E POI VENNE IL COMPUTER… MA SOLO POI – PARTE 11 – 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968)

Liberamente ispirato da un racconto di Arthur C.Clarke, intitolato “La Sentinella”, il film, a causa del suo successo, fece arrivare nelle librerie un romanzo tratto da una delle sceneggiature più recenti. Il regista Stanley Kubrick però non fu mai completamente soddisfatto delle sceneggiature scritte da Clarke.

Nella ormai famosa scena dell’osso che si trasforma in un’astronave facendo compiere al film un elegante balzo di migliaia di anni, nessuno riusciva a capire cosa volesse fare Kubrick quando ordinò all’operatore di riprendere quell’osso contro il cielo. Oggi quella scena è una delle più famose del film.

Fino ad allora gli effetti speciali, parte dei quali si chiamano “sovrapposizioni”, venivano realizzati unendo oppure accoppiando diversi negativi per poi rifotografarli allo scopo di ottenere un’unica scena che contenesse tutto ciò che si voleva far apparire: ricordiamo tale procedimento, per esempio, nel film “La Guerra dei Mondi” e in tanti altri. Questa tecnica, però, possiede un notevole svantaggio: le scene già esistenti, rispetto a quelle nuove appena inserite, perdono di nitidezza e di colore. Per ovviare a un simile inconveniente Stanley Kubrick ha girato questo tipo di scene usando un solo negativo e questo indipendentemente dal numero di passaggi necessari per ottenere la sequenza finale completa in tutte le sue parti. Tutto questo comporta un lavoro di precisione e di mascheratura al limite del pazzesco: Kubrick era obbligato, infatti, a coprire le parti che non voleva impressionare della pellicola con opportune “maschere” per poi invece scoprirle e coprire le altre già impressionate in un gioco di puzzle che non doveva contenere sbavature, quantomeno impressionante. Per ogni inquadratura di questo genere sono occorsi anche otto mesi. Comprensibile, quindi, che la realizzazione del film sia durata quasi cinque anni.

Le scene iniziali sono state invece girate tutte in teatri di posa. I paesaggi erano inseriti tramite uno schermo gigante situato dietro i personaggi (Front Projection). Il procedimento usato da Kubrick nel sovrapporre varie scene usando come base lo stesso fotogramma (Negativo) è in pratica l’unica vera innovazione tecnica da lui proposta in quanto gli altri effetti speciali erano già stati usati nel campo della cinematografia e non solo in quella fantascientifica. L’hostess che si arrampica sulla parete, per esempio, non rappresenta nulla di nuovo, addirittura risale agli esordi del cinema perché fu usata la prima volta da Georges Méliès agli inizi del Novecento, fu poi ripresa in un film di Fred Astaire in cui l’attore danzava appeso al soffitto e appare anche nel film Un Marziano sulla Terra con Jerry Lewis e in Mission to Mars di Brian De Palma.

L’imponente nave Discovery era un modello statico, sorretto cioè da un piedistallo ricoperto di velluto nero: aveva una lunghezza di circa sei metri ed era costruita in balsa e alluminio, rifinita poi con dei pezzi di montaggio, dei kit in scatola normalmente in vendita. Questa tecnica è stata poi ampliata da Douglas Trumbull nel successivo 2002: La Seconda Odissea (Silent Running) di cui fu regista usando, per la sua astronave- giardino, 700 scatole di un modello del carro armato tedesco Tiger di cui sono stati utilizzati i tubi di scappamento, portelli, ganci, prese d’aria e quant’altro, incollati e poi dipinti sul modello in balsa simulando un intrico di apparecchiature. Il modello della Discovery e ancora di più quello della Valley Forge, la nave spaziale che appare in “2002: La seconda odissea”, era di una fragilità addirittura spaventosa: ogni volta che venivano sfiorati perdevano qualche pezzo. Per girare, quindi, le sequenze dell’astronave in volo è stata usata una gigantografia del Discovery, opportunatamente ritagliata e poi animata fotogramma per fotogramma, sullo stile della Stop-Motion, tanto per capirci. Furono costruiti anche dei modelli in plastica di satelliti, ma non vennero poi usati. I pianeti erano dipinti su vetro con lo stesso procedimento che Bonestell usò per “La Guerra dei Mondi”, il suo nome è “Glass Painting”, mentre “la galassia che esplode” fu realizzata con frammenti di magnesio ripresi ad alta velocità e la riprenderà Trumbull nel suo film per mostrare in maniera piuttosto veridica, lo sgancio fra le navi spaziali e i giardini che trasportano. In realtà le astronavi erano appese al soffitto, mentre delle piccole cariche facevano esplodere dei piccolissimi frammenti di mica, che ripresi ad altissima velocità, cadevano verso la macchina da presa che era posta in basso.

