NARDUCCI FILE

Il termine file (dalla lingua inglese, pronuncia [ˈfʌɪl], italianizzata in /ˈfail/, traducibile come “archivio” o “schedario”), in informatica, indica un contenitore di informazioni/dati in formato digitale, tipicamente presenti su un supporto digitale di memorizzazione opportunamente formattato in un determinato file system. Le informazioni scritte/codificate al suo interno sono leggibili solo tramite uno specifico software in grado di effettuare l’operazione.

Il fascicolo con l’intestazione della PROCURA DELLA REPUBBLICA, presso il tribunale di Firenze. Una fotocopia di un dattiloscritto, reperto analogico di un mondo scomparso, macchie d’inchiostro e caratteri traballanti. Il primo fascicolo è un lacerto di tale sig. Pasquini, investigatore sui generis che sembra uscito da un tardo thrilling anni ’80. Pasquini potrebbe essere un doppio del Gianni Arrosio argentiano, ultimo doppio del detective della porta accanto, incauto cercatore della verità a cui continua a sfuggire qualche particolare rivelatore. Pasquini si lascia coinvolgere nel labirinto del “Mostro di Firenze” da un colloquio con un conoscente umbro. I fatti risalgono al 1989. Il conoscente lo informò che nei corridoi del tribunale di Perugia circolava la voce che il mostro di Firenze non avrebbe più colpito perché si era suicidato. Le voci sono assai precise e individuano il presunto “mostro” in un giovane medico sposato con la figlia di un noto industriale perugino, e figlio di un noto primario. Si parla di Francesco Narducci, gastroenterologo morto annegato a soli 36 anni. Nel 1989 Pasquini lascia cadere la “voce”, poi nel 1993, vinto dalla curiosità, decide di mettersi a indagare.

Ed è qui che Pasquini indossa i panni di un Arrosio dimesso e marginale, votato alla sconfitta. Pasquini ricostruisce i dati salienti della vita di Narducci: genitori, moglie, titoli accademici e così via. “Nell’ambiente del Policlinico il fu Prof. Francesco viene ricordato come persona intelligentissima, bravo medico e docente analitico, attento ed ordinato, freddo, calcolatore, meticoloso, avveduto, individualista. Queste le sue caratteristiche psichiche”. Pasquini è metodico, non tralascia niente, si lascia andare anche a una descrizione incisiva dell’ombra che cerca di catturare. “Il prof. Francesco aveva una figura longilinea, era alto mt 1.86, fisico atletico e robusto, bravissimo nuotatore ed abile e disinvolto nello sci nautico. Si manteneva in forma ed efficienza fisica facendo ginnastica. Queste le sue caratteristiche fisiche.”. Le informazioni si susseguono velocemente, alternando particolari ininfluenti (“ha avuto storie con due infermiere del Policlinico”), con altri decisamente più sospetti (“si dice anche che il medesimo disponesse di un appartamento in Firenze o dintorni”). Pasquini, in quel 1993, deve girare parecchio attorno al Policlinico di Perugia: ricostruisce le auto possedute dal Narducci (una BMW nel 1976, poi una Fiat Ritmo Super, sembra di colore rosso, in seguito una Citroen BX azzurro metallizzato, immatricolata nel 1982; ci sono voci anche di una Alfa Romeo spider di colore rosso); il medico possedeva anche una motocicletta Honda Four Super Sport 400 Cc. Segue un dettaglio tanatologico. “Al cimitero Comunale di Perugia, il Prof. Francesco Maria Narducci è stato tumulato nella seconda tomba di sinistra, dal pavimento della Cappella di famiglia per chi la guarda dall’esterno. Tale cappella è contrassegnata dal n. 14 ed è ubicata nella zona dell’ampliamento del Cimitero, a Sud Est del medesimo, dietro il Forno Crematorio”. Seguono altri dettagli sconnessi. La moglie Francesca, quando il marito passava la notte fuori casa, aveva paura di rimanere sola. Di cosa aveva paura, si domanda Pasquini? Altre notizie senza riscontro: un casuale rinvenimento di reperti umani sottovetro nello scantinato della villa Narducci a San Feliciano da parte di due vigili del fuoco di Perugia, poco dopo il suicidio del gastroenterologo. Pasquini, nel corso delle sue ricerche, acquisisce sempre più la consapevolezza di trovarsi di fronte all’autore dei tanti omicidi fiorentini dal lontano 1974. Per l’investigatore dilettante Narducci è un ragioniere dell’orrore, freddo, astuto, metodico. “Il giorno 8 ottobre 1985, un mese esatto dopo lo stesso giorno del duplice omicidio della coppietta francese, il giorno 8 del mese, il medico chirurgo Francesco Maria Narducci di Perugia, si suicida lucidamente, senza un motivo ed una spiegazione logica”. Un dottor Jekyll e signor Hyde?

Lasciamo andare Pasquini/Arrosio. Mi è servito per iniziare questo breve viaggio al termine di una delle tante notti di tenebra italiana. Un viaggio popolato di cadaveri dalla doppia vita, strani annegamenti, logge massoniche, sette sataniche e altri ricordi della nostra storia recente. Ricordi che non ricorda più nessuno. In questo lungo anno di pandemia e lockdown il fantasma del lago Trasimeno è tornato a farmi visita, a tenermi compagnia. Non ho mai creduto che Francesco Narducci potesse avere a che fare coi delitti fiorentini, purtuttavia la sua vicenda, come tante altre, è ormai divenuta parte inestricabile di quel baratro della follia umana che si è aperto in questa nostra dimensione tra il ’74 e il settembre del 1985.

