PAOLO LOGLI

Musica, cinema, teatro, televisione, narrativa… questo è il mondo di Paolo Logli, che divide la propria vita tra queste forme di espressione che spesso incrociano la loro strada con il fantastico e che lui sa rendere alla perfezione, dando sempre un taglio nuovo e particolare a ogni cosa che realizza. Vediamo di conoscerlo meglio.

COMINCIAMO CON UNA DOMANDA DI RITO. CHI È PAOLO LOGLI?

Un cantastorie.

Non mi piacciono le definizioni pompose e neppure mi piacciono gli artisti autoproclamati. Tantomeno i guru. Quindi, sì, un cantastorie nel senso di uno che ama raccontare, che ha cercato di perfezionarsi negli anni, che ha imparato anche qualche trucchetto del mestiere e che attraverso le storie vuole raccontare il suo modo di vedere il mondo. Sono uno che ama scrivere e ama raccontare, e che non ha mai storto il naso di fronte a nulla: dalla narrativa popolare (la soap per esempio, ne ho scritte tre) ai testi di canzoni, dai cinepanettoni al teatro “impegnato”, dai programmi tv ai testi teatrali. Qualcuno potrebbe contestarmi che non si possono fare tante cose e farle bene. Forse è vero, ma personalmente non vedo differenza di fondo tra le mille cose che ho fatto: ho sempre raccontato storie.

COME HAI COMINCIATO A SCRIVERE?

Che mi ricordi, ho sempre scritto, fin dalle elementari. Mi piaceva moltissimo fare i temi, adoravo leggere, ero un vero divoratore di romanzi, giornalini, tutto quello che fosse fatto di carta e portasse sopra delle parole stampate. Poi però avevo anche dei quadernetti in cui abbozzavo raccontini e poesie. Non voglio dire che fossero chissà che, ma la voglia di raccontare c’era, c’è sempre stata. Alle superiori e all’università ho prodotto moltissimi racconti, tutti molto brevi, perché ero convinto di non avere il “respiro” per il racconto lungo o per il romanzo. Mi piaceva moltissimo il cinema e la scrittura cinematografica, ma sinceramente non ero sicuro di essere in grado, non tanto di scrivere una sceneggiatura, quanto di trovare una via per arrivare al mondo della fiction e del cinema.

Poi, diciamo così, il destino mi ha dato una mano, e mi sono trovato a fare il servizio militare a Roma, dopo che, da uomo di mondo come Totò, avevo fatto l’addestramento a Cuneo. Quando ho finito la ferma, ci ho provato: mi sono fermato a Roma, e ho tentato di iniziare qualche piccola collaborazione. Venivo da una piccola città di provincia, La Spezia, e non avevo, come si dice, i “contatti giusti”. Allora sono andato un po’ di porta in porta, con un’intraprendenza e un’incoscienza che probabilmente si ha solo a vent’anni. E mi ha detto bene.

LA TUA PRODUZIONE SI DIVIDE FRA MUSICA, TEATRO, CINEMA, TELEVISIONE E NARRATIVA… HAI PROPRIO UN BEL DAFFARE. QUALE TRA QUESTI IMPEGNI TI HA DATO PIU’ SODDISFAZIONI?

Sono esperienze diverse tra loro, ovviamente, ma ho già accennato al fatto che raccontare storie in fondo è sempre la stessa cosa. Cambiano alcuni canoni, cambia la convenzione, il cosiddetto patto col pubblico, che per esempio in tv prevede spesso l’happy end, e altrove no, ma sempre di affabulare si tratta. Della televisione amo la possibilità di raccontare storie semplici, del cinema la maggiore libertà creativa (anche se molto relativa, vista la dittatura del botteghino), del teatro la possibilità di giocare con le parole. Della narrativa, infine, amo i tempi. La possibilità di fermarsi, interrompere gli avvenimenti e pensarci sopra, la possibilità di accelerare e poi rallentare fino all’immobilità. E amo anche la mancanza di vincoli produttivi, per cui qualsiasi cosa immagini puoi mettere in scena, perché non ci sono costi proibitivi da sostenere. E allora, questa è una scelta che non mi sento di fare. Mi sento completo giocando su quattro tavoli, che poi diventano cinque se si include la musica.