Per comprendere i procedimenti sofisticati usati da Stanley Kubrick e la sua abilità nel darci un finale magari oscuro, ma certamente suggestivo, grazie anche al concorso delle musiche, ritorniamo al momento in cui il dottor Floyd e i suoi collaboratori giungono sul luogo dove è stato trovato il Monolito Nero. La scena, ambientata in un paesaggio lunare, mostra gli astronauti di spalle e un lungo scivolo davanti a loro che termina all’interno di un enorme scavo rettangolare al centro del quale si erge il Monolito illuminato da potenti lampade e, in alto, sullo sfondo, si scorgono le montagne lunari. Così è nel film. In realtà la Luna era stata creata su un tavolo dalle dimensioni di due metri per due e le montagne erano inclinate. Riprendendo però il tutto con una particolare angolatura in soggettiva le “montagne” si raddrizzavano. Tutta la scena era dunque un plastico, anche le lampade erano delle miniature fabbricate appositamente da una ditta tedesca, mentre gli astronauti erano sovrapposti nell’immagine assieme al Monolito Nero. La riga dei fari segnava l’inizio della sovrapposizione.

Il film ha avuto anche una sua vittima: un tecnico è caduto, rompendosi l’osso del collo, in un pozzo della lunghezza di venti metri, quello stesso cosparso di lampade al neon che David percorre per raggiungere Hal e disinserirlo. Molto meno profondo, solo due metri, è invece il pozzo nel quale penetra l’astronave sferica che porta Floyd sulla Luna. Gli spostamenti in attività extraveicolare di Frank e David erano riprese dal basso verso l’alto dei due attori che indossavano tute appositamente studiate per il film, agganciati su un’intelaiatura metallica che veniva poi “cancellata” sul fotogramma.  I movimenti dovevano essere molto lenti e la scena venne girata a 96 fotogrammi al secondo. Proiettandola poi a 24 fotogrammi al secondo si otteneva l’effetto rallentato richiesto.

Il progetto iniziale prevedeva che la conclusione del film si svolgesse presso il pianeta Saturno, ma non era possibile poterlo rappresentare in maniera credibile in breve tempo. I dirigenti della M.G.M., preoccupati per il ritardo nella lavorazione, fecero pressioni sul regista affinché si affrettasse. Ecco perché fu scelto Giove, realizzato mediante una speciale macchina battezzata, guarda caso, “Jupiter Machine” che, attraverso un metodo di scansione ottica, è in grado di trasformare un disegno a due dimensioni in una sfera. Un procedimento lento perché ogni immagine richiede un’esposizione di due ore. L’universo di Saturno fu effettivamente realizzato quattro anni dopo dal principale collaboratore di Kubrick, Douglas Trumbull, per il suo “2002: la seconda odissea”.

Le immagini dei monti che si vedono nelle sequenze psichedeliche sono state girate con filtri particolari in Scozia, Arizona e Utah. Il regista avrebbe poi smentito la strana coincidenza delle lettere H.A.L. con la sigla I.B.M., basta aggiungere la lettera successiva dell’alfabeto alla prima sigla e si ottiene infatti la seconda, ma, francamente, sembra una coincidenza troppo strana per essere casuale.

Nel progetto originale l’opera di Clarke e di Kubrick passò attraverso vari titoli e soggetti. Tra i primi ricordiamo: Tunnel to the Stars, Universe, Planetfall, How the Solar System was Won, fino a quello che sembrava definitivo e che fu anche annunciato ufficialmente: Journey beyond the Stars. I ripensamenti sulla storia furono moltissimi, come era solito in Kubrick. Fu scartato un lungo prologo che si doveva svolgere sulla Terra ai giorni nostri, il Monolito che inizialmente sembra uno schermo trasparente sul quale apparivano immagini e il viaggio finale doveva essere più comprensibile per il pubblico e si era anche pensato di far vedere gli alieni come silhouette bianche, sottilissime, ottenute riprendendo gli attori in carne e ossa, poi come vorticose “trottole di energia” dagli sgargianti colori psichedelici. Era stata creata anche la fantastica visione di una città fatta di luce, luogo d’arrivo della capsula di David. Nella precedente versione David Bowman doveva camminare nella sala e incontrare il Monolito il quale, a sua volta era stato immaginato di forma tetraedrica e poi, quando si è giunti al ben noto parallelepipedo, sono stati usati ben cinque monoliti nel film: erano lunghi quasi un metro ed uno di essi superava i tre metri. Anche l’inizio del film ha subito una variazione. Come avevamo detto, l’inizio della pellicola doveva aprirsi con interventi sulla possibilità di vita extraterrestre da parte di famosi esperti spaziali, biologi, chimici, astronomi, teologi.

Un’ultima curiosità sulla “Luna” o, meglio, sul terreno che gli astronauti calpestano: è stato ottenuto bagnando la sabbia, asciugandola e dandole un colore simile a quello della polvere lunare.

Il costo del film si è aggirato sui dieci milioni e mezzo di dollari in cinque anni di lavoro, la stessa cifra, si è fatto notare, che occorse per la costruzione del telescopio di cinque metri di diametro dell’Osservatorio di Monte Palomar, ancora oggi tra i più potenti del mondo.

Un ultimo, doveroso accenno, deve andare alle musiche di Richard Strauss, di John Strauss e di Aram Khachaturian, oltre a quelle realizzate da Gyorgi Ligeti, molto efficaci e adatte alle immagini. Altro merito di Kubrick è stato quello di saper scegliere ed accoppiare splendidamente le immagini ai suoni, avvicinando spesso il passato al futuro come nell’ormai storico “balletto spaziale” tra l’astronave e la stazione spaziale che si svolge al suono delle note del valzer di Strauss.

Giovanni Mongini