Scrivo in un paese chiuso, spostamenti vietati, cinema e teatri chiusi. La televisione manda immagini e messaggi di un mondo sopraffatto dalla paura, voci lounge di virologi e talk-show di antipolitica col conduttore che apre la sua trasmissione con una messa cantata, con l’organo e manichini femminili con mascherine chirurgiche al posto del pubblico. Altri virologi apocalittici invocano nuovi scenari di morte, ma la gente è stufa, gli economisti del primo pomeriggio li invitano a passare la mano. Così, mentre il segretario del Partito Democratico scrive un tweet a sostegno del programma di Barbara D’Urso e Matteo Salvini invoca un cambio di passo, a Milano parte un’inchiesta contro le multinazionali del cibo a domicilio, contro lo sfruttamento dei fattorini, dei rider, uniche figure a sfrecciare sotto la pioggia, sotto la neve, al caldo, al freddo, nei giorni di lockdown, a rischiare la salute per una paga risibile, oltretutto sorvegliati, geolocalizzati e valutati da una fredda intelligenza artificiale. Che posto c’è per Narducci e la sua storia in questo presente? Credo nessuno. La sua ombra si aggira nella rete fitta dei campi, tra l’intrico della macchia padana.

In questi giorni di paura e rancori, ho conosciuto Greta. Me l’ha presentata un collega di scuola, Edoardo. Con un’altra collega volevo girare un cortometraggio thrilling, fare qualcosa per resistere a questa morsa soffocante, spezzare l’isolamento che da solo mi sono costruito in questi ultimi 10 anni. Troppi fantasmi risalgono i corridoi dell’oltremorte e la notte si radunano attorno al mio letto, mi osservano come una corte di sogni ipnagogici, immagini distillate di una nostalgia lontana, un desiderio di fuga da tutto questo. Un desiderio di morte? Un perpetuo bussare di cose represse, resurrezione di un passato che ho vissuto appena, da cui non riesco a staccarmi. Queste parole assomigliano a un brulichio di punti neri, dispersi brandelli di memoria. Ho conosciuto Greta in una pizzeria. Con me c’era una collega. Abbiamo parlato del corto che volevamo girare, le abbiamo fatto vedere sul cellulare un lavoro precedente. Lei ha letto un breve soggetto che avevo scritto. Una ragazza in un bosco, una chiesa sconsacrata, un manichino femminile avvolto nel sudario di un telo. Ombre anarchiche, in congiunzione, in parallasse della mia follia. Lei ascolta attenta, occhi scuri pieni di contorsioni mentali. La vedo mentre si infila degli occhiali neri dalla montatura spessa: mi ricorda il George Romero degli ultimi anni. I tatuaggi si muovono su di lei come schegge di un mosaico. Rune e altre forme risalgono fin sulle dita ossute, le unghie dipinte di rosso. I capelli sono una stella nera, lunghe ciocche, dreadlocks d’ossidiana. Non ricordo com’è vestita. Altre volte l’avrei vista con una maglietta nera e dei jeans chiari, o dei pantaloni patchwork e scarpette bianche da tennis. C’è in lei una grazia leggera, non calcolata, unita a un pensiero composto di idee occluse, contorte. Diventiamo amici. Ci frequentiamo con una certa regolarità. Greta divora film, studia cinema, filosofia, legge, dipinge collage sulle figure dei serial killer americani degli anni ’80. Il mostro di Firenze, Narducci e compagnia bella la interessano poco. Sotto il mento si è tatuata la firma di Ted Bundy. Quando parla di lui gli occhi le si infiammano, mi confessa la sua passione per i serial killer, i mutilatori di corpi, per le figurazioni stomachevoli del Terzo Reich. In lei c’è un nucleo feudale, un’introversione nascosta e protetta dai rattoppi colorati che le percorrono il corpo. Il viso magro e bello è presagio di cose lontanissime che solo lei conosce, imprecisabili usi sadici immaginati nelle ore in cui la notte sgocciola. Un giorno, in macchina, le chiedo con insistenza cose di lei, del suo passato, e la vedo bloccarsi, afflosciarsi come una bambola rotta dall’interno, il cuore e i pensieri chiusi in una voliera. Un altro giorno, più distesa, parliamo con meno catastrofismo delle nostre sceneggiate passate, di come siamo sopravvissuti fin qui, in questo tempo schiacciato e senza sbocchi. Il cortometraggio lo giriamo (con Edoardo e la collega) un bel pomeriggio di febbraio, in un limbo padano fatto di abbandono e oblio, tra le reliquie sfiorite della chiesa sconsacrata di Madonna delle Vigne, in metri cubi di pietra e pareti dipinte abbandonate nell’immondizia, in un inferno di memorie mummificate. Giriamo il nostro film decaduto e inutile. Passano i giorni. Greta lavora al montaggio del cortometraggio, vuole farlo musicare da un suo amico di Napoli che lavora nella musica e ha studiato in Giappone. Edoardo si occuperà dei suoni. Nel frattempo il fantasma di Narducci si agita nelle paludi della mia testa. Lo sento risalire lugubre in questa meta-storia fatta di non-senso e sociologia letteraria.

La terza ondata è arrivata. Sputnik, Pfifer, Moderna, AstraZeneca sono nomi quasi messianici. I programmi televisivi e i talk show ci inondano ancora di immagini terrificanti con ospedali pieni, ambulanze, malati intubati. Ancora un lockdown a spezzare l’imperativo assoluto dei consumi e del tempo libero. Nonostante la terza ondata, masse smodate e parossistiche di persone si accalcano disperate nel rito collettivo di un’apericena. Per tenermi occupato sfoglio la monumentale sentenza del 2010, cerco di isolare frammenti, particolari, sbrogliare la matassa, dare un ordine ai miei pensieri.

“Dalla notte del fine settimana del 14 e 15 settembre 1974 sino alla notte tra domenica 8 e il successivo lunedì 9 settembre 1985 (o, secondo altri tra il 7 e l’8), nelle campagne attorno a Firenze, ma anche nelle località di Calenzano, vicino a Prato, hanno luogo, come ho premesso, dei delitti terribili in danno di giovani, appartatisi in auto o, come nell’ultimo, in tenda: in tutto perdono la vita il 19enne Pasquale Gentilcore e la 18enne Stefania Pettini, il 30enne Giovanni Foggi e la 21enne Carmela De Nuccio, il 26enne Stefano Baldi e la 24enne Susanna Cambi, il 22enne Paolo Mainardi e la 19enne Antonella Migliorini, i 24enni Jens Uwe Rusch e Horst Wilheilm Meyer, il 21enne Claudio Stefanacci e la 18enne Pia Rontini, il 25enne Jean Michel Kraveitchvili e la 36enne Nadine Mauriot”.