Si sente spesso dire che chi fa troppe cose non ne fa davvero bene nessuna, chissà, forse chi lo sostiene ha anche ragione. Ma davvero non saprei scegliere, ognuna di queste esperienze mi ha dato e mi dà molto, e – sbagliato o no – conto di continuare a tenere il piede in molte scarpe.

VUOI PARLARCI IN GENERALE DELLE TUE PRODUZIONI PRECEDENTI A CUI SEI PIU’ LEGATO?

Ci sono ovviamente dei momenti che hanno significato molto per me, o in termini di crescita professionale o in termini di emozione personale. Sono molto orgoglioso per esempio di avere scritto, assieme ad Alessandro Pondi – che è da anni mio partner fisso nel lavoro di sceneggiatura – “Il bambino della domenica” la fiction sbanca-ascolti (più di 9 milioni!) interpretata da Beppe Fiorello, che ha vinto il Premio Internazionale al Festival del Cinema di Salerno per la sceneggiatura. A quel film sono legato anche perché è stata la mia prima sceneggiatura di un tv-movie a essere prodotta. Avevo già scritto molte serie per la tv, ma quello è stato il salto di qualità. Inoltre è stato l’inizio di una collaborazione con Beppe, una persona davvero speciale con cui spero di continuare a collaborare per moltissimi anni.

Sono molto contento di avere ideato “Il commissario Manara”, sempre con Alessandro. Ci siamo divertiti moltissimo a ideare e immaginare i personaggi di quella serie, che è nostra, nel soggetto, al 100%. Peccato che le strade del commissario e le nostre si siano divise presto, potevamo fare ancora molte cose belle assieme.

Ci sono poi due testi teatrali che amo molto. Il primo “Dunque lei ha conosciuto Tenco” è stato “Premio Per voce sola” per il miglior monologo teatrale italiano. Il secondo “Quell’enorme lapide bianca”, che tratta del dramma delle foibe, ha avuto l’onore di essere rappresentato a Montecitorio. Infine, ma solo come ordine di citazione sono orgoglioso della collaborazione con il Banco del Mutuo Soccorso come regista, che ha prodotto un film concerto “Ciò che si vede è” e svariati video clip. Il Banco è molto importante nella mia formazione personale, è stato il primo gruppo che ho visto suonare dal vivo e i loro primi album li conservo ancora come cimeli. Ero, insomma, un vero e proprio fan e anche in questo caso, facendomi conoscere Vittorio Nocenzi, Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, il destino mi ha fatto un bel regalo. Ed anche col Banco, la storia continua e sto lavorando con Vittorio a un progetto che vedrà la luce nel 2016… per ora segreto.

RECENTEMENTE HAI PUBBLICATO PER CASTELVECCHI IL ROMANZO “DURA PIOGGIA CADRA’ – L’ULTIMA STORIA DI AVALON”. CE NE VUOI PARLARE?

“Dura pioggia cadrà” è prima di tutto una sfida con me stesso: una storia che ha come protagonisti i Cavalieri della Tavola Rotonda e il druido Merlino, ma scritta in un’ambientazione contemporanea con i toni e con i ritmi del noir.

Io ho sempre amato il fantasy, ho divorato “Il Signore degli Anelli”, ma in generale tutto Tolkien, conosco praticamente a memoria il ciclo di Shannara, ho letto e riletto le leggende bretoni della Tavola Rotonda. Mi sono messo in testa che potevo provare a scrivere un fantasy “a modo mio”, in definitiva un non-fantasy, in cui il genere, che è molto codificato, si contaminasse con elementi del noir, altro mio genere di riferimento, e con la musica rock. Alchimia non facile, che mi ha portato via quasi due anni di lavoro, ma senza false modestie ho l’impressione di esserci riuscito.

