografia Tim Maurice-Jones dice che la prima direttiva che ha ricevuto da Watkins per definire il look del film è stata una semplice parola: “contrasto”. “Abbiamo cercato di illuminare il set con una sola fonte di luce”, spiega Maurice-Jones. “Molti film utilizzano una luce principale per illuminare il viso, una luce morbida per illuminare qualsiasi ombra rimasta, e una luce posteriore che le metta in risalto sullo sfondo. Noi abbiamo cercato di usare luce e ombra per ottenere questo contrasto soltanto con una singola fonte di illuminazione”. Watkins inoltre ha scelto di giocare con le convenzioni basilari della cinematografia per aggiungere quell’inquietante senso di terrore che incombe sulla storia. “Abbiamo fatto il possibile per andare leggermente fuori equilibrio”, ci rivela. “Ho girato con vari frame rate e tempi dell’otturatore per ottenere un montaggio discontinuo e intermittente. Senza essere superficiali – non lo sopporterei – ma qualsiasi cosa serva a raccontare la storia onestamente, questo è il punto per me, va bene. Non necessariamente bisogna applicare le regole ed è interessante avere quella libertà di esplorare”.

“Siamo stati molto ben organizzati sotto questo aspetto”, concorda l’addetto al montaggio Jon Harris, “James è grandioso nell’uscirsene con idee per rendere la situazione un po’ più raccapricciante. È un continuo avanti e indietro tra di noi. Mettiamo insieme le cose e vediamo quello che funziona, poi se lui è ancora sullo stesso set può aggiungere qualcosa oppure inserire quell’idea in un’altra scena”. “Cerchiamo di ottenere qualcosa di simile alla visione periferica”, continua. “Sebbene io non creda ai fantasmi, ogni volta che vado in una vecchia casa si vedono cose muoversi nella visione periferica. Abbiamo parlato a lungo su come riuscire a replicare questo nel film, perché tu puoi cercare di far vedere al pubblico una cosa, ma lui guarderà dovunque voglia”.

Watkins descrive il suo rapporto con Harris come qualcosa di incredibilmente collaborativo. La coppia ha lavorato insieme nel film debutto di Watkins, “Eden Lake” e nel film “The Descent: parte 2” dove Harris ha debuttato come regista e Watkins ha collaborato nella sceneggiatura. “Jon ha avuto una grossa parte anche nella fase di pre-montaggio del film”, ci rivela. “Lui ha girato Second Unit e ha collaborato in larga parte alla creazione del copione con me e Jane.

Harris dice: “Entrambi sappiamo di cosa abbiamo bisogno durante un film, io lavoro al montaggio durante la produzione e do un’occhiata a quello che è stato girato e alla lista delle scene in post-produzione per essere sicuro che abbiamo ottenuto quello di cui abbiamo bisogno”.

L’attrice Liz White,che, lo ricordiamo, interpreta la spettrale Donna in Nero del titolo, prova compassione per il personaggio di “The woman in black”: “Quando leggi la storia ti senti realmente coinvolta per la perdita di suo figlio e per il dolore che ciò le ha causato”, ci dice. “Lei aveva perso la fiducia di sua sorella, di suo padre, di suo cognato, e quindi vedere la sorella abbandonare il figlio è per lei l’ultimo strazio”. La White dice che l’abbigliamento e il trucco aiutano a entrare nel personaggio. “Ti senti immediatamente distaccata da chiunque altro”, rivela. “Non puoi guardare negli occhi le persone e le persone non ti guardano direttamente. Improvvisamente ti senti come se fossi parte del suo mondo”. “È stato meraviglioso interpretare quel ruolo, perché potevo usare l’immaginazione e i miei sentimenti interiori. Questa è una gioia per un attore”. Il costumista Keith Madden ha trascorso molto tempo nella ricerca di abbigliamento per il lutto usato nell’epoca vittoriana, per trovare il giusto aspetto per “The woman in black” .“È molto strano per noi vedere questo genere di cose. Nell’epoca vittoriana, se una donna perdeva il marito o il figlio, era questo il modo in cui doveva apparire. Volevo che la Donna avesse l’aspetto di una sposa addolorata. Lei era completamente velata. A quel tempo la stoffa che veniva usata era il crespo, che risultava piatto e cadente. Ma questo non dava un bell’effetto nell’inquadratura, e allora abbiamo messo delle stecche e reso la stoffa più gonfia così da acquistare volume. Questo le ha dato una forma migliore e una bella silhouette”. “Era fondamentale che nessuna parte del corpo rimanesse scoperta”, aggiunge. “Le parti vulnerabili come i polsi, nello spazio che intercorre dal guanto alla manica, e la parte posteriore del collo non volevamo che si vedessero. Volevamo focalizzare l’attenzione sul volto, tanto da suscitare subito tristezza”. Un particolare dettaglio dell’abbigliamento creato da Madden è il velo nero della Donna, che le cade sul viso come a formare un’incrinatura sulla sua pelle. Madden riferisce che questo effetto è stato ottenuto casualmente. “Si stava lavorando con la stoffa, e non ero sicuro come dovesse apparire il volto”, dice. “Volevo nasconderlo mettendo un semplice velo molto vicino. Quando legai il nastro al di sotto si formarono delle pieghe, simili a lacrime o rughe, sulla sua pelle. Abbinato al trucco di Jeremy, tutto questo funzionava molto bene”. Jeremy Woodhead, parrucchiere e truccatore, dice che lavorare su un personaggio così  complesso, oscuro e spaventoso come “The woman in black”, è “un gran divertimento. L’aspetto, più che bello, doveva essere appropriato. Stai creando qualcosa dove il trucco è davvero importante per definire il personaggio. Ovviamente è un fantasma, ma non volevamo avere la solita immagine dello spettro. È rinsecchita, la sua pelle è avvizzita e rovinata, ed è stata corrosa dal tempo. Questo aggiunge angoscia al personaggio. Era importante non fare di lei un mostro. È una persona che ha fatto degli errori ed è estremamente infelice, ma che un tempo era stata anche bella”. Non è stato un procedimento veloce trasformare la White nella Donna: “Normalmente io mi presento circa una o due ore prima della convocazione per cominciare il trucco”, ha detto l’attrice in proposito. “Ci vogliono due ore per applicarlo, di base si utilizzano tre strati di una sostanza appiccicosa che si attacca sul viso, e questa sostanza chimica gelatinosa e maleodorante si applica in vari punti. Lei è stata nella terra, e quindi ha cominciato a decomporsi”.

Uno dei modi in cui si manifesta la peculiare presenza della Donna è nelle prime apparizioni in cui compare e scompare, fuori da una finestra o attraverso il vano della porta. Watkins ha girato molte riprese alternative riprendendo la Donna in maniera tale da lasciare un largo margine di sperimentazione per il montaggio. “Volevo una ghost story raffinata che desse un’idea di terrore e di angoscia, con un crescente senso di pericolo” spiega a tal proposito. “Non volevo qualcosa che provocasse uno spavento improvviso. Stai guardando la finestra e ti chiedi: c’è qualcosa là fuori? Ma riesci appena a intravederla. E questo per me è molto più terrificante”.

E se volete anche voi provare lo stesso terrore e vedere con i vostri occhi se James Watkins e la sua crew hanno fatto un buon lavoro, non vi resta che attendere il 2 marzo… intanto godetevi il trailer in anteprima!

Davide Longoni