Un mese esatto dopo l’ultimo (atroce) delitto del mostro, il pomeriggio di martedì 8 ottobre 1985, scompare nel Lago Trasimeno il 36enne medico perugino Francesco Narducci. Fin da subito la vox populi (non si sa mai chi sia a dire certe cose, gente senza faccia, morta da un pezzo) disegna ombre pesanti sul suo conto. Testimonianze senza fonte primaria riferiscono di una fantomatica abitazione nel capoluogo toscano di cui Narducci si serviva. Sulla casa di Narducci a Firenze la sentenza del 2010 (sentenza di assoluzione, che sconfessa la torre manipolatoria di assurdità necrofile e freudiane) riporta la testimonianza di un tale Frivola Edoardo, titolare di un negozio di elettronica, che nell’estate del 1985 si presenta alla Questura perugina con un disegno raffigurante il volto di quello che a suo dire sarebbe il vero Mostro di Firenze. Il Frivola è uno dei tanti sensitivi attratti dall’oltremorte dei delitti seriali. L’uomo fornisce anche una serie di indicazioni su un immobile nella Firenze vecchia, immobile cercato e (forse) trovato dagli investigatori perugini. Quella casa però, non era la casa di Narducci: secondo il Frivola era la casa del Mostro, un Mostro che, dirà più tardi il sensitivo, assomigliava moltissimo al gastroenterologo scomparso nel lago. Sulle (im)probabili frequentazioni fiorentine del Narducci si pronuncerà anche la prostituta Ghiribelli, in un verbale del 28 febbraio 2003 reso alla Squadra Mobile di Firenze. Si tratta di un delirio verbale degno di un film di Jess Franco, uno slasher dai colori scaduti, un negativo fotografico di istanze maniacali.

“(…) Nel 1981 vi era un medico che cercava di fare esperimenti di mummificazione in una villa vicino a Faltignano, che, da quello che sapevo, sembrava che l’avesse comprata sotto falso nome. Questa villa so trovarsi nei pressi del luogo dove furono uccisi nel 1983 i due ragazzi tedeschi (…) Di questo posto mi parlò anche Giancarlo Lotti in più occasioni e sempre negli anni ’80 quando ci frequentavamo (…). Sempre il Lotti mi raccontò che questa villa aveva un laboratorio posto nel sottosuolo, dove il medico svizzero faceva gli esperimenti di mummificazione. Mi spiego meglio: il Lotti disse che questo medico svizzero, a seguito di un viaggio in Egitto, era entrato in possesso di un vecchio papiro dove erano spiegati i procedimenti per la mummificazione dei corpi. Detto papiro mancava però di una parte che era quella relativa alla mummificazione delle parti molli e cioè tra le altre il pube ed il seno. Mi disse che era per quello che venivano mutilate le ragazze dei delitti del c.d. Mostro di Firenze. Mi spiegò anche che la figlia di questo medico nel 1981 era stata uccisa e la morte non era stata denunciata tanto che il padre aveva detto che era tornata in Svizzera per giustificarne l’assenza. Il procedimento di mummificazione gli necessitava proprio per mummificare il cadavere della figlia che custodiva nei sotterranei. Questo medico svizzero, sempre da quello che ho saputo, al momento delle indagini su Pacciani, abbandonò la villa per tornare in Svizzera (…).

La sentenza richiama alcuni episodi inquietanti.

Tale Bigerna Torcoli Mariella riferisce un episodio avvenuto in una festa degli anni ’70:

“(…) Quella sera, che non dimenticherò mai e che ho presente come se fosse oggi, vidi Francesco allontanarsi con questa ragazza che era arrivata alla festa, ma non ricordo chi la invitò. Era una giovane ragazza di cui non ricordo le fattezze, posso dire solo che eravamo coetanee. Dopo qualche tempo mi stavo recando in bagno e mi vidi arrivare incontro questa ragazza che era spaventatissima, tremava, balbettava, sembrava in preda al terrore. Le chiesi i motivi di questo suo stato terrorizzato, e lei mi rispose che Francesco, durante un approccio di tipo sessuale, aveva cercato di tagliuzzarla all’inguine. Rimasi stupefatta di questo e cercai di farmi spiegare meglio: in pratica mi raccontò che, durante l’approccio sessuale, lei effettuò del petting su tutte le parti del corpo di Francesco, chiaramente tale azione venne estesa anche ai genitali dell’uomo, penso con le mani, perché lei mi disse che cercò di stimolare l’erezione dell’uomo. Purtroppo, mi disse la ragazza, l’erezione non avvenne e ciò provocò grave irritazione di Francesco che allora si alzò dal divano o dalla sedia o da qualsiasi altro posto dove erano sistemati, e si recò verso gli indumenti perché, probabilmente, si erano spogliati. Francesco ritornò con un bisturi in mano e propose alla ragazza di farsi tagliare nell’inguine perché in questo modo avrebbe provato piacere e, quindi, avrebbe avuto l’erezione”.

Un episodio non dissimile accade tra l’80 e l’82. L’infermiera Serenella Pedini riferisce che, durante un turno di notte, Narducci si abbandonò ad avances piuttosto pesanti nei suoi confronti. In un’altra occasione, la Pedini, recatasi dal Narducci per fargli firmare una richiesta d’esame, sempre durante il turno di notte, trovò il medico disteso sul letto a torso nudo e coperto da un lenzuolo. Qui, dalle feste e dalle prime luci strobo delle discoteche anni ’70, si passa ai corridoi asettici e notturni degli ospedali, in uno scenario mortuario e chirurgico esplorato dai film slasher di quegli anni. Narducci si muove come un corpo estraneo nell’immaginario collettivo: con lui si passa dalle melodie spezzate fatte di vetro e sospiri di Morricone, alle basi minimali di Carpenter, dalle bamboline plastificate dei ’70, all’oscenità da incubo e ai cliché idioti degli ’80. A generare questo cortocircuito erano state delle telefonate anonime a un’estetista di Foligno, certa Falso Dorotea. Minacce telefoniche da più voci alterate che affermavano di appartenere ad una congrega di tipo satanista. In alcuni passaggi di quelle telefonate (registrate dalla Squadra Mobile di Perugia) si accenna a Pacciani, ai delitti del Mostro e a un amico di Pacciani che è finito annegato nel Lago Trasimeno. Il grande medico. Il grande dottore Narducci. Un traditore di Satana?