Ho voluto mettere dentro questo libro tutta la mia voglia di avventura e contemporaneamente tutte le domande che sono tipiche della mia generazione, quella cresciuta negli anni ’70, anni difficili ma pieni di una richiesta di risposte e di ideali che ancora oggi mi porto appresso. Mi è parso che Avalon, la città perfetta del ciclo bretone, potesse incarnare perfettamente quel sogno.

COME E’ NATA L’IDEA DI QUESTO LIBRO?

Il romanzo è la storia di Merlino, che dopo sedici secoli di immortalità obbligata si trova a vivere a Roma, al Tiburtino terzo, praticamente come un barbone. Il druido, e con lui i tre principali cavalieri della Tavola Rotonda, Artù, Parsifal e Lancelot, è costretto a rimanere al mondo, in quanto custode della spada Excalibur fino a che non troverà qualcuno degno di impugnarla di nuovo e con essa edificare un’era di armonia. E’ questa la loro missione, che gli è stata affidata dal Drago (la figura che nel ciclo di Camelot impersona il potere della terra ed anche la spinta ideale che muove i cavalieri), ma insieme è anche questa la loro maledizione: non poter morire, fino a che ciò che gli è stato affidato non sia compiuto. Solo che dopo sedici secoli di ricerca vana e infruttuosa, in cui i quattro immortali si sono trovati spesso su fronti opposti della barricata nelle mille guerre combattute dall’uomo, la certezza comincia a vacillare, le domande sul senso della loro missione si fanno stringenti e dolorose.

Quando incomincio a narrare la storia, Merlino è semi alcolizzato e vive in un appartamento ingombro di rifiuti. Parsifal, imbolsito e demotivato, fa il predicatore in un tendone, e Lancelot addirittura ha dimenticato di essere un antico cavaliere.

Dovranno però tornare in pista, per salvare la spada e con lei il mondo.

QUAL È STATA LA PARTE PIÙ DIFFICILE NELLA CREAZIONE DEI PERSONAGGI E DELL’AMBIENTAZIONE?

Indubbiamente la cosa più difficile è stata trovare un connotato di originalità in ognuno dei protagonisti. La saga di Camelot infatti è talmente radicata nel nostro cuore che Merlino, Parsifal, Artù e Lancelot sono un carattere familiare a tutti, e quasi come narratore di storie avrei potuto correre il rischio di andare a memoria, di scrivere semplicemente un ennesimo episodio apocrifo del ciclo bretone. Mi sono invece interrogato su quali potessero essere i tratti di attualità e di originalità di questi personaggi, per metterne in scena, se ci fossi riuscito, una sfumatura nuova.

Sono molto contento del risultato, sinceramente, perché ci sono momenti inaspettati e stupefacenti che si alternano con momenti in cui gioco con l’archetipo, con gli aspetti più conosciuti dei tre cavalieri e del druido. La gran parte del romanzo si svolge ai tempi nostri, tra Roma, Dublino, a Glastonbury, nel Somerset, dove si dice sorgesse Avalon, ma utilizzando spesso il flash back ho potuto ripercorrere alcuni momenti forti della saga, il momento in cui Merlino incontra per la prima volta Morgana ancora bambina, il tradimento di Uther Pendragon ai danni del suo avversario, padre di Morgana, la crescita di Mordred, figlio illegittimo di Artù, l’ultima battaglia che lo contrappone a suo padre, la disperazione di Parsifal di fronte al crollo di Avalon. E’ stato emozionante, per me. E spero lo sia anche per i lettori.

NEL LIBRO TROVIAMO ELEMENTI STORICI E DI FICTION SAPIENTEMENTE MESCOLATI FRA LORO. QUANTO DI REALE E STORICAMENTE DOCUMENTATO C’E’ IN QUESTA STORIA E QUANTO INVECE DI INVENTATO?

