ALLE SOGLIE DELL’INFERNO DI MARION WALLES

I CAPOLAVORI DELLA SERIE KKK CLASSICI DELL’ORRORE N. 103 – 5 AGOSTO 1968

Il 5 agosto del 1968 le Edizioni Periodici Italiani fanno uscire nelle edicole questo romanzo di Marion Walles (alias Laura Toscano). Dalla sinossi si capisce subito che l’autrice riprende da vicino la fosca vicenda della contessa sanguinaria ungherese Erzsébet Bàthory.

A mio avviso la Toscano deve avere nella mente la lettura del libro della scrittrice surrealista Valentine Penrose, uscito in Francia nel 1962. La Penrose ripercorreva le gesta della sanguinaria di Csejthe, utilizzando il resoconto del processo (ritrovato da un padre gesuita nel 1729). La Penrose, fin dalla premessa al suo magnifico lavoro, ci avvisa che le rovine del castello di Csejthe sono ridotte a un ammasso su uno sperone dei Piccoli Carpazi. In quelle rovine infestate, nelle cantine abitano i fantasmi e i vampiri del gotico. La Penrose narra le fosche vicende con uno stile surrealista, una prosa astrale piena di patiboli, mandragole, filtri d’amore, vizi solitari, ossessioni feticistiche, cavalcate notturne e silenzi a cui non siamo più abituati. La contessa Bàthory appare come un’ombra opalina bagnata dalla luce d’argento della luna, un triste babbuino melanconico, un pupazzo di sangue e narcisismo spinto al delitto da capriccio e gusto atavico di fanciulle sventrate. Le parole della Penrose sono candele traslucide sulla pagina, lontani giochi d’ombra di una donna moderna in un’epoca di cadaveri morenti e feriti, una donna che cede al più grande peccato della vanità: il voler essere bella senza fine.

La megalomania della Bàthory somiglia a quella d’una sacerdotessa achea fuori tempo, donna d’Egira che s’aggira per cripte della coscienza, in un mondo folklorico popolato di fattucchiere, radici di belladonna, fegati di animali e scorrere annebbiato di liquidi. I cortili di Csejthe si schiudono come pozzi insanguinati, inferni danteschi e sotterranei che hanno già la luttuosa tassonomia del gotico barocco. Attorno a Csejthe la visione allucinata di un’umanità povera, afflitta, degradata, ragazze senza dote pronte per il gerontocomio demoniaco della contessa.

Dicevo di una scrittura allucinogena, labile, ipnotica, infittita di papavero rosso e tenui stupefattivi personaggi di contorno che fluttuano in cima ad alti pali, tra cimiteri di campagna e bandiere contro i vampiri. E se Gilles de Rais non cessava di borbottare sul patibolo per i carmelitani di Nantes, Erzsébet scivola nel grigio mutismo della sua cella senza luce, con gli occhi colmi di fantasmi che si rigenerano a ogni nuovo racconto.

Nel ’68 la Toscano, probabilmente infiammata dal libro della scrittrice surrealista, si cimenta ancora una volta con la contessa: schiude il mondo sotterraneo del castello e racconta la medesima storia, in un girotondo che ricorda certi gotici di Margheriti. Anche la Toscano prova a sfoggiare una scrittura piena di echi, una miniaturizzazione di quella della Penrose; veloci ricostruzioni storiche e atmosferiche, frammenti colorati iridati di storie sussurrate a mezza voce dal popolino. Tra scene al chiaror di luna e corpi trascinati nei boschi, la Toscano si affida maggiormente ai personaggi di contorno, fedeli servitori d’incubo come un nano deforme, una vecchia strega, un mercante di bambole, in un puzzo che fermenta un gotico pulp e scaduto di grande effetto.

L’epoca è quella buia di un ultimo feudalesimo ove la contessa può divertirsi con le sue tenaglie d’argento sui corpi delle giovani contadine. La contessa è completamente nuda, le bacinelle lorde di sangue virginale. L’orgia di sangue riprende, senza soluzione di continuità, con un finale sospeso, che per una volta non chiude.

Tutto questo in pieno ’68, in un mondo che di castelli lugubri non vuol più sentir parlare.

Mentre il volumetto pulp esce nelle patrie edicole, il mondo è sul punto di cadere in preda del caos.

A New York e San Francisco i giovani se ne stanno sdraiati sui prati, indossano abiti eccentrici e variopinti da mendicanti; è il “flower power”, il mito di una “hippyland” cresciuta all’ombra di Thoreau e Huxley. La nuova gioventù cerca altro rispetto alla moneta falsa dei valori borghesi; Freud, Nepal, Mao, Trotzky si miscelano con un miscuglio di droga e ricerche metafisiche.

Intanto il lugubre castello di Csejthe se ne rimane arrampicato ferrigno e misterioso, nel suo liquore primigenio.

Davide Rosso