Ma è sulla salma di Narducci, attorno al suo corpo ripescato che globi impolverati di luce fioca colano verso di noi come ombre, generando corrimani e ringhiere cigolanti, riaprendo squarci nel tempo gravitazionale. Scarico da Google le copie elettroniche di alcune foto, le salvo nel documento: un kit di immagini scattate in posti e in tempi lontani dal mio, a cui sento di essere particolarmente attratto, scaffali caduti e coperti di muffa, sparsi sul pavimento del mio cervello.

Da questo sottobosco di parole, la cinepresa riavvolge il nastro, gli spasmi monocordi di altre voci, un vortice di comparse, supervisori, funzionari, occasionali passanti, sopravvissuti per un poco al ritmo del consumo.

Il Brig. CC Aurelio Piga, in un verbale del 25.03.02:

“Quando arrivammo nel molo non vi erano molte persone e non riconobbi nessuno di mia conoscenza. Il cadavere era disteso sul pontile ed appariva gonfio e di colore scuro. Ricordo che emanava un po’ di cattivo odore che si sentiva solo avvicinandosi molto al cadavere. Intorno a quest’ultimo in quel momento vi erano persone che io non conoscevo e tutti attendevano l’arrivo del medico legale. Mi pare che il cadavere avesse le braccia incrociate intorno allo stomaco (…) Io mi trovavo a fianco del cadavere insieme ad altre persone ed ero talmente vicino allo stesso da sentirne il cattivo odore che si avvertiva stando sopra al cadavere e vicinissimi allo stesso”.

La dott.ssa Seppoloni svolge sulla salma le incombenze medico-legali. Su quel 13 ottobre del 1985 afferma di ricordare:

“Conoscevo la persona da quando frequentavo l’Università e in particolare da quando effettuavo il tirocinio di medicina interna e quindi, per quanto riguarda la gastroenterologia avevo avuto modo di conoscere il dr. Narducci, all’epoca in cui il responsabile credo fosse il dr. Morelli (…) quando arrivai, il molo era pieno di gente; c’erano le forze dell’ordine, i vigili del fuoco ed altri; verso la metà del molo mi venne incontro il dr. Trippetti che mi disse che era stato ritrovato il cadavere del dr. Narducci. Ricordo che il cadavere si trovava in fondo al molo, vicino alle scalette di risalita (…) Era sdraiato in posizione supina sul molo, nelle vicinanze delle scalette ed era vestito interamente; mi pare che portava le scarpe, una camicia e, se ricordo bene, un giubbotto sopra la camicia. Mi sembrava che fosse vestito normalmente. Il cadavere del Narducci si presentava gonfio, edematoso e di un colore violaceo, aveva un notevole gonfiore al viso alle braccia e all’addome (…) Ricordo che si trattava di una giornata tempestosa, molto grigia, con vento sul molo di S. Arcangelo. Il vento fastidiosissimo mi sembra che venisse dalla zona di Castiglion del Lago (…) Ricordo che il cadavere del dr. Narducci non poteva essere spogliato perché gli abiti erano del tutto attaccati ma i vigili recuperarono delle forbici e con questo attrezzo iniziammo a tagliare i vestiti, non completamente (…) il colore era particolarmente violaceo, nel volto, nel collo e negli arti inferiori, in particolare nelle caviglie. Quando girammo il cadavere, uscì dalla bocca dello stesso del liquido acquoso, leggermente schiumoso, tinteggiato di un colore rosso cupo; il quantitativo corrispondeva grosso modo a quello che ha una persona che abbia un conato di vomito (…) si sentiva odore tipico di lago e anche di pesce”.

Nonostante tutto la Seppoloni riconosce nell’uomo ripescato le sembianze di Francesco Narducci.

Un altro testimone, il prof. Farroni, escusso il 7 marzo 2003, ricorda:

“Il volto era estremamente edematoso e cianotico (…) Il cadavere appariva gonfio e cianotico, i capelli erano appiccicati ma la capigliatura mi sembrava quella di sempre e non ricordo se avesse anelli, il cadavere era un pallone ed era sfigurato (…) era un cadavere irriconoscibile, ma come poi ebbi modo di spiegare al P.M. lo riconobbi sulla base della situazione contingente e dell’abbigliamento che corrispondeva esattamente a quello indossato normalmente dal mio amico Francesco”.

Il prof. Morelli, anche lui sul molo, sostiene il 22 aprile 2002:

“(…) Il cadavere era molto gonfio e scuro, l’addome aveva delle connotazioni batraciane ed il volto era cianotico. Il volto assomigliava poco al volto di Francesco anche perché quest’ultimo era snello. I capelli del cadavere erano scuri. Lei mi chiede che taglia potesse avere quel cadavere sul molo ed io le rispondo che doveva essere almeno 58 o 60. Anche le gambe erano molto gonfie. Lei mi chiede se avessi avuto delle difficoltà nel riconoscere quel cadavere in Francesco Narducci ed io le rispondo che ho avuto molte difficoltà dal punto di vista delle sembianze. Il cadavere era veramente difforme da Francesco”.

Il 26 febbraio, Morelli precisa:

“Posso dire che se non avesse avuto i vestiti e i documenti di Francesco Narducci, era irriconoscibile, deforme (…) Era quello di un uomo grosso, edematoso e cianotico, con un volto estremamente gonfio da stringere il colletto della camicia. Non aveva moltissimi capelli, la fronte era molto protuberante”.