In parte ho già risposto: la base della storia è assolutamente il ciclo di Camelot e i personaggi sono quegli stessi immaginati dagli scrittori cortesi. L’unica cosa che mi sono limitato a fare è stato provare a dare loro la consapevolezza di quasi due millenni di inutili e inconcludenti guerre di ideologia, di religione o di semplice sopraffazione, e portarli di fronte ad una domanda sul senso della loro missione. A dar loro un’anima contemporanea mi ha aiutato molto la musica rock.

VISTO CHE ULTIMAMENTE CAPITA SEMPRE PIU’ SPESSO DI LEGGERE MOLTI AUTORI ANCHE IN FORMATO DIGITALE, SECONDO TE QUALE SARA’ IL FUTURO DELL’EDITORIA? VEDREMO PIAN PIANO SCOMPARIRE IL CARTACEO A FAVORE DEGLI E-BOOK O PENSI CHE QUESTE DUE REALTA’ POSSANO CONVIVERE ANCORA PER LUNGO TEMPO?

Personalmente amo l’oggetto libro, la carta, il suo odore, la possibilità di sottolineare e appuntare, ma contemporaneamente utilizzo la tecnologia per scrivere, e non ho difficoltà a leggere sullo schermo del computer. Penso però che si tratti di due modi diversi di leggere, e se quello digitale è di certo più agile, la carta concede dei tempi di meditazione e di comprensione che spesso sono indispensabili. Pensa a cosa è successo nella musica, tanto per dirne una. Eravamo certi che il cd prima e la musica liquida poi avrebbero costituito una rivoluzione da cui non tornare indietro. E invece, assistiamo a un prepotente ritorno del vinile, che offre un calore e una definizione di suono finora insuperati. Voto per la convivenza delle due realtà.

OLTRE CHE SCRITTORE SEI ANCHE, COME DICEVAMO, SCENEGGIATORE TELEVISIVO E CINEMATOGRAFICO.  VUOI PARLARCI DI QUESTA SECONDA FACCIA DELLA MEDAGLIA DELLA TUA ATTIVITA’?

Spesso quella di sceneggiatore è la prima faccia della medaglia, se non altro perché è attraverso i film per il cinema e per la tv che ho ottenuto il mio minimo di notorietà ed è lavorando come sceneggiatore che mi mantengo.

Amo molto scrivere per il cinema e per la tv e anche in questo caso sono esperienze diverse ma il mezzo, la scrittura, rimane lo stesso. Quel che cambia in maniera netta è invece il processo creativo, perché in questo caso scrivo in coppia con Alessandro Pondi e alcune volte con altri due sceneggiatori, Riccardo Irrera e Mauro Graiani.

Devo dire che l’esperienza del “braistorming” così si chiama in gergo il lavoro a più persone, e in particolare quella fase iniziale in cui si sparano idee a ruota libera, a costo di dire idiozie, è sempre esaltante.
Se devo confessare un mio limite, faccio un po’ fatica, ora che mi sono abituato a gestire da solo la narrazione per esempio nella narrativa o nel teatro, a mediare. Non tanto dal punto di vista tecnico, visto che Alessandro è probabilmente più bravo di me a livello di struttura, quanto di gusto, di retroterra, di miti personali. Mi viene difficile abbandonare le mie convinzioni e i miei amori, o per dirla meglio rinunciare a cose che, se fossi da solo, metterei senza dubbio, a favore di un percorso condiviso. Devo dire però che spesso la rinuncia è ripagata da una maggiore sfaccettatura delle storie e del personaggi.

IN COSA SI DIFFERISCONO I MODI DI SCRIVERE PER LA TV E PER IL CINEMA?

Anche a questo ho in parte già risposto. La tv richiede una maggior attenzione di comprensibilità e di fruibilità, non si deve dimenticare che alla fine è un elettrodomestico che chiacchiera spesso in sottofondo e che a volte si segue mentre si fanno altre cose, mentre il cinema gode di una visione esclusiva, visto il buio e la grandezza dello schermo.

