H. P. LOVECRAFT RETORE

Nel suo libro su Lovecraft (“H. P. Lovecraft contro il mondo contro la vita”), Houllebecq, che detto di passata firmò con quest’opera una delle sue cose più felici, una sorta di delizioso sonetto critico, afferma che “L’orrore soprannaturale nella letteratura delude un po’, e anzi, per dirla tutta si ha addirittura l’impressione di leggere un testo leggermente “datato”. E il motivo di quest’impressione è semplicissimo e balza subito agli occhi: il testo non tiene conto del contributo dato dallo stesso Lovecraft alla letteratura fantastica”. Troppo giusto, e paradossale fino al punto da strappare il sorriso: noi ci limiteremo soltanto ad aggiungere un senso ulteriore, se vogliamo più tradizionale e accademico, rispetto a quello che i numerosi commentatori dell’autore di “Alle montagne della follia” in genere adombrano nelle loro analisi. Per spiegarci meglio, partiamo dai protagonisti tipici delle sue opere: si tratta di individui di razza bianca (1), privi di caratteristiche specifiche dal punto di vista del carattere e della psicologia, impiegati in un’attività intellettuale (dallo studente allo scienziato, spazio nel quale possiamo senza dubbio collocare Lovecraft stesso), per nulla dotati dal punto di vista fisico (anzi perlopiù gracili e con problemi psicologici, altro che il Conan di Robert Howard!), né con tratti del carattere eroici… insomma niente più di fantocci che fanno tutt’uno con il solo loro ostinato “ricercare”. Ma cosa? In due parole, per amore o per forza, la realtà che la nostra esistenza quotidiana nasconde, una realtà raccapricciante: “La vita è una cosa orrenda; e sullo sfondo, dietro ciò che ne sappiamo, appaiono i baluginii di una verità demoniaca” (“Le vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia”). E’ come se fra me che sto tranquillamente scrivendo e voi che state altrettanto tranquillamente leggendo vi fosse di mezzo, che so, una sorta di rettile incredibile per dimensioni e spaventoso per fattezze e soprattutto intenzioni del quale dà una vaga idea soltanto l’urticante, fulminea e inattesa sequenza finale di “The Cloverfield Paradox”: siamo tranquilli soltanto perché trascorriamo i nostri giorni in una misericordiosa dimensione che ci permette di non vederlo, di non concepirne l’esistenza. Oppure: “A mio avviso, il favore più grande che il cielo ci ha reso è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che esso racchiude. Viviamo su un’isola di beata ignoranza posta al centro di neri oceani di infinito […] un giorno la sintesi di queste distinte conoscenze [le scienze] ci svelerà prospettive talmente terrificanti della realtà, e del posto che in essa occupiamo, da renderci pazzi di terrore” (“Il richiamo di Cthulhu”). Esattamente questo dà ai racconti di Lovecraft l’impronta horror che le è caratteristica, tutta sbilanciata verso una descrizione il più possibile “scientifica” di un intero universo completo di dèi (ma non alla maniera enciclopedico-pedantesca di un Tolkien e di altri perfetti demiurghi), la rappresentazione dei quali, com’è stato rilevato, ha effetti tanto terrificanti sulla pagina quanto poco persuasivi nelle loro pedisseque trasposizioni cinematografiche (a esclusione del solo “Dagon”, per quanto io ne sappia).

Se adesso torniamo alla formula utilizzata più sopra per caratterizzare il tipico personaggio lovecraftiano, un pupazzo forgiato esclusivamente dal desiderio di ricerca insito in lui per istinto come suo unico scopo vitale, possiamo trovarvi una, certo involontaria, metafora dell’attività del critico al suo più alto livello: il critico, cioè, che non si accontenta delle griglie storicamente determinate dalla sua epoca, o se vogliamo di volta in volta alla moda nel suo tempo (restando a noi, strutturalismo, formalismo, semiologia ecc. ecc.) per indagare ciò che sta sotto l’opera, ma utilizza per tale indagine la sua preparazione e il suo istinto culturale in forma integrale (pensiero associativo, analitico, sintetico e chi più ne ha più ne metta: in una parola, tutto se stesso). Il suo lavoro, proprio perché sperimentale, spesso lo porta ben oltre le interpretazioni più rassicuranti degli oggetti estetici che studia, e non di rado viene dileggiato come folle visionario per le sue analisi decisamente singolari. Di conseguenza, facciamo alcuni esempi molto tecnici, molto materiali, molto “folli” di “ciò che sta sotto”:

1.
utile in Mezzo
ai pAsseri
è la loRo
musiCa.
la Emanano a mezz’aria
evitando la coLlisione

***

il Disagio
non Usufruisce di
Controlli.
cHe io
Ascoltassi il medico
e Mi tagliassi i capelli
fu Proprio inutile.