Il Morelli torna ancora sulle condizioni del corpo in una deposizione del 28 febbraio 2003:

“Il volto era irriconoscibile. Era edematoso, cianotico, aveva pochi capelli, molto gonfio, con le guance gonfie, i capelli erano tirati all’indietro e la fronte era molto prominente (…) Anche il volto aveva delle fattezze batraciane. Con questo termine batraciano mi riferisco alla prominenza delle parti laterali, tipicamente determinato da stasi venosa, per costrizione del collo. La cravatta era di pelle di quelle che si usavano all’epoca. Dai miei ricordi era sul marrone. Ricordo anche che il medico che effettuò la visita esterna si accertò della presenza di fori derivanti da punture (…) Ricordo che vidi la patente di Francesco presa dal giubbotto o dal pantalone. Era ben conservata e non era plastificata e questo mi stupì visto che un documento cartaceo rimasto in acqua 5 giorni non si sarebbe conservato in questo modo”.

Nel proseguo dello stesso verbale, il prof. Morelli riferisce di una visita presso la villa di San Feliciano, ed al momento in cui vide il corpo ricomposto nella bara:

“Sono entrato nella piccola stanzetta dove era la bara con la salma del Narducci, ho dato l’ultimo saluto e ho notato che la salma di Francesco era ricomposta con cura. Comunque non mi sono posto alcun problema, anche perché non ho notato differenze sostanziali nelle sembianze del cadavere presente nella stanzetta rispetto a quelle del lago, che io ho ritenuto essere Francesco. Se vi fosse stata una differenza sostanziale lo avrei notato”.

Altri occhi hanno potuto osservare il corpo ripescato. Il fotografo de “La Nazione” Pietro Crocchioni, a cui si devono le uniche foto esistenti sul molo. Poi un carabiniere sulla pilotina dov’era stato adagiato il corpo ripescato. Anche questo testimone riferisce di un cadavere gonfio, con del liquido biancastro che gli usciva dalla bocca. Un maresciallo della Polizia Provinciale, Pietro Bricca, presente sul pontile, ha dei ricordi chiarissimi:

“Il cadavere lo ricordo bene come una fotografia, perché mi fece senso in quanto il cadavere non sembrava quello del Professore o comunque di un uomo bianco. Sembrava un negro perché aveva le labbra tumefatte, molto grosse e la pelle scurissima (…) Non sembrava il prof. Narducci che io conoscevo di vista e le cui foto ho rivisto sui giornali. Lei mi chiede di descrivere il cadavere ed io le rispondo che il corpo aveva un fetore insopportabile. Avevo visto molti cadaveri recuperati dall’acqua ma quello era diverso da tutti gli altri e mi ha impressionato molto”.

Il collega del Bricca, Paolo Gonnellini, partecipò anche lui alle operazioni di recupero e in data 11.06.02 rilasciò questo particolare:

“Quello che mi colpì del cadavere fu la cravatta stretta al collo con il classico nodo al di fuori del colletto di camicia, proprio sotto il mento. Il volto appariva molto scuro quasi come quello di una persona di colore ed anche le labbra erano tumefatte”.

Il vigile del fuoco Tommasoni Marco partecipò al recupero della salma:

“(…) Il volto della salma era gonfio e violaceo, mi pare che avesse un occhio semichiuso (…) Ricordo che era sfrontato con capelli radi sulla fronte; la faccia era gonfia e a forma di palla”.

Lapidario il Vice comandante dei Vigili del fuoco di Perugia di allora, tale Settimio Simonetti:

“(…) Mi sono venuti i brividi, perché l’annegato che vidi e il Narducci erano completamente diversi, tutta un’altra cosa”.

Interessante l’expertise di Morarelli Nazzareno, addetto dell’impresa di pompe funebri “IFA Passeri” di Perugia:

“Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e sembrava quello di un negro. Aveva le labbra grosse di un colore scuro tra il viola e il verde, il volto gonfio, il colore della pelle era nero come quello di un negro. Gli occhi erano chiusi ed era tutto gonfio. Gli togliemmo anche dei piccoli residui di canna che aveva addosso… Vi erano dei punti di maggiore intensità e qualche punto in cui era meno scuro (…) Il cadavere appariva semi-rigido tanto che non riuscimmo ad infilargli la camicia, la giacca e la cravatta. L’operazione era resa difficile dalla mole del cadavere. Quando lo tirammo fuori il cadavere aveva le braccia distese leggermente inclinate verso l’interno. Non abbiamo visto la schiena perché non siamo riusciti a girarlo…”.

Il collaboratore del Morarelli, Barbetta Gabriele, così precisò il 10.06.02:

“(…) La fisionomia del cadavere era alterata in quanto gonfio in volto, nei pettorali e nell’addome. Gli occhi erano mezzi chiusi. Rimasi talmente colpito dallo stato del cadavere che rivolto al mio socio Morarelli esclamai: “Oh Dio come è ridotto! Ma ce lo fanno rivestire?” I familiari ci avevano preparato gli abiti. Quando lo spogliammo ricordo che aveva una canottiera bianca e dei pantaloni scuri. Non ricordo se indossasse una camicia o una maglietta. Svestimmo in fretta il cadavere e ricordo delle chiazze di colore grigio con tendenza al kaki ed al verde scuro in tutto il corpo”.