Però è anche vero che la fiction tv, soprattutto fuori dai nostri confini, è molto cresciuta negli ultimi anni, e spesso le più grosse innovazioni di scrittura e di stile vengono dalla tv piuttosto che dal cinema. Quindi mi piace moltissimo scrivere fiction, anche se auspico un po’ di libertà creativa, di cui gli sceneggiatori italiani obiettivamente godono poco, per una serie di considerazioni, di linea editoriale, di budget, e a volte anche di un pizzico di coraggio in più che se ci fosse non guasterebbe.

E PER QUANTO RIGUARDA INVECE I TUOI TRASCORSI MUSICALI COSA PUOI DIRCI?

Ho detto spesso, scherzando, che sono un rocker fallito. Ma, come dicono a Napoli, “pazziando pazziando, Pulcinella dice la verità”. Il fatto è che sono cresciuto in un sacco amniotico fatto di musica, i miei genitori avevano una balera quando io sono nato e i primi anni della mia vita li ho passati a dormire in una culla nel retropalco. Ho assorbito note, e un po’ di groove. Ho studiato chitarra e sax, ho suonato nella banda musicale di La Spezia, ho avuto un paio di gruppi rock in cui ho suonato (uno di questi gruppi, guarda caso, si chiamava Excalibur…). Il mio dramma è che le dita però non arrivavano a fare quel che la testa immaginava. E allora, un bel giorno, ho deciso di mettere questa musicalità innata al servizio dell’altra mia grande passione, la scrittura.
Pare che sia stata una buona idea.

ALTRA ATTIVITA’ CHE TI VEDE IMPEGNATO E’ QUELLA TEATRALE: VUOI RACCONTARCI LE TUE ESPERIENZE NEL CAMPO?

Il teatro è davvero un altro mondo, con tempi di realizzazione più distesi, per lo meno in fase di scrittura, e un esito immediato, che ti ripaga di tutto il lavoro. La cosa irrinunciabile del mettere in scena propri testi in teatro è il momento in cui, durante la rappresentazione, “percepisci” gli umori e le reazioni del pubblico. Capita a volte di sentire una specie di fremito percorrere la platea, oppure di sentire l’attenzione che magicamente si ravviva… questa possibilità di vivere il frutto del tuo lavoro in tempo reale assieme al destinatario è davvero qualcosa di magico che nessun altro tipo di scrittura ti dà.

La seconda cosa che ti permette il teatro molto più di tutti gli altri generi, è di “giocare” con le parole, sentirne il suono, i ritmi… in questi anni ho frequentato spesso la forma del teatro-canzone, monologhi di testo accompagnati da cantanti o musicisti.

Ho scritto su Tenco, su Puccini, su Pergolesi, su Haydn, su Jimi Hendrix, su Jim Morrison, su Mia Martini. Alcuni di questi testi sono riuniti in una raccolta “Tenco e gli altri” che amo molto.

FRA TUTTI I TUOI LAVORI IN QUESTO SETTORE, SPICCA SICURAMENTE LA VERSIONE PER IL TEATRO DE “IL PIANETA PROIBITO”. DI COSA SI TRATTA? E COME NASCE L’IDEA DI QUESTA TRASPOSIZIONE?

In questa impresa io e Alessandro Pondi venimmo coinvolti da Luca Tomassini che della messa in scena è anche regista. “Il pianeta proibito” è il riadattamento italiano di un musical inglese ispirato a un film di fantascienza degli anni ‘50 a sua volta ispirato alla “Tempesta” di Shakespeare. Ma in realtà parliamo di adattamento solo perché i produttori dovettero, per potere portare in scena questo allestimento, comprare il testo inglese e affidare agli autori il compito di “riadattare”. In realtà riscrivemmo per intero, tenendo solo l’idea di fondo del naufragio, invece che sull’Isola shakespeariana, su un pianeta misterioso in cui agiscono forze strane…

QUALI SONO STATE LE DIFFICOLTA’ CHE AVETE INCONTRATO NELLA REALIZZAZIONE DI QUESTO PROGETTO?