2.

singhJozza
pAdre
imMane
in ciElo
è Segno

Judici
Oppure
deuteronomYo
ocChio
al divEnire

Oppure:

Apriti a me, tu, aurora di aghi ardenti:
Muta medusa, muscolo materno,
Ascoltami, arida aspide, e acconsenti:
Tremo con te, tremendo, tardo terno

I primi due esempi sono di John Cage, il terzo di Edoardo Sanguineti. Gli ultimi versi citati ripetono costantemente la stessa lettera nel medesimo verso: “a” nel primo, “m” nel secondo, di nuovo “a” e infine “t”… con essa inizia anche ciascun verso e l’indicazione della parola che suggerisce è: AMAT. Si tratta di un acrostico, un tipo di componimento poetico ben noto fin dall’antichità, all’origine della quale è impossibile non rinvenire una forma del messaggio segreto, cifrato (forse dell’universo?). Nei due casi iniziali, invece, ci troviamo di fronte a qualcosa di più complicato: un mesostico (“che sta nel mezzo”), neologismo di Cage; in sostanza, partendo da un certo testo dell’autore che si vuole celebrare, si tratta di ritrovare il suo nome e cognome in esso, scrivendo così contemporaneamente – quasi senza parere – una poesia. Nell’esempio 2., partendo dal “Finnegan’s Wake” di James Joyce, Cage ha trascritto per intero nome e cognome dell’autore utilizzando le lettere che lo compongono verticalmente rispetto alle parole che formano le frasi, seguendo regole particolari (che si perdono nella traduzione) e omettendo dei termini del romanzo secondo una decisione personale. Quel che importa a noi, tuttavia, è mostrare come, in entrambi gli autori, i testi – soprattutto nel secondo e nel terzo caso, costruiti soltanto parzialmente da Cage ma perlopiù rinvenuti in libri preesistenti – “nascondano materialmente una dimensione linguistica” (quella dell’acrostico o del mesostico) che appare al lettore dopo una più o meno complessa “ricerca”: tale dimensione (del testo, dell’universo) è il senso che corre occultato accanto a quelli che ci permettono di muoverci sfruttando l’abitudine e preservandoci con la sua invisibilità dall’avere consapevolezza di quanto sia allucinante, “rettiliana”, la realtà. Come ben sappiamo, infatti, il metaforico acrostico o mesostico lovecraftiano, a differenza degli altri, è terrorizzante per definizione. Insomma, il critico inventato dall’autore, a ogni suo racconto ci svela esclusivamente una retorica spaventosa (in tutte le sue possibili varianti) dell’esistente, come dimostra per altro verso questo esempio di horror politico (in antitesi alle idee di Lovecraft): “Il romanzo consta di quindici capitoli. Il primo comincia così: ‘Veniva la negra Petra…’; il secondo: ‘Indipendente, ma timida e sottomessa…’; il terzo: ‘Valoroso era Juan…’; il quarto: ‘Amorosa, gli gettò le braccia al collo…’. La censura insospettita non tardò a farsi sentire. Le prime lettere delle parole con cui inizia ogni capitolo formano un acrostico: VIVA ADOLF HITLER” (2)… E tuttavia queste atrocità non cessano, per essere tali, di segnalarsi meno come artifici retorici (3).

Gianfranco Galliano

NOTE

(1) HPL, a voler semplificare ma neppure troppo, nutriva più di una simpatia razzista, anche se la cosa va collocata nella “sua” epoca, nella quale per esempio – prima di Auschwitz – l’eugenetica era discussa come un fatto normale in qualunque comunità scientifica di qualunque nazione.

(2) R. Bolaño, “La letteratura nazista in America”.

(3) Fra le figure retoriche favorite di Lovecraft, naturalmente, è pressoché obbligatorio citare almeno di sfuggita la “reticenza dell’autore”, senza la quale il “Necronomicon” neppure esisterebbe. Letterariamente, s’intende.