Di questo cadavere che affiora dalla nebbia giallastra della memoria collettiva abbiamo anche la scena primaria del rinvenimento nel lago. A descriverla è un pescatore del luogo, tale Baiocco:

“Ricordo perfettamente che quel giorno vi erano molte alghe che affioravano dall’acqua e vi era vento da ponente; io dissi a mio cognato, guardando quel cumulo di alghe, “ma non sarà mica il professore quello?” E quando ci avvicinammo, rallentando con il motoscafo, vidi il corpo di un uomo sfigurato, a pancia all’aria, vestito con cravatta, camicia e mi pare un giacchetto, calzoni e scarpe, con il volto tumefatto, nero e gonfio, e non si vedevano nemmeno gli occhi. Ricordo che la testa era rivolta verso Castiglion del Lago, a favore di vento, ricordo anche che sulla testa vi erano molte alghe che formavano come una specie di capannelli in cui era immerso il corpo; appena lo vidi svenni e mi ripresi dopo pochi minuti (…) ricordo anche la mano sinistra, quella poggiata sullo stomaco era particolarmente gonfia, deforme e scura, mentre l’altra mano era sotto acqua. Dopo quel fatto facemmo chiamare i Carabinieri di Castiglion del Lago che hanno portato il cadavere al molo, dove è arrivato il Procuratore. Io, dopo essere andato al molo, me ne andai. Ricordo che quando il cadavere fu poggiato nel motoscafo dai Carabinieri, si aprì un qualcosa nel corpo del morto, non so se dal ventre o dalla bocca, e vi fu una puzza indescrivibile, tanto che i Carabinieri dovettero mettersi una garza alla bocca ed al naso”.

Ancora quelli delle pompe funebri:

“Il cadavere presentava all’altezza della pancia, sopra il pube, delle bolle tipo “grattacacia” che facevano fuoriuscire della mucosa. Posso aggiungere che il volto era quasi irriconoscibile, con due labbra enormi (…) mentre la salma l’abbiamo lasciata sul pavimento in attesa dell’arrivo dell’altra bara, che ci aveva ordinato il prof. Ugo Narducci e che doveva portare Barbetta Gabriele (…) il cadavere era adagiato in terra sopra ad un telo o una coperta e non è mai stato spostato da quel punto. Di questo ne sono assolutamente certo. Terminata la vestizione, provvidi a chiamare il Barbetta e questi, dopo circa un’ora, è arrivato con la nuova bara (…) il cadavere nella bara nuova. Siccome il prof. Ugo Narducci voleva vedere il cadavere come fosse sistemato nella bara, lo abbiamo portato al piano di sopra, e cioè allo stesso piano dov’era il telefono, per far vedere un’ultima volta il cadavere al prof. Ugo. La bara è stata adagiata sopra ad un catafalco di nostra proprietà in una stanza che si collegava, attraverso una scala, al seminterrato”.

In una dichiarazione del 13 giugno 2005, il Barbetta torna sui particolari della vestizione:

“Ricordo anche che mi stupii parecchio del fatto che i familiari volessero rivestire la salma, questo perché quel cadavere mi faceva un po’ ribrezzo, viste le condizioni, ma i familiari vollero che noi lo rivestissimo (…) il volto era molto gonfio, di colore violaceo e comatoso (…) dopo averlo vestito lo abbiamo messo sopra una brandina e poi siamo andati a prendere la bara (…) aggiungo inoltre che, accanto alla salma, vi erano delle persone che la vegliavano e ricordo perfettamente che vi erano anche delle donne (…) aggiungo, adesso che mi viene in mente, la presenza di un prete prima che chiudessimo la bara, che impartì una benedizione al cadavere (…) sistemammo la cassa su di un cavalletto tipo camera ardente, con i lampioncini, e posizionammo il cadavere dentro la cassa che, per legge, dà in dotazione un vascone di zinco che viene sigillato. In pratica il legno è solo un abbellimento (…) per chiudere il vascone mettemmo il coperchio di zinco che combacia perfettamente con la parte bassa della vasca. Morarelli o l’altro collega passarono l’acido sui bordi del vascone ed io, personalmente, effettuai la saldatura con lo stagno, di questo ne sono certissimo”.

Teresa Miriano Moretti ebbe modo di vedere nella villa di San Feliciano la salma esposta di Francesco Narducci. Il 20 febbraio 2003 così risponde al Procuratore della Repubblica:

“Francesco mi apparve con una espressione serena, con il suo volto di sempre senza alcun segno di violenza. Mi sembrava talmente sereno da apparire truccato (…) l’unica cosa che notai è che aveva un po’ di pancia e ciò mi stupì, perché Francesco aveva un fisico slanciato.

D. “Che colore aveva il carnato del cadavere di Francesco?”

(…) Era del tutto normale.

D. “Il cadavere era riconoscibile?”

(…) Sì, era riconoscibilissimo”.

Anche l’infermiere Pifferotti ebbe modo di visitare la salma alla villa:

“(…) insieme ad altri colleghi infermieri (…) ci recammo presso l’abitazione ove era sistemata la salma del Professore in località San Feliciano, per rendere omaggio (…) la bara era sistemata in un ambiente grande, forse un salone ed era aperta. All’interno della stessa vi era il cadavere di Narducci Francesco da me riconosciuto per tale. Non ricordo esattamente i capi d’abbigliamento indossati dalla salma ma comunque mi sembra che indossasse qualcosa di scuro. Ricordo che il viso era gonfio e scuro e che non presentava altre anomalie. Ribadisco però che la salma era di Narducci Francesco perché i capelli erano biondastri e leggermente sfrontato nella regione frontale”.

Nell’aprile del 2003, Pifferotti torna sull’argomento:

“(…) ricordo che eravamo all’imbrunire e andammo in una casa isolata sulla costa del Lago Trasimeno. Mi pare che salimmo due gradini, entrammo in un salone, così mi pare, dove era sistemata la bara (…) ricordo che intorno alla bara vi erano alcune persone che non conoscevo (…) mi pare che la bara fosse aperta. Il cadavere era un pochino cianotico e gonfio. Il cadavere era vestito come di norma si vestono i defunti. Mi pare che avesse giacca e cravatta (…) sì, era gonfio. I capelli erano biondi e sfrontati, era molto gonfio rispetto al normale. Non posso dire se fosse riconoscibile o meno, però mi avevano detto che era il corpo di Francesco Narducci e così pensai che lo fosse e non mi sono posto problemi di riconoscibilità (…) siamo rimasti circa 5 minuti anche perché non conoscevamo nessuno”.