Moltissime a livello di allestimento. Avevamo per esempio in scena un’astronave ricreata con proiettori 3D e puntatori laser. Avevamo lunghi spezzoni di filmato che interagivano con gli attori in scena, e quella è stata una bella sfida, a cominciare dal momento in cui abbiamo provato a immaginarci determinate soluzioni, come quella del balletto della Cuccarini, penso il momento più celebre dello spettacolo, in cui Lorella nuda e coperta solo da una chitarra interagisce con decine di replicanti di sé proiettate su un grande schermo dai 2 proiettori 3D. Una bella esperienza, anche esaltante, nella sua difficoltà.

IN QUESTI ANNI DI ATTIVITÀ CI SEMBRA DI CAPIRE CHE HAI SEMPRE AVUTO UNA CERTA PREDILEZIONE PER IL FANTASTICO. CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA TEMATICA?

Amo immaginare, scrivere per me è visitare posti e mondi che non ho mai visto per un verso, o immergermi in profondità nell’anima dei personaggi che scrivo.

Il fantastico è di certo una componente importante della mia formazione, soprattutto nel periodo del liceo, in cui alternavo ai classici la lettura della fantascienza anni ‘50 americana e della fantascienza underground inglese dei ‘70. E poi, nella mia formazione musicale, gioca un ruolo irrinunciabile il progressive, Banco, appunto, ma anche Pink Floyd, Genesis, King Crimson, Yes… una musica che al fantastico deve moltissimo…

VENIAMO A UNA DOMANDA PIÙ GENERALE. DOVE TRAI ISPIRAZIONE PER TUTTE LE TUE STORIE?

Le storie nascono per caso, spesso da uno spunto che arriva dall’osservazione della realtà. Sei in coda in macchina e una coppia a fianco a te, nella sua utilitaria, litiga. E quasi senza che te ne accorga, ti trovi a pensare: “E ora cosa succede se lei scende e lo molla in mezzo all’ingorgo e sparisce?” Ecco, spesso da un’idea sciocca come questa inizia un lavorio che porta, un po’ di tempo dopo, a un soggetto.

Ma certo, prima di arrivarci, c’è tanto lavoro, e anche un bel po’ di mestiere.

Raccontare storie è come fare tavoli, non si improvvisa. Ci sono delle regole, e chi vuole lavorare il legno fa bene a impararle, prima di metter mano alla pialla.

Idem si può dire per la penna.

QUALI SONO I TUOI SCRITTORI PREFERITI?

Di certo alcuni “immaginifici” come Calvino, Garcia Marquez, Jorge Luis Borges, Edgar Allan Poe, ma anche scrittori dalla grande passione civile, come Pasolini, Pavese. Amo poi il noir di  James Ellroy, non mi perdo un libro di Stephen King, Fred Vargas… come vedi cose disparate, temo di essere onnivoro.

E PER QUANTO RIGUARDA I FILM CHE PIU’ TI PIACCIONO, CHE CI DICI?

Non sono originale: Quentin Tarantino, Stanley Kubrick, i Cohen, Scorsese. Ma anche qualche italiano: Dario Argento, Mario Monicelli, Sergio Leone. Anche e soprattutto per il contributo che ha dato ai suoi film uno sceneggiatore che ammiro in modo profondo: Luciano Vincenzoni.

Uno che ha scritto una battuta come: «Giù la testa, coglione!» merita di essere studiato parola per parola.

ULTIMA DOMANDA, POI TI LASCIAMO AL TUO LAVORO. QUALI PROGETTI HAI PER IL FUTURO E QUAL È IL TUO SOGNO (O I SOGNI) CHE HAI LASCIATO NEL CASSETTO?

Sto scrivendo un altro romanzo, un noir, ma mi piacerebbe anche scrivere il seguito di “Dura pioggia cadrà”. Io e Alessandro abbiamo in cantiere due film per il cinema, e una miniserie in tv. Un sogno che ho lasciato nel cassetto, probabilmente, sto per realizzarlo: scrivere un’opera rock.

BEH, CHE DIRE DI PIU’? TI ASPETTIAMO PROSSIMAMENTE PER FARCI RACCONTARE I FUTURI SVILUPPI. STAY TUNED!

Davide Longoni