Anche il prof. Morelli nota che il corpo ricomposto nella bara gli fa meno impressione di quello adagiato sul molo:

“Ricordo che mentre stavo alla villa seppi che stavano lavando il cadavere. La sera stessa o la mattina dopo tornati alla casa di San Feliciano prima che fosse chiusa la bara per rendere omaggio alla salma che vidi all’interno della bara (…) il cadavere che vidi nella bara era meno raccapricciante di quando lo vidi sul molo dove era stato adagiato. Ricordo che oltre a me vi erano anche dei miei collaboratori che hanno visto il cadavere nella villa il giorno dopo, ossia il lunedì (…) ricordo anche di aver baciato non ricordo se sulla fronte o sulla mano (…) il cadavere aveva le sembianze di Francesco. Non so dire in che modo ma quel cadavere aveva qualcosa di diverso da quello che avevo visto sul molo. Questo assomigliava di più a Francesco.

Domanda: “Aveva un aspetto negroide e il colorito cianotico?”

(…) Non so se fosse stato truccato. Visto l’accavallarsi dei ricordi non rammento con precisione. Forse il cadavere era meno gonfio. Il cadavere ricordava più Francesco dai tratti e dall’insieme”.

Passano tre mesi e il Morelli torna sulla questione:

“Ribadisco che il cadavere che ho visto alla villa era cianotico, gonfio e, ripeto, solo più composto rispetto a quello che ho visto al molo di Sant’Arcangelo (…) aggiungo anche che nell’ambiente ove era esposta la bara vi era anche poca luce”.

L’8 aprile 2003 Fiorucci Stefano dichiara:

“Ricordo che vidi il cadavere attraverso una porta e riconobbi il giacchetto di renna marrone che solitamente Francesco portava. Il padre di Francesco era particolarmente agitato e ricordo che ricevette una telefonata di un giornalista, in quanto le voci su Francesco già erano uscite, e lui attaccò il telefono con rabbia”.

Il cadavere di Francesco Narducci venne riesumato a Pavia nel 2002, nell’obitorio del cimitero.

Nella relazione del prof. Pierucci per il Procuratore della Repubblica si legge:

“Il rigoglioso sviluppo fungino e batterico, istologicamente documentato in regione laringea, pone ragionevolmente il quesito se esso possa avere condizionato la frattura (…). Noi ci sentiamo di escluderlo con sufficiente sicurezza, dal momento che lo sviluppo batterico e fungino si verifica nei tessuti fibroso e cartilagineo, risparmiando quello osseo (…) nelle altre fasi post-mortali non riteniamo possibile una lesione del genere: non nel trasporto della salma (…) riteniamo quanto meno probabile che la causa della morte di Narducci Francesco risieda in una asfissia meccanica violenta prodotta mediante costrizione del collo, o di tipo manuale (strozzamento), o mediante laccio (strangolamento)”.

In quella dei prof. Bacci e dott. Ramadori (consulenti della parte civile) si legge:

“Tornando dunque alla causa di morte di Francesco Narducci, l’unico elemento positivo rilevato nel corso degli accertamenti disposti induce a ritenere che con elevata probabilità la morte fi conseguente ad una violenta costrizione manuale del collo attuata con finalità omicidiaria”.

Nella relazione del prof. Giuseppe Fortuni, consulente della famiglia Narducci, invece una diversa interpretazione:

“Depongono a favore di detta ipotesi, da noi peraltro pienamente condivisa, le numerose manovre effettuate per l’asportazione del blocco dei visceri cervicali, per la loro fine dissezione, protrattasi per oltre tre ore, finalizzata alla difficilissima rimozione dei tessuti che furono molli, nonché per gli innumerevoli trasporti senza particolari cautele. Blocco che successivamente è stato sottoposto a ben cinque esami radiologici, anche con l’ausilio di tecniche assai sensibili e sofisticate, senza alcuna evidenza di fratture e “disconnessioni”. Solo nell’ultimo di questi esami, effettuato in assenza di tutti i consulenti e difensori, previa sezione del pezzo anatomico, fu evidenziata la discussa e discutibile presenza di una possibile alterazione a carico del cornetto della cartilagine tiroidea. Dette manovre, svolte in lunghe ore di fine dissezione, pur se effettuate come afferma il C.T.U. con tutte le possibili cautele, avvennero su di un blocco viscerale contrassegnato da un marcatissimo indurimento delle parti molli, e in particolare di una muscolatura scheletrica, quella del pavimento della bocca, che aveva assunto una consistenza “pressoché lignea”.

Lasciamo andare queste memorie, che si disperdano in una raccolta di fatti paranormali, ricordi sconnessi e infervorati di un mondo scomparso in un fiume di tenebra liquida, un buio cielo notturno, una costellazione di stelle scure.

Altri pensieri, altri particolari delle mie fantasie di violenza. In queste sconfinate periferie di declino economico, le cronache trasmesse dalla televisione e da internet sono intasate dai focolai epidemici. Non si parla più di cadaveri brutalmente lavorati da mani febbricitanti. Da qualche parte, sotto le torri nere della mia testa, vengono ancora rinvenuti corpi di donne manichino avvolte in un corredo di plastica, corpi a cui qualcuno ha inserito organi interni e materiali sintetici.

Dal settimanale “Giallo”

«Eravamo una dozzina attorno a un tavolone, sprofondati nel buio. Tutti scalzi, indossavamo delle tuniche bianche con sopra cucita, in corrispondenza del cuore, una rosa rossa. L’unica flebile luce giallastra proveniva dalle centinaia di candele accese sul pavimento. Altre candele erano sul tavolo intorno al corpo nudo della ragazza, che era lì sdraiata priva di sensi. Era stata drogata».

Inizia così la lunga lettera che Angelo Izzo, il Mostro del Circeo, ha mandato in esclusiva a “Giallo” per dimostrare di essere a conoscenza dei particolari dell’omicidio di Rossella Corazzin. Una lettera, che il settimanale riporta in un articolo firmato da Gian Pietro Fiore, piena di dettagli molto precisi riguardo alla vicenda della studentessa di 17 anni originaria di San Vito al Tagliamento, provincia di Pordenone. La ragazza, come vi stiamo raccontando da alcune settimane, scomparve il 21 agosto del 1975 mentre si trovava in vacanza insieme con i genitori a Tai di Cadore, in provincia di Belluno. Izzo, dal carcere romano di Velletri, dove sta scontando l’ergastolo, da due anni sta facendo clamorose rivelazioni riguardo alla misteriosa scomparsa della studentessa friulana, di cui lui sarebbe tra i responsabili. Il Mostro del Circeo è stato sentito più volte e, alla luce delle sue sconvolgenti rivelazioni, è stato indagato per omicidio. L’uomo, infatti, sostiene che Rossella Corazzin sarebbe stata rapita a Belluno per essere portata in un casolare a Riccione, prima di essere trasferita a Perugia, nella villa del medico perugino Francesco Narducci. Quest’ultimo è il gastroenterologo sospettato di aver avuto un ruolo nei delitti del “Mostro di Firenze”, che massacrò otto coppiette tra il 1968 e il 1985. Narducci fu ucciso proprio nel 1985, esattamente un mese dopo l’ultimo duplice delitto attribuito al Mostro. Dalla sua morte gli omicidi sono cessati. Solo un caso? Ancora non si sa. È stato lo stesso Izzo ad accostare Narducci al Mostro di Firenze.

Un fruscio di pellicola.

La cinepresa scivola sulle ultime pagine.

Una colonna sonora stridula e digitale.

Ho sempre l’abitudine di andare nei boschi della zona, a fotografare paesi abbandonati, chiese annerite, cimiteri sconsacrati alla mercé di annoiati satanisti sedicenni a caccia di tibie umane per arredare le pareti nere delle loro stanzette.

Greta è nata nel 1995.

A giugno, nei mesi caldi del Mostro.

Narducci era già morto da 10 anni.

Mancano 7 anni alla riesumazione di Pavia.

Ne sono passati dieci anni dagli Scopeti.

Nel ’95 c’era già Pacciani alla sbarra.

Il fantasma della pandemia è tornato. Le televisioni parlano di centomila morti, un sacrario di tombe e corpi, una selva di fantasmi in un paese regredito e silenzioso, che accoglie senza clamore il diritto abdicato della libertà. L’unica soluzione ragionevole sembra dentro fiale e iniezioni, vaccinazioni di massa, immunità di gregge. Intanto torniamo a vivere come reclusi, senza nemmeno la voglia di cantare stupidaggini dal balcone. Quando finirà milioni di noi perderanno il lavoro, perché inadatti alle richieste del mercato digitale in cui il virus ci ha precipitati con dieci anni di anticipo. Ora la vita è tutta on line. Mi aggiro nell’oscurità di questa scrittura fatta di macerie verbali, inutile, senza i trucchi del torbido sistema editoriale. Questa scrittura è una palude di fantasmi che non piace a nessuno e che nessuno leggerà. Con Greta andiamo nel vecchio manicomio della città. Una struttura fatiscente e gigantesca, composta da una ventina di padiglioni immersi nella vegetazione. Le rovine sono in periferia, vicino a un tratto di strada molto frequentato. Lei conosce un ingresso secondario, un buco nella rete da cui passare con una certa facilità. Aggiriamo la struttura, fino a portarci verso una zona lontana dalla strada. Passiamo per dei terreni agricoli e dei piccoli orti abusivi. Una volta dentro, dobbiamo solo stare attenti a non avvicinarci agli ultimi padiglioni rimasti utilizzati, dove ancora si trova qualche custode o impiegato dell’Asl. Seguendo la mappa su Google iniziamo ad addentrarci in quel regno di desolazione. Dei sentieri di terra battuta attraversano il boschetto che nasconde e sommerge coi suoi rampicanti ciò che rimane dei vari padiglioni. Lungo un sentiero troviamo una sedia a rotelle abbandonata in mezzo alla via. Sotto le ruote sono accatastate alcune fascine di legno, come se qualcuno avesse avuto l’intenzione di accendere una pira. Dentro uno degli edifici (molti vetri in frantumi, o scheggiati, i muri scrostati e scoloriti dalle muffe, l’aria impregnata di un odore forte, a tratti irrespirabile) troviamo una scaffalatura ancora piena di registri, schedari, vecchi faldoni del manicomio. Per terra, alla rinfusa, coperti da strati di polvere, altri fascicoli, fogli con l’intestazione della struttura, timbri e negativi di numerose fotografie. Greta ne prende alcune e le guarda contro luce: si tratta di alcuni scatti che ritraggono i pazienti, una sorta di foto segnaletica a uso interno. In un bagno c’è un tavolino messo sopra la vasca, ricoperta fino all’orlo da una fanghiglia marrone che riflette la sagoma luminosa del finestrone. Ogni tanto guardiamo fuori, per vedere se qualcuno s’è accorto di noi. La paura più grande, oltre alla sottile angoscia che il luogo esercita, viene dall’idea di incontrare qualche sbandato. Vicino ad una finestra vedo un paio di pupazzi di stoffa. Arriviamo anche alla zona dove tenevano i morti. L’obitorio del manicomio consiste in una serie di contenitori bianchi verticali, frigoriferi con delle finestrelle quadrate al centro, simili a quei cassoni che si vedono nel finale di “Non si deve profanare il sonno dei morti”. Dentro altri detriti, le lastre di metallo su cui venivano adagiati i corpi. Nei lunghi corridoi della struttura, la luce dell’esterno filtra dalle finestre colorando i muri e i soffitti con una gradazione di colore soffice che sfumava dal rosa al violetto. Le porte delle stanze sono aperte, come se volessero invogliarci a visitarle. All’esterno la vegetazione diventa sempre più impenetrabile, sommergendo e cancellando alcuni padiglioni. La luce del sole cala rapidamente, tramutando i corridoi in un’immensa pozza scura: noi siamo tornati indietro, in una sorta di serra dai soffitti crollati, una cancellata di ferro e dei rovi attorcigliati su dei fiori gialli.

Davide Rosso

Narducci

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Francesco Narducci (1949-1985), è stato un medico e docente italiano dell’università di Perugia; per l’alone di mistero che circonda la causa poco chiara della sua morte, il suo nome è legato alla vicenda del Mostro di